Easy Rider

La rivoluzione su due ruote: buon compleanno Easy Rider.

Siamo nella calda estate del 1969, precisamente il 14 luglio 1969 e nella sala cinematografica Beeckman di New York viene proiettato quello che sarebbe divenuto un capolavoro della cinematografia americana e mondiale: “Easy Rider“, film diretto dal compianto Dennis Hopper e rientrato a pieno titolo nella lista dei migliori 100 film della storia del cinema.
Questo breve articolo non vuole essere una recensione del film, il web ne è pieno di recensioni di persone molto più capaci di me, quanto una personale celebrazione accorata per i suoi 50 anni attraverso un breve viaggio nel tempo, saltellando senza troppe pretese da un anno ad un altro e tra un evento e l’altro.

Cos’è Easy Rider? la risposta è molto semplice; la storia di due tizi in motocicletta che percorrono le strade americane dalla California a New Orleans. Sì ma che Paese realmente percorrevano Billy e Wyatt “Capitan America”?

Un Paese che stava subendo sicuramente profondi cambiamenti e rivoluzioni e che stava acquistando una nuova coscienza che si liberava di anno in anno da quel  torpore borghese e puritano. Un Paese che viveva nella paura e nell’apprensione per i padri, i figli e i fratelli che combattevano al fronte in Vietnam una guerra crudele e ampiamente contestata dai movimenti studenteschi pacifisti che vedevano l’appoggio di tutta la controcultura letteraria e artistica del tempo. I libri e le canzoni diventavano inni di libertà, manifesti di pace, martellanti sveglie per le coscienze ancora sopite, insomma c’era un fermento; il mostro della guerra aveva generato qualcosa che era difficile ostacolare perchè aveva più forza dei fucili e delle flotte spiegate al fronte.

Il film diretto da Hopper infatti si colloca anch’esso in quest’ottica anti-borghese e per certi versi anti-holliwoodiana rappresentando un nuovo modo di fare cinema; a basso budget, senza una troupe cinematografica e con un copione aperto che lasciava ampio spazio all’improvvisazione degli attori. Un film realistico, concreto, lontano dal glamour cinematografico e vicino alle comunità e alle persone vere, quegli hippy che in modo non professionale hanno dato il proprio apporto per le riprese del film.

La figura stessa dell’avvocato George Hanson  interpretato magistralmente da un giovane Jack Nicholson alle prime armi è di una importanza emblematica. Lui, un avvocato che dovrebbe rappresentare la classe borghese che si unisce al duo hippy perorandone la causa scevro da preconcetti e con la curiosità dell’uomo che ha in se il germe della Cultura. I temi da lui affrontati sono di una profondità e di una attualità che andrebbero insegnati nelle scuole, ogni sua riflessione offre spunti validi sul modello di società perfetta e utopica, sull’uomo e sulla natura delle droghe, evitandone la demonizzazione e preferendo un approccio più pragmatico.

“Vengono dal nostro sistema solare, solo che la loro società è più evoluta della nostra! Voglio dire che non hanno guerre, non hanno un sistema monetario e soprattutto non hanno capi, perché ognuno di loro è un capo. Voglio dire, ognuno, grazie alla loro tecnologia, è in condizione di nutrirsi, vestirsi, avere una casa, e circolare come vuole senza differenza ne’ sforzi.”  (George Hanson)

Alla guerra combattuta al fronte si scelse e si sentì forse l’esigenza di contrapporre l’amore quale reazione forte e automatica nei confronti delle tensioni politiche orientali, parliamo dell’amore hippy sfociato nella “Summer of Love” del 1967 tra le strade di Los Angeles che avrebbe avuto il suo culmine nel Festival di Woodstock appena un mese dopo l’uscita del film nelle sale. L’amore come strumento di rivendicazione di diritti contro i dettami puritani degli anni 50 e forma di emancipazione per la donna che porterà alla nascita dei primi movimenti femministi che si batterono per la conquista dei diritti civili.

Cominciarono a spuntare come funghi e si diffusero a velocità vertiginosa le prime comunità hippy come quella nel quartiere di Haight Ashbury a San Francisco, e con loro la diffusione delle droghe psicotrope come la marijuana e l’LSD. La droga diviene il viatico per il raggiungimento di stati di coscienza diversi, per la ricerca di una spiritualità anche per molti artisti del periodo che ne facevano largo uso e rappresenta lo strumento di rottura con quel tipo di società dalla quale si volevano prendere le distanze per fondarne una nuova basata sulla fratellanza e sulla comunione, “Come on and be a friend, don’t bogart that joint, my friend pass it over to me.” cantavano i Fraternity of Man in quegli anni.

I nostri moderni cavalieri si muovono proprio in questo substrato culturale, tra le comunità sparse di hippy che si dedicavano ad una vita semplice e quanto più autarchica possibile e il consumo di droghe (reale sul set) che aprono la mente a concetti ancora attualissimi e che hanno ad oggetto la libertà, l’uomo e la sua collocazione nella società come è e come dovrebbe idealmente essere. L’uso delle droghe, argomento spinoso in un film del 1969, è ben lungi dall’apparire meramente ricreativo e fine a se stesso, ma appare più come rituale sciamanico che ha lo scopo di sollevare quel velo di Maya per giungere ad una consapevolezza più profonda e quasi “esistenzialista” per certi versi. Billy e Wyatt sono uomini che rappresentano un concetto, un ideale di cui se ne sentiva grande necessità e di cui se ne sente necessità in ogni epoca storica essendo sempre attuale: la LIBERTÀ.

“è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.” (George Hanson)

Negli anni precedenti c’era stata una gran sete di libertà, nel 1963 avevamo assistito alla marcia su Washington per il lavoro e la libertà degli afroamericani, in quell’anno Martin Luther King aveva pronunciato le famose parole “i have a dream”, le comunità nere avevano iniziato ad alzare sempre più la voce chiedendo più diritti, equo trattamento, dignità, LIBERTÀ, sfociando in movimenti più radicali e oltranzisti del Black Power con Malcom X. Era un periodo di rivolta degli uomini, una rivolta fisica, spirituale e intellettuale.

Il film è un classico “road movie” e percorre le strade di un paese in rivolta, spaccato a metà: da un lato gli uomini liberi che inseguono il sogno della libertà, dall’altra gli uomini che la libertà la temono. Queste categorie sono in perenne lotta; i primi credono nel pacifismo, nella musica rock che fa da colonna sonora al film con brani degli Steppenwolf, Jimi Hendrix o i The Byrds, nelle droghe, nelle donne, nei capelli lunghi e nel look stravagante da moderni bohemien, i secondi credono nella repressione, nei fucili, nella diffidenza, nella xenofobia e nel pregiudizio.
I primi ripercorrono i sentieri già battuti nei primi anni 50 dagli esponenti e fondatori della Beat Generation, ne seguono le orme e riprendono il topos del viaggio che era stato reso celebre nel 1951 da Jack Kerouac nel suo romanzo “Sulla Strada“, dove si narravano le avventure dei due viaggiatori per eccellenza: Sal Paradise e Dean Moriarty.
Gli esponenti della Beat Generation si prefissavano un obiettivo sicuramente non facile, pregno di idealismo utopico forse e sicuramente rivoluzionario: “Aiuteremo a modificare le leggi che governavano i cosiddetti paesi civili di oggi: leggi che hanno coperto la Terra di polizia segreta, campi di concentramento, oppressione, schiavitù, guerra, morte” diceva Allen Ginsberg, quella “Terra” che invece risultava cara agli osteggiatori della libertà che si parano a più riprese “sulla strada” dei nostri eroi in motocicletta.
Loro sono i veri pionieri di un Paese da rifondare, i veri eroi di una rivoluzione donchisciottiana probabilmente, quelli che ci hanno creduto e quelli che dopo 50 anni forse continuano a crederci ancora.