unnamed

Sui Valori assoluti e la loro fallace applicazione empirica.

Nella vita di tutti i giorni spesso usiamo con facilità dei termini diventati di uso comune che proprio per il fatto di essere diventati tali si sono svuotati un po’ del loro intrinseco valore; tanto che oramai non ci chiediamo più cosa significano in concreto.
Mi spiego meglio. Quante volte sentiamo dire: “Io amo Tizio (o un’altra determinata cosa o persona)” oppure “non trovo giusto che…” o ancora “non è giusto”. Queste preposizioni implicano alcuni concetti fondamentali come l’AMORE e la GIUSTIZIA, due tra i più grandi valori della vita. Ma in sé, cosa sono Amore e Giustizia? che significato e che valore hanno?

Passiamo una vita a dire di amare qualcuno o qualcosa e passiamo la stessa vita a cambiare idea a riguardo, questo dovrebbe portarci a pensare che l’Amore lo interpretiamo come un qualcosa di soggettivo, mutevole nel tempo e nello spazio. Anche per ciò che concerne la Giustizia, la frase “non trovo giusto”, che spesso viene pronunciata, implica che qualcosa non appare “giusto” PER NOI, ciò implica a sua volta che abbiamo un concetto di Giustizia molto soggettivo, capace di mutar forma nel tempo e nello spazio. Anche se consideriamo l’idea di Giustizia “istituzionale”, questa non è mai assoluta, ma cambia nel tempo, al mutare della società e cambia nello spazio. Ciò che era considerato “giusto” dall’apparato statale nel 1800 non è considerato parimenti “giusto” nel 2020 e ciò che nel 2020 è considerato “giusto” in Italia, può non essere considerato tale in Indonesia.

Tali grandi valori menzionati sono poi veicolati da noi esseri umani che in quanto tali non abbiamo il dono della perfezione, pertanto, questi concetti metafisici e “ideali” si incarnano nella forma fisica umana e si traducono in realtà empirica, in esperienza.
Ma questo passaggio dal mondo delle idee al mondo fisico e concreto non è poco traumatizzante. Questo parto ha un suo travaglio e genera il suo figlio imperfetto. Diventando carne il concetto perde la sua purezza e diviene imperfetto come l’uomo.
L’Amore in sé è un concetto metafisico perfetto, il vero Amore può appartenere solo a qualcosa di assoluto e perfetto. Non a caso la teologia attribuisce questo valore a Dio (1^ lettera di Giovanni cap. 4), questi è l’unico essere perfetto in grado di provare il concetto puro e perfetto di Amore. Ma se “Dio è Amore”, l’uomo come può, nella sua imperfezione, essere Amore? “Aut – Aut”; o l’uomo è Dio o l’uomo non può sperimentare il concetto puro di Amore. Escludendo che l’uomo sia Dio (se consideriamo Dio come un parametro di perfezione, al di là della fede e del concetto religioso di divinità), dobbiamo giungere alla conclusione che l’uomo non prova Amore ma è un mero interprete di un concetto assoluto di cui non potrà mai essere portatore. Parimenti il discorso può farsi riguardo la Giustizia. Se questa è un valore assoluto che può appartenere solo ad un essere perfetto, ed anche qui la teologia lo attribuisce a Dio quale simbolo della “perfetta giustizia” (Giobbe, 37:23), noi non siamo che meri e fallaci interpreti che non possono conoscere la vera Giustizia, ma solo una sua soggettiva e parziale teorizzazione e applicazione.
Per queste ragioni l’uomo non può sperare in una esperienza totalizzante che gli sarà sempre preclusa malgrado i suoi vani sforzi. I valori assoluti non ci potranno mai appartenere e le uniche armi da affinare per combattere questo dissidio e questa nebbia che ci avvolge sono la consapevolezza e l’accettazione.

foto

La compassione dell’idiota

“La baciavo non perché fossi innamorato di lei, ma perché mi faceva tanta compassione,
e fin dall’inizio non l’avevo affatto ritenuta colpevole, ma solo disgraziata.”

(A tutte le Marie del mondo…)

Un atto di compassione, un semplice bacio, un gesto d’amore nei confronti del prossimo; no, non parliamo di quella forma di amore passionale o sensuale tra uomo e donna, ma di amore come concetto universale e profondo. Questo provava l’ingenuo principe nei confronti dell’ultima tra gli ultimi, Marie, la giovinetta cenciosa, magrolina e malaticcia del paesello.
Marie rappresenta l’umile emarginata di una società che addita gli sventurati, i più deboli, gli inermi, coloro sui quali è più facile riversare i sentimenti reconditi d’odio che sedimentano nel fondo dell’animo umano. Marie vestita di stracci, oggetto di scherno degli ubriachi del paese che ridono della sua miseria e si divertono a vederla bocconi a raccogliere umilmente quei pochi spiccioli che gli lanciano in terra. Creatura alla quale tutto è stato tolto, anche la sua identità e dignità di donna, invisibile e allo stesso tempo capro espiatorio di colpe mai avute.
Che pena faceva quella Marie di cui nemmeno la Chiesa sembrava provare la minima compassione, alla quale il pastore del paese dispensava qualche avanzo della sua mensa come fosse stata un cane randagio. Era proprio questo che era, una randagia in cerca di un padrone amorevole, di una carezza o di una spalla sulla quale appoggiarsi quando la fatica della malattia le schiacciava il petto o la stanchezza le attanagliava le membra.
In questa vita grama e buia che giorno dopo giorno si ripeteva sempre uguale e insopportabile per i più, un raggio di luce improvviso, la salvifica e compassionevole luce del principe Myškin; l’idiota, l’eterno fanciullo, il Cristo moderno. Lui con la sua schiera di “discepoli” fanciulli conquistati con gesti e parole semplici, educati alla compassione e all’empatia e sottratti alla adulta cieca crudeltà offrivano una speranza alla povera e desolata Marie.
Questo puro sentimento cristiano, rivoluzionario, che sfidava il mondo adulto e pregno di bieco pregiudizio del paese per schierarsi a favore dei diseredati dando cibo agli affamati, privandosi “francescanamente” dei pochi beni per donarli a chi ne ha più bisogno, predicando amore e non risentimento o pregiudizio o peggio ancora violenza,  era l’essenza  dell’insegnamento pedagogico del principe.
Di lì a poco tempo Marie morì, sottratta giovane alla vita dalla malattia, ma quell’amore profuso, quelle carezze e quel bacio la accompagnarono nei suoi ultimi scampoli di vita sofferta. Quella bontà quasi divina del principe e dei suoi discepoli le fecero dimenticare la miseria buia della sua vita dandole felicità e facendole abbandonare con un sorriso questo assurdo mondo terreno. Da loro ottenne il perdono e l’assoluzione per i suoi peccati e la sua anima si fece più leggera e pronta a volare via.
Gli “adulti” del paese con il dott. Schneider in testa non riuscirono mai a comprendere la lezione impartita dal principe dei bambini, forse per mancanza di predisposizione d’ animo o forse perché crescendo alcuni adulti perdono il loro lato fanciullesco e innocente e costruiscono muri, barriere, appongono chiavistelli alle porte, si armano e attendono sempre lo scontro per poter primeggiare e schiacciare qualcuno, preferibilmente qualcuno più debole di loro contro il quale la vittoria si prospetta facile.
“[Il dott. Schneider] mi disse d’esser pienamente convinto che io stesso ero un fanciullo in tutto e per tutto, cioè completamente un bambino, che dell’adulto avevo soltanto la statura e il viso, ma come sviluppo, come anima, carattere e forse anche intelligenza non ero adulto, e così sarei rimasto anche se fossi vissuto fino a sessant’anni.”

Tutto il sentimento spirituale e cristiano dell’autore traspare in queste pagine e in questo passaggio che pare collegarsi a doppio filo con le sacre scritture:

“lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso.” 

Forse ciò che viene riscontrato al principe, la sua malattia, il suo difetto, la sua “idiozia” è proprio quello che salva l’uomo e lo fa assurgere al “regno di Dio”, diversamente dal popolo del paesello, troppo “adulto” e troppo cresciuto (in maniera errata). Il principe è idiota, Cristo stesso è idiota e forse oggi avremmo bisogno di più sana “idiozia”.

(Tratto da F. Dostoevskij: L’idiota)