Monet: Angolo del giardino a Montgeron

La nuova alba

Il sole sorge dietro i monti dalle vette imbiancate da una strana e gelida neve primaverile e ricopre i campi umidi di brina con il suo delicato velo ambrato. Nelle campagne addormentate regna la quiete tra gli immobili alberi di pesco infiocchettati di fiorellini rosa pallido mentre uno stormo di uccelletti appollaiati tra i rami intona un canto melodioso al nuovo giorno. Un uomo imbacuccato e intirizzito dal freddo mattutino esce sul balcone, si guarda intorno mentre stringe nella sua mano la sua tazza fumante. Annusa l’aria fresca del mattino con una espressione di compiacimento; si appoggia alla balaustra del balconcino mentre ascolta il piccolo coro dei pennuti nascosti tra le fronde e distrattamente con la mano accarezza la piantina di geranio rosso, staccandone le foglie secche e accartocciate. Un altro sorso dalla tazza e un altro sguardo al di là della campagna solitaria, verso quelle montagne lontane e azzurrine. Il sole si alza nel cielo e la marea dei suoi raggi investe palazzi, terrazze, strade, ma tutto resta ancora innaturalmente silenzioso. E’ un altro giorno dormiente per il mondo, uno dei tanti di questo periodo; uno di quei giorni sempre uguali che si susseguono, consumati in casa, nelle cucine laboriose e fumanti o sprofondati nei morbidi letti o in comode poltrone mentre fuori la vita, diversa da quella che era, continua a scorrere nella maniera più naturale che esista. Le piogge continuano a lavare le strade deserte e a scorrere in piccoli rigagnoli verso le grate dove cadono in piccole cascate sonanti e gorgoglianti. Le insegne sono spente, i negozi abbandonati, nelle vetrine solo i manichini restano di guardia nella loro immobilità ferma nel tempo, come se qualcuno avesse messo in pausa la vita. I marciapiedi sono desolati e nella zona del mercato, sempre ingombra ed affollata di voci che si sovrappongono e di vita, ora c’è silenzio e si sente solo il rumore della brezza leggera che lascia ondeggiare qualche arbusto. Sul lungomare un tempo affollato dai turisti non si sente più il calpestio di mille suole, di voci o il tintinnare di bicchieri e posate dei ristoranti, ma solo il rumore delle onde che si infrangono contro gli scogli sommergendoli di spuma salmastra; anche le imbarcazioni e i pescherecci sono abbandonati come navi fantasma alla deriva in balia di Poseidone ritornato ad appropriarsi del suo regno. Le piante dei boschi fioriscono, spuntano le gemme e i fiori che emanano profumi intensi sotto un cielo più terso e silenzioso, incuranti del mondo che li circonda. I prati si accendono di un verde più intenso, i corsi d’acqua scorrono più limpidi e musicali e ogni animale, dal merlo corvino al più piccolo bruco, fa timidamente capolino dalla propria tana riconquistandosi quegli spazi naturali che gli erano stati sottratti dall’Uomo. A tutto questo pensa quell’uomo immerso nelle sue fantasticherie sul davanzale, mentre le ore del primo mattino scorrono placidamente e sul fondo della sua tazza resta solo la galleggiante posa raffreddata del tè. Quali mirabili cambiamenti e quanti ricchi e vivi dialoghi si consumano nell’assoluto silenzio della natura. E’ davvero cambiato il mondo? No, forse l’unica differenza è che ora l’Uomo fa meno rumore e ha più tempo per poterne ascoltare la voce.

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La Passeggiata

Passeggiando lungo la strada acciottolata di via Vodickova, dove i palazzi in stile liberty si illuminano delle luci al neon verdi e dei colori delle insegne dei negozi e dove antico e moderno si fondono in una sola e unica creatura che è la città di Praga, perla adagiata sulle coste della Moldava, si incontra il Kino Svetozor. Sotto una pensilina che dà sul marciapiedi decorato con un mosaico dalle forme geometriche e gremito di passanti, campeggia l’insegna al neon sporca e annerita dal tempo “KINO SVETOZOR” in caratteri rossi e bianchi. Il Kino altro non è che una sala da cinema indipendente, una struttura che sembra essere rimasta ferma al periodo socialista degli anni settanta e ottanta. Entrando nella galleria inglobata all’interno di un imponente palazzone squadrato dal colore scuro ci sono una serie di negozietti, una mensa che un tempo era destinata ai lavoratori del settore industriale e che ora continua ad offrire cibo tipico come attività folcloristica per i turisti ed alcuni altri piccoli esercizi dove è possibile acquistare ogni tipo di stuzzicheria alimentare. Mentre cammino su quel pavimento di mattonelle bianche e usurate dal tempo mi perdo in mille fantasticherie mentre la mia immagine si riflette nelle teche di plexiglass dove sono esposte le locandine dei film in proiezione. Penso a quelle piccole salette cinematografiche pregne di fumo bluastro, alle poltroncine di tessuto bordeaux impregnate dell’odore del tabacco e con segni di bruciature. Sembra di vedere il fascio luminoso che proietta dall’alto le immagini sbiadite sullo schermo bianco; un mondo che oggi non ha nulla a che vedere con la modernità delle grandi sale da cinema ipertecnologiche e super accessoriate. Voglio pensare che questa sala sia rimasta ancora come un tempo, uno degli ultimi baluardi di antichità per i nostalgici avventori. E’ una tarda mattinata d’agosto non eccessivamente calda, la brezza tiepida accarezza le braccia nude e all’interno della galleria coperta si avverte da subito il fresco refrigerio. E’ l’ora in cui l’appetito inizia a farsi sentire, stimolato anche dalla lunga passeggiata mattutina. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, in ogni angolo c’è una tavola calda con la sua insegna al neon o il suo menù dai colori sgargianti che sembra chiamarti per offrirti le sue specialità; c’è un chiosco che offre specialità russe, un altro che offre piatti elaborati di cucina cinese, ma la mia attenzione è rivolta all’ Ovocny, un moderno e luminoso take away che offre spuntini semplici della cucina locale. Mi faccio strada nella ressa, tra i banconi bianchi lucenti e le vetrine stracolme di ogni tipo di pietanza, dal dolce al salato. E’ un tripudio di colori; il bruno della glassa caramellata sulle torte, il rosso acceso dei frutti di bosco e delle fragole che guarniscono invitanti pasticcini, il giallo vivo e caldo delle spremute di frutta e delle creme. Scegliere è una impresa ardua. Opto per i classici chlebicky assortiti e ritiro il mio pacchetto gentilmente preparato da una ragazza biondina e sorridente con un cappellino rosso e una maglietta a mezze maniche bianche. Le ricambio il sorriso come forma di ringraziamento e di saluto e mi incammino per la mia strada. Superata la galleria dalla volta vetrata che la fa somigliare più ad una specie di serra senza arbusti mi trovo in una piccola strettoia all’aperto, sulla mia destra un piccolo negozietto di capi d’abbigliamento alquanto kitsch. La vetrina mi sembra allestita in modo grossolano e confuso e all’interno tutto sembra tacere e i manichini stessi sembrano più inanimati del solito ed avvolti in una penombra di quieta sonnolenza. Ma ad un certo punto mi ritrovo dinanzi ad una grande porta in ferro battuto decorata da illustrazioni in bassorilievo, dinanzi a me si estende la valle dell’Eden, un giardino tranquillo, pieno di colori che luccicano ai raggi del sole caldo. Come attratto dai richiami delle ninfe che popolano quel piccolo polmone verde entro e in punta di piedi, delicatamente come per non disturbare la magia di quel luogo, inizio a passeggiare guardandomi intorno. La maestosa chiesa della Vergine della neve sovrasta l’antico giardino e lo osserva da secoli come un guardiano dalle sue alte ed imponenti finestre. Sembra di aver varcato il portale per un’altra dimensione dove il tempo non esiste più. Tutto intorno sembra risuonare la musica delle danze slave di Dvorak in quel tripudio di colori e sotto ai porticati grondanti rose rosse. Gli archi in ferro battuto laccato di bianco sono adornati di rampicanti e sembrano fantasie pittoriche di Mucha e tutto intorno è un dedalo di squadrate siepi di tasso. Perdersi in quell’isola verde è così sublime che la mente viaggia e immagina, al posto delle figure di uomini e donne adagiati pigramente sulle panchine, danzanti ballerini sui prati verdi e tra gli alberi da frutto o dietro le siepi di piante aromatiche che sprigionano afrori che si disperdono nell’aria come nuvole colorate che affrescano tele di pittori di altre e remote epoche. Uomini con cappelli a cilindro, bastoni da passeggio e folti baffi bianchi si accompagnano a dame dai vestiti pomposi e sgargianti dando loro il braccio e che diffondono un dolce e fresco profumo floreale. Sorridono gioviali e passano oltre. Una distesa di alberi come soldati schierati fianco a fianco coprono la vista dei palazzi circostanti come voler preservare quel luogo sacro dove vige il dominio della natura e delle sue creature dai molteplici colori. Attraverso gli alberi dai frutti rossi e maturi si imbocca il sentiero che conduce all’uscita. Altri pochi metri nel labirinto verde e ritorna la coscienza del tempo presente; un tram che sferraglia sulle rotaie, una macchina ferma in sosta, i soliti negozi dalle insegne al neon. Si ritorna ahimè alla vita.

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Il Gioco

E’ l’alba di un nuovo giorno. Il pulviscolo danza nella luce dei raggi solari che filtrano tra le persiane abbassate, una cappa di afa mi si appiccica addosso come una pellicola umidiccia. Sono intontito come ad ogni risveglio, resto immobile incatenato al materasso rovente mentre gli occhi mi roteano nelle orbite fissando le effigi spettrali che mi circondano nella penombra della stanza. I pensieri sono confusi, annodati come i miei capelli arruffati sul cuscino e si mescolano con gli ultimi scampoli delle visioni oniriche ed immaginifiche che sfumano e si dissolvono nell’aria soffocante. Tutto è confusione.
Piano piano la nebbia del sonno si dirada, la mente diventa più lucida, sento il corpo intorpidito che riprende coscienza di se stesso; ho un corpo…
Che ore saranno? allungo la mano che in maniera cieca cerca la sveglia sulla mensola in alto, sopra la mia testa; le sette del mattino, di già.
Anche stanotte ho combattuto; contro i sogni, contro i pensieri, contro me stesso. Tutto intorno è il solito caos di sempre, di chi non trova pace nemmeno nel sonno;il lenzuolo è aggrovigliato ai piedi del letto e penzola sul pavimento, un cuscino è in bilico sul bordo come un equilibrista sulla sua corda, tutto è precario, sospeso nel vuoto, dentro e fuori allo stesso tempo. Mi alzo e mi appoggio contro la spalliera del letto, boccheggio con il petto nudo imperlato di sudore e il contatto del ferro fresco contro la schiena umida mi dà un brivido. Sono sveglio ora, resto a fissare le piccole particelle di polvere che danzano nell’aria e intanto rimetto insieme i pezzi. Devo pensare e ricordarmi cosa è accaduto il giorno prima, devo ricordarmi chi sono, cosa sono e cosa mi ha fatto diventare quello che si sveglia ogni mattina in questo letto. Sì ecco, ora poco a poco inizio a ricordare, il sonno può essere il più forte degli anestetici, peccato duri troppo poco…
Mi alzo barcollando e zigzagando tra le macerie che giacciono sul pavimento; bottiglie, scarpe, libri; è tutto disordinato e senza nesso logico come la vita che conduco. Mi reco verso la scrivania come ogni mattina, apro il cassetto e lì dentro, riposto in un drappo rosso e logoro c’è il mio “oracolo”, una Smith & Wesson mod. 64-2 calibro 38 special con un solo colpo nel tamburo. La impugno saldamente, con la mano sinistra faccio ruotare rapidamente il tamburo che scorre rapido e ticchettante come una roulette; il silenzio della camera viene infranto dal suono dell’ingranaggio metallico, poi si ferma, tutto tace ancora una volta. E’ il momento di puntare la posta, mi gioco tutto ogni dannato giorno, ancora e ancora. Tutto dipende da questo giro di roulette; vincerò un altro giorno? godrò del lusso di altre ventiquattro ore di esistenza? ventiquattro ore in cui le combinazioni di eventi sono infinite, sono solo ventiquattro ore ma possono valere una vita intera. Uscirò di qui con la felicità del vincitore che ha sbancato al casinò, pronto ad afferrare qualsiasi possibilità mi si pari innanzi; diventerò magari ricco, incontrerò la donna della mia vita, troverò qualcosa per cui essere grato e felice, chissà quante cose possono accadere in sole ventiquattro ore. Oppure posso perdere tutto proprio ora. Se la fortuna dovesse essere a me avversa proprio oggi perderei tutto in un attimo, un boato e poi il buio eterno. Ma questa cosa è necessaria, devo meritarmele queste ventiquattro ore, non posso riceverle come se mi fossero semplicemente dovute, quante persone lì fuori le accettano senza chiedersi nulla, come se fosse un loro diritto acquisito e finiscono poi per sprecarle, nulla mi è dovuto! Quando qualcosa ti viene elargita con estrema magnanimità diventa una abitudine scontata, un qualcosa a cui non dai più valore, la tua vita non vale niente se non la vinci e se non metti sul tavolo la possibilità di perderla ogni giorno. Se ogni mattina al mio risveglio qualcuno mi donasse una banconota da cinquecento euro probabilmente a lungo andare quel denaro perderebbe per me il suo valore, lo sprecherei conscio che ogni giorno ne avrei del nuovo senza dover far nulla per meritarmelo. E mi darebbe piacere o gioia tutto questo? Forse per i primi tempi ma poi, passata la novità, tutto diventerebbe norma, apatia, noia.
Per questo è necessario che io lo faccia, che ogni mattina io impugni quest’arma e mi affidi alla dea bendata giocando; o tutto o niente, o gratitudine o morte.
Porto la pistola alla tempia, strizzo gli occhi, l’acciaio della canna è freddo e sento tutto il peso della scelta che grava nella mia mano, questa pistola sembra pesare sempre di più ad ogni secondo che passa. Il cane è alzato, il dito indice accarezza con delicatezza l’acciaio cromato del grilletto e indugia. E’ giunto il momento, “rien ne va plus”, l’indice preme deciso sul grilletto –“click” –.
Il banco vince, mi sono guadagnato la mia esistenza…anche oggi.

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I piagnistei dell’anima calata in una vita di plastica

Disclaimer: Il post che segue è stato ispirato da una pièce teatrale di Steven Berkoff intitolata “Kvetch”.
“Kvetch” è una parola Yiddish che vuol dire “piagnisteo“, riferito non al semplice atteggiamento lamentoso esteriore, ma ai “lamenti” interiori dell’anima, quelli più profondi. Pertanto invito, per capirne di più, a visionare l’opera citata.

I nomi citati nel post sono di pura invenzione e non si riferiscono ad alcuna persona in particolare, quindi se vi doveste riconoscere in uno dei personaggi sappiate che non siete voi il modello di riferimento, ma il fatto stesso di esservi immedesimati vuol dire che ho descritto qualcosa non tanto distante dalla realtà…


E’ tutto finto, non esiste nulla che possa definirsi autentico. Ciò che può definirsi minimamente tale è solo “ciarpame” da accantonare in un angolo, qualcosa di scomodo di cui liberarsi, da non ascoltare, da tenere lontano e additare con espressione canzonatoria di disgusto.
Ogni giorno come degli astuti mercanti cerchiamo di spacciare per oro del volgare ottone, cerchiamo di recitare al meglio il nostro copione e mantenere il ruolo che ci siamo dati.

C’è Mario, fisico atletico simbolo della virilità, con il suo sguardo fiero, il sorriso sornione che dispensa con generosità a tutti, sempre nel suo completo blue marine con camicia bianca dal colletto inamidato che fa da contrasto con l’abbronzatura ambrata. L’uomo sempre indaffarato, attivo, che vuole dimostrare la sua forza anche nel mondo degli affari, la sua competitività, il suo essere sempre al top nel suo microcosmo fatto di caffè offerti al bar e frasi motivazionali condivise su Facebook. L’uomo che alla domanda “Ciao Mario come và?” risponde sempre con un “BENONE” o “alla grande”. Dietro i completi dalle pieghe ben stirate e le cravatte annodate con un elegante nodo Windsor, Mario ha una paura fottuta. Ha paura di non realizzare i suoi obiettivi, ha paura di rimanere senza un euro in tasca, ha paura che gli altri non lo accettino per quello che è, ha paura di non piacere abbastanza, di non ESSERE abbastanza, di non aver soddisfatto le aspettative di quel padre che lo avrebbe voluto medico, di essere una delusione per le persone alle quali vuole bene.

C’è Mara, la donna forte e sicura di se dal look sempre curatissimo. Truccata finemente, capelli che hanno visto mille colori e acconciature diverse, accessori, tatuaggi che le fanno ricordare quella particolare vacanza tanto desiderata o una frase iper-positiva da recitare come un mantra. Parla con loquacità, si mostra disponibile e così sicura di sé che gli altri arrivano perfino a crederle. E’ la classica amica di tutti, piace a tutti, tanti vorrebbero averla come donna al proprio fianco o quantomeno come donna nel proprio letto.
Ma quell’impalcatura di cipria e mascara tanto ammaliante di giorno si scioglie in caldi rivoli che macchiano il cuscino ogni notte. La paura di rimanere da sola, di invecchiare velocemente in solitudine, l’incubo dello specchio che le restituisce un’immagine segnata di cui finge di andar fiera ma con la quale deve fare i conti ogni giorno.

Poi c’è Riccardo che ha paura che un qualche strano, oscuro ed improvviso male lo stronchi prima che sia riuscito a far qualcosa che ha pianificato di fare nella sua vita ma che rimanda, per paura di non riuscire o per semplice generica paura di fare un passo al di là del suo limite.
C’è Antonio che ha paura perchè non sa cosa fare di una vita nella quale le “cose belle” non sembrano essergli concesse mai e i giorni gli sfuggono dalle mani troppo velocemente per agguantarli.
Marco ha paura di non riuscire a gestire sempre la situazione, ha paura di volare come ha paura di far tardi a lavoro o di parlare con quella collega che tanto gli piacerebbe invitare fuori per bere qualcosa.
Lucia ha paura di mollare il suo lavoro sottopagato per tentare di intraprendere la sua strada, Giovanna ha paura della spirale di vacuità nella quale si è persa, Alberto ha paura del mondo, di sentirsi inadeguato, di vivere e ogni giorno pensa a come dovrebbe alleviare il mondo dalla propria ingombrante e inutile presenza.

Tutte queste persone e molte altre ancora calcano ogni giorno il palco dove si svolge la recita, spesso monotona, della nostra vita; sono il nostro collega di lavoro, il ragazzo che ci serve il caffè al bar, la commessa del negozio e tutte hanno in comune una cosa sola, la PAURA che si cela alla bell’e meglio dietro le loro maschere quotidiane. Una paura che spaventa così tanto da rappresentare un tabù da celare con estrema pudicizia, come qualcosa di cui aver estrema vergogna.

Tutto diventa una recita, uno spettacolo con repliche continue, una finzione per ingannare gli altri ma che non convince poi a pieno noi stessi, attori di questa assurda commedia consapevoli del nostro ruolo meramente attoriale, perchè l’attore sa di essere alla fine solo una maschera. Ciò che è  davvero reale non è la vita come la percepiamo, ma la vita che viviamo dentro le nostre coscienze, nei nostri “kvetch” quotidiani e quando siamo soli con noi stessi.

Ma se domani tutti confessassero le proprie paure, queste avrebbero tutte ancora ragione di esistere…?

La sublime arte della Solitudine

Tra le tante materie che NON ti insegnano a scuola (e che invece dovrebbero) ce n’è una che mi è venuta in mente in questi giorni, mentre me ne stavo in cucina a lavare i piatti nel più totale silenzio di un pomeriggio di agosto. Non ci insegnano di avere a che fare con noi stessi ed in particolare non si fa educazione alla solitudine che è a mio avviso un’arte che va coltivata ed affinata.
E’ un qualcosa di impegnativo che richiede sacrificio e sforzo per qualcuno, ma è uno sforzo da compiere, così come è faticoso andare in palestra per fare un bel fisico scolpito e stare in forma. Molti si preoccupano molto del proprio fisico e del loro aspetto esteriore, sudano in palestra, si sottopongono a trattamenti dolorosi o invasivi, in breve fanno sacrifici, ma forse in pochi sono disposti a fare sacrifici per sviluppare un qualcosa di più intimo.

Sicuramente molto può influire l’attitudine “innata”; ad alcuni non pesa molto andare in palestra, non la vivono con sacrificio e fatica, così come ad alcuni risulta più facile stare da soli, semplicemente perché ci sono portati o abituati, magari perché hanno iniziato a far “pratica” e ad “allenarsi” in modo inconsapevole, trovandosi ad una certa età già con delle belle spalle larghe.
Si fa un gran parlare di “indipendenza” e “solitudine” sulle pagine di riviste più o meno patinate, spesso con fastidio noto che sembra che tali riviste vogliano strizzare l’occhio al lettore suggerendogli cose tipo: “sì, anche tu sei un figo solitario” (a prescindere se ciò sia vero), come se una persona che sceglie un grado più o meno marcato di solitudine sia un supereroe da ammirare. Ecco, togliamo quest’aura da “Übermensch” all’argomento che rischia di banalizzare un qualcosa che non è affatto banale, anzi.
Come dicevo, credo che soprattutto per alcuni sia necessario ed importante fare i conti con la “solitudine” e tentare di allenarsi per sviluppare questa dote che apporta anche notevoli benefici. A scuola ci hanno insegnato che l’uomo è un “animale sociale” (Aristotele), nella vita di tutti i giorni vediamo che questa “socialità”, sia essa sana o malata, si è spinta molto in avanti eliminando le barriere dello spazio,in una epoca delle connessioni a banda larga. Va tutto bene, nessuno pretende di predicare l’ascetismo o la “disconnessione”, ma dobbiamo fare attenzione perché tutto questo ha fatto sparire quel tempo in cui uno può giovarsi della compagnia di se stesso o dell’assenza totale di compagnia. Questo a mio avviso conduce ad un risultato poco piacevole: si ricerca la compagnia per noia, per incapacità di godere della solitudine. Vista sotto questa ottica la compagnia soddisfa un bisogno egoistico: “sto con te per non stare solo con me” che non è un “sto con te perché ho piacere a star con te” e ciò banalizza anche il concetto di compagnia, di amicizia, di amore, insomma di rapporto umano in senso lato.

Per questo motivo ritengo che tutti dovrebbero studiare e applicare come un esercizio l’arte della solitudine. Magari provando a sperimentare periodi di solitudine sempre maggiori, prima una sera, poi una intera giornata, poi una settimana e così via, fino a sentirsi a proprio agio e non sentire la necessità della compagnia. Ciò condurrebbe ad una serie di benefici: in primis, il venir meno della paura della solitudine (che molti hanno) comporterebbe l’acquisizione di maggior libertà di scelta; scelgo ciò che realmente mi piace fare, non qualcosa che non mi piace ma che rappresenta una fuga dallo stare da solo, in secundis il disinteresse dell’opinione altrui. Chi non teme di starsene appartato per conto suo non si pone il problema di dover essere in ogni caso accettato dagli altri, quindi non si sforzerà di piacere e di base rimarrà una persona “genuina”. Ma cosa di fondamentale importanza, padroneggiare l’arte della solitudine consentirebbe di valorizzare realmente la compagnia. Giacché chi sta bene da solo non ha bisogno per forza di compagnia perché non cerca rifugio da se stesso, quando questi decide di avvalersi della compagnia di qualcuno lo fa non per necessità, non con spirito egoistico, ma per puro piacere di godere della compagnia di un dato individuo. Questo comporta anche una automatica e conseguente selezione delle persone che riteniamo meritevoli di reale stima o quantomeno interessanti.

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L’unica vita possibile di Christopher McCandless

Oggi il sole ha ceduto il passo alle nuvole finalmente, la brezza rinfresca lievemente l’aria e i colori cupi avvolgono dolcemente questo piccolo angolo di mondo. Quale commistione migliore di eventi per dedicarsi ad un po’ di sana riflessione?

Riflettevo riguardo quel famoso film, “Into the Wild”, tratto dal romanzo intitolato “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer, che ahimè però non ho letto, anche se mi dicono che in pochi casi il film supera di gran lunga il libro e questo è uno di quei pochi casi.

La storia di Christopher McCandless o di Alexander Supertramp, come lo si voglia chiamare, è ben nota a molti oramai; un giovane ragazzo che decide di abbandonare tutte le ricchezze e gli agi famigliari, alla stregua di un novello San Francesco, per inseguire il sogno dell’Alaska e della vita selvaggia, sulle orme di autori quali Jack LondonHenry David Thoreau. Liberarsi di tutte le convenzioni sociali e dell’Uomo stesso, “love not Man the less, but Nature more” come diceva Lord Byron, uscire al di fuori dello schema preimpostato dimostrando che un’altra vita è possibile e forse può essere anche migliore perchè persegue quell’alto principio che è la libertà. La carriera? il matrimonio? convenzioni, il denaro? qualcosa di inutile che non fa altro che rendere schiavo l’uomo, agganciato sempre di più ai bisogni che la società crea ad hoc per lui, una società che sempre più punta alla iper-produzione e alla competitività, premiando non colui che ha merito ma colui che produce più bisogni virtuali, ponendo nei fatti l’uomo dinanzi ad un bivio:

  1.  soddisfare quei bisogni che man mano vengono “creati”
  2.  non riuscire soddisfare quei bisogni che la società mette in vetrina e agita come un biscotto dinanzi ad un cane affamato.

In entrambi i casi il risultato è uguale e fallimentare: l’insoddisfazione. Il soddisfacimento di alcuni bisogni comporta il loro superamento e la necessità di soddisfarne sempre degli altri, il che non porta mai un reale soddisfacimento. Allo stesso tempo il non riuscire a soddisfare un bisogno, (un’auto di lusso o un viaggio costoso o uno status symbol a caso) comporta insoddisfazione e frustrazione. Il punto è che è tutto fittizio. Esistono realmente questi bisogni? sono realmente bisogni? NO! e questo probabilmente McCandless lo aveva capito bene.

Era una sorta di asceta misantropo che odiava la società? Mah, probabilmente odiava la società in quanto istituzione e portatrice di certi valori distorti, forse odiava la modernità che aveva condotto dall’uomo libero all’uomo schiavo del consumo e delle merci, ma non credo fosse uno scontroso misantropo, non odiava l’Uomo, forse lo cercava come lo cercava Diogene (ma senza lanterna), cercava il concetto di Uomo e dove cercarlo se non all’interno della natura più selvaggia? nel seno che lo ha partorito? Probabilmente nel suo piccolo era un “filantropo” per quanto ci è dato sapere.

Molto spesso il commento che più facilmente si sente a riguardo della figura di Christopher McCandless è uno in particolare: “E’ stato stupido perchè non era adeguatamente preparato ed è morto come un fesso.”

Sì, a prima vista è ciò che sembrerebbe la conclusione più ovvia, ma allo stesso tempo la più superficiale o semplicistica che non prende in considerazione quanto c’è dietro. Christopher decide di affrontare un territorio impervio come l’Alaska, vivendo in un bus abbandonato (il famoso “Magic Bus”) e cavandosela con delle nozioni base di caccia o consultando libri sulle piante edibili, morendo poi probabilmente avvelenato da semi di una qualche pianta. Eppure no, a ben pensarci, malgrado tutto non è stato un idiota. L’idea personalissima che mi sono fatto è che è stato uno dei pochi uomini a morire per qualcosa in cui credeva, sebbene fosse folle l’idea di fuggire dalle regole della società vivendo basandosi solo sulle proprie forze di uomo “addomesticato” oramai dalla società e sempre più incapace di cavarsela nel suo ambiente naturale di appartenenza. Ma d’altra parte quanti pionieri sono morti per un principio o per una idea che altri consideravano folle?

Che forse la vita acquisti davvero significato solo se si è disposti ad accettare anche l’estrema conseguenza per un proprio ideale? Essere Uomo di “fede” (non intendo strettamente religiosa, ma anche nell’accezione “laica” del termine) è per pochi, essere disposti a morire per la propria “fede” è qualcosa di raro. Allora in questo caso sì, una vita così è l’unica vita possibile.

A. Hitchcock

La finestra sul cortile

Quella sera c’era un po’ di malinconia e di tristezza nell’aria, una sorta di delusione che ti attanaglia quando una persona che attendevi non si presenta all’appuntamento concordato. Ma noi non avevamo un appuntamento, non ci conoscevamo, eppure sentivo un forte legame fraterno che ci legava. Ogni sera tornando a casa stanco dal lavoro, trascinandomi dall’uscio fino alla stanza da letto che racchiudeva il mio piccolo microcosmo, ero solito gettare uno sguardo al di là della mia finestra, oltre il giardino, attraverso la fila di alberi, lì verso le finestre dei miei cari dirimpettai; i miei amici sconosciuti. Facevo questo gesto abitudinario come se fossi stato un padre di famiglia che al rientro a casa saluta i suoi cari e chiede loro con interesse e curiosità come sia andata la giornata, quella stessa apprensione affettuosa. Ma stasera non c’era nessuno. Le finestre erano chiuse, le luci erano spente, tutto taceva nell’ombra come se mai nessuno avesse abitato quella casa. Dov’erano finiti? in quali intrattenimenti piacevoli si abbandonavano? La loro compagnia distante mi mancava.
Ricordo quelle serate in cui tornando nella solitudine di casa, chiudendomi la porta alle spalle e lasciando il mondo caotico e rumoroso fuori di essa, potevo bearmi della compagnia allegra, silenziosa e non invadente dei miei buoni amici. Quelle finestre aperte e sempre illuminate da una calda luce, la televisione accesa che si scorgeva vicino alla parete al margine del balcone, il placido andirivieni  tra le stanze. Sulla sinistra, una finestrella stretta e allungata che doveva dare nella cucina; già mi immaginavo le cene che dovevano preparare, i profumi della cucina, l’allegria delle tavole imbandite, l’atmosfera conviviale e dopo quelle cene, adagiarsi sul divano pigramente per chiacchierare mentre la televisione proiettava immagini variopinte di sfondo. Me li immaginavo così, come amici fraterni che condividevano la stessa casa, un luogo dove regnava l’armonia, nel quale non esistevano malumori e tutti i problemi trovavano da soli la loro giusta soluzione. Quanto mi faceva star bene spiarli da lontano, rubare  piccoli spizzichi della loro felicità. Non mi sentivo un ladro per questo, più che altro un amico distante che intimamente e con discrezione condivideva con loro dei momenti di vita.
Il fatto che io non sapessi nulla di loro e delle loro vite rendeva tutto perfetto, perché potevo immaginare tutto proprio come lo avrei voluto io, ero il demiurgo delle mie fantasie, lo sceneggiatore della mia personale commedia.
L’uomo ha viscerale necessità di idealizzare le cose per conferirgli quella poesia di cui la realtà ne è priva.