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L’umanità ritrovata (?)

Mal sopporto e guardo con molta diffidenza questa presunta “umanità ritrovata” che ultimamente si sta sbandierando sui social.
Facciamo i flashmob di ogni tipo per dimostrare vicinanza e cordoglio; intoniamo l’inno italiano sventolando il tricolore, cantiamo, balliamo, facciamo baccano, tutto in nome di un “restare umani”, di un sentirsi popolo. Tutte ipocrisie dettate dal momento. Non esiste questa solidarietà umana, non c’è alcuna verginità ritrovata. Questo assembramento spirituale di facciata è la semplice risposta più banale alla paura. Non ce ne frega nulla dell’altra persona, abbiamo bisogno di sentirci vicini per placare la nostra paura, è solo un’altra manifestazione dell’egoismo umano. L’uomo fin dalla notte dei tempi si riunisce in società più per timore che per amore verso il prossimo. Ovviamente non sto certo dicendo che quanto detto vale nel 100% dei casi, in ogni contesto argomentativo ci sono le dovute eccezioni e nelle eccezioni c’è comunque un margine di relatività. Intendo dire che magari non tutti gli uomini che abitano sulla terra sono egoisti e tra quelli egoisti non tutti sono egoisti al 100%, alcuni lo saranno in percentuali diverse. Insomma, sia chiaro, non ho la presunzione di essere oggettivo (anche perché non conosco i quasi otto miliardi circa di abitanti del pianeta terra e me ne guarderei bene dal farlo). E’ più che naturale avere paura, è inutile perfino dirlo, ma il punto è come reagire alla paura. Il mezzo più facile è quello di creare una illusione confortante; la religione ci ha insegnato che se vuoi combattere la paura devi inventarti Dio e il meccanismo è più o meno quello. Ad oggi combattiamo la paura, una paura alla quale molti non erano abituati e non avevano mai sperimentato, con l’illusione di essere tutti uniti…almeno finché il pericolo resta vivo, perché dopo di ciò ognuno prenderà la sua strada, così come faceva prima. Siamo tutti uniti ma comunque in cuor nostro siamo “sollevati” che la catastrofe sia altrove, come eravamo spensierati quando era solo in Cina o quando la fame e l’ebola decimavano villaggi in Africa. Siamo uniti ma “meglio altrove che qui”, “meglio ad altri che a me” e il bello è che il ragionamento, seppur cinico, è giusto e assolve all’istinto di sopravvivenza. Ci dispiace, certo, ma “meglio a loro che a me”. Certo ho timore per me ma più che altro per la mia famiglia e in subordine per quelle persone che ad oggi combattono in prima linea questo male, ma non riesco a sentirmi più “unito” o più “italiano” di quanto fossi prima. Peso il prossimo con la stessa diffidenza e con la stessa distanza di prima, non mi interessa “abbracciare più forte” per trovare consolazione in un abbraccio momentaneo, non mi interessa cantare l’inno o mettere il tricolore alla finestra (non possiedo nemmeno il tricolore) perché non dimentico per paura cosa dovrebbe voler dire sentirsi popolo.
Si potrebbe dire che questa umanità sia genuina e non dettata in buona parte (notate sempre il mio essere relativo e mai assoluto) dalla paura, che l’Uomo ha capito. Beh, lasciatemi nutrire qualche dubbio e concedetemi una riflessione. Se domani questa epidemia cessasse e come per magia, come la manna dal cielo, calasse su di noi tanto benessere e ricchezza e salute e ogni dono possibile, gli uomini, immersi nella loro opulenza, si sbraccerebbero ancora per dimostrare a tutti i costi la loro “umanità” verso il prossimo?
A questa domanda non può darsi risposta certa e questa incertezza già mi basta come risposta e mi dimostra che il mio dubbio può essere legittimo

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I piagnistei dell’anima calata in una vita di plastica

Disclaimer: Il post che segue è stato ispirato da una pièce teatrale di Steven Berkoff intitolata “Kvetch”.
“Kvetch” è una parola Yiddish che vuol dire “piagnisteo“, riferito non al semplice atteggiamento lamentoso esteriore, ma ai “lamenti” interiori dell’anima, quelli più profondi. Pertanto invito, per capirne di più, a visionare l’opera citata.

I nomi citati nel post sono di pura invenzione e non si riferiscono ad alcuna persona in particolare, quindi se vi doveste riconoscere in uno dei personaggi sappiate che non siete voi il modello di riferimento, ma il fatto stesso di esservi immedesimati vuol dire che ho descritto qualcosa non tanto distante dalla realtà…


E’ tutto finto, non esiste nulla che possa definirsi autentico. Ciò che può definirsi minimamente tale è solo “ciarpame” da accantonare in un angolo, qualcosa di scomodo di cui liberarsi, da non ascoltare, da tenere lontano e additare con espressione canzonatoria di disgusto.
Ogni giorno come degli astuti mercanti cerchiamo di spacciare per oro del volgare ottone, cerchiamo di recitare al meglio il nostro copione e mantenere il ruolo che ci siamo dati.

C’è Mario, fisico atletico simbolo della virilità, con il suo sguardo fiero, il sorriso sornione che dispensa con generosità a tutti, sempre nel suo completo blue marine con camicia bianca dal colletto inamidato che fa da contrasto con l’abbronzatura ambrata. L’uomo sempre indaffarato, attivo, che vuole dimostrare la sua forza anche nel mondo degli affari, la sua competitività, il suo essere sempre al top nel suo microcosmo fatto di caffè offerti al bar e frasi motivazionali condivise su Facebook. L’uomo che alla domanda “Ciao Mario come và?” risponde sempre con un “BENONE” o “alla grande”. Dietro i completi dalle pieghe ben stirate e le cravatte annodate con un elegante nodo Windsor, Mario ha una paura fottuta. Ha paura di non realizzare i suoi obiettivi, ha paura di rimanere senza un euro in tasca, ha paura che gli altri non lo accettino per quello che è, ha paura di non piacere abbastanza, di non ESSERE abbastanza, di non aver soddisfatto le aspettative di quel padre che lo avrebbe voluto medico, di essere una delusione per le persone alle quali vuole bene.

C’è Mara, la donna forte e sicura di se dal look sempre curatissimo. Truccata finemente, capelli che hanno visto mille colori e acconciature diverse, accessori, tatuaggi che le fanno ricordare quella particolare vacanza tanto desiderata o una frase iper-positiva da recitare come un mantra. Parla con loquacità, si mostra disponibile e così sicura di sé che gli altri arrivano perfino a crederle. E’ la classica amica di tutti, piace a tutti, tanti vorrebbero averla come donna al proprio fianco o quantomeno come donna nel proprio letto.
Ma quell’impalcatura di cipria e mascara tanto ammaliante di giorno si scioglie in caldi rivoli che macchiano il cuscino ogni notte. La paura di rimanere da sola, di invecchiare velocemente in solitudine, l’incubo dello specchio che le restituisce un’immagine segnata di cui finge di andar fiera ma con la quale deve fare i conti ogni giorno.

Poi c’è Riccardo che ha paura che un qualche strano, oscuro ed improvviso male lo stronchi prima che sia riuscito a far qualcosa che ha pianificato di fare nella sua vita ma che rimanda, per paura di non riuscire o per semplice generica paura di fare un passo al di là del suo limite.
C’è Antonio che ha paura perchè non sa cosa fare di una vita nella quale le “cose belle” non sembrano essergli concesse mai e i giorni gli sfuggono dalle mani troppo velocemente per agguantarli.
Marco ha paura di non riuscire a gestire sempre la situazione, ha paura di volare come ha paura di far tardi a lavoro o di parlare con quella collega che tanto gli piacerebbe invitare fuori per bere qualcosa.
Lucia ha paura di mollare il suo lavoro sottopagato per tentare di intraprendere la sua strada, Giovanna ha paura della spirale di vacuità nella quale si è persa, Alberto ha paura del mondo, di sentirsi inadeguato, di vivere e ogni giorno pensa a come dovrebbe alleviare il mondo dalla propria ingombrante e inutile presenza.

Tutte queste persone e molte altre ancora calcano ogni giorno il palco dove si svolge la recita, spesso monotona, della nostra vita; sono il nostro collega di lavoro, il ragazzo che ci serve il caffè al bar, la commessa del negozio e tutte hanno in comune una cosa sola, la PAURA che si cela alla bell’e meglio dietro le loro maschere quotidiane. Una paura che spaventa così tanto da rappresentare un tabù da celare con estrema pudicizia, come qualcosa di cui aver estrema vergogna.

Tutto diventa una recita, uno spettacolo con repliche continue, una finzione per ingannare gli altri ma che non convince poi a pieno noi stessi, attori di questa assurda commedia consapevoli del nostro ruolo meramente attoriale, perchè l’attore sa di essere alla fine solo una maschera. Ciò che è  davvero reale non è la vita come la percepiamo, ma la vita che viviamo dentro le nostre coscienze, nei nostri “kvetch” quotidiani e quando siamo soli con noi stessi.

Ma se domani tutti confessassero le proprie paure, queste avrebbero tutte ancora ragione di esistere…?