Tana liberi tutti. Storia di una pandemia.

E anche questa quarantena l’abbiamo superata. Sembrava solo ieri che questa ennesima tegola inaspettata ed imprevedibile ci cadeva tra capo e collo ed ora ecco che il peggio è passato. No, scherzo, non c’è mai limite al peggio, non vi lasciate andare a facili entusiasmi e gioie ritrovate, il peggio lo vedremo con il passare del tempo, non disperate.
In ogni caso è terminato il “lockdown”, parola oramai entrata nel gergo collettivo, tradotta come “state chiusi in casa e nessuno si farà male”. Quante volte in due mesi abbiamo sentito la frase “state a casa”? Dal politico berciante alle sentinelle sui social, un solo grido, non LIBERTA’ come in Braveheart, l’opposto, “state a casa”. Ed io ci sono stato, eccome se ci sono stato. Io ho combattuto per il mio paese al meglio, ho contribuito alla nuova rinascita, ho cooperato con le istituzioni, sono diventato un patriota, un partigiano. Come? non facendo assolutamente un cazzo!
Oh, e lo ho fatto al meglio delle mie possibilità, sono una eccellenza nell’arte sopraffina di non fare una ceppa. Il governo non ha fatto altro che rendere legge le mie abitudini di vita e questo mi ha onorato lo ammetto. Me lo immagino un domani, quando racconterò da anziano le mie gesta ai miei nipoti.

– Sapete? vostro zio da giovane ha sconfitto una pandemia
– Oh zio, dicci come, raccontacelo, quali eroiche imprese?
– Sapeste miei cari ragazzi. Ricordo ancora la marcia quotidiana che affrontavo verso la cucina ogni mattino, sfidando le intemperie delle correnti d’aria provenienti dalle finestre aperte, l’alta temperatura delle gorgoglianti acque che ribollivano mentre mi preparavo il tè, le battaglie con la GESTAPO su Facebook che monitorava gli spostamenti di ogni individuo minacciando gavettoni e strali.
– Zio e cosa facevi tutto il giorno dopo queste eroiche missioni?
– Assolutamente un cazzo miei ragazzi. Leggevo, ascoltavo musica, guardavo una marea di film o serie tv e così facendo rendevo grande il mio paese.
– Zio ma narraci di quando hanno dato via libera ai congiunti? hai festeggiato?
– oh ingenua giovinezza, zio se n’è sbattuto la minchia anche in quella occasione, tanto non aveva congiunti e personalmente ritenne una bella mazzata l’aver concesso libertà alle genti.
– Ma zio e poi? ti ricordi del 18 maggio? ci furono acclamazioni per la ritrovata libertà?
– Oh no, la gente semplicemente non sapeva che pesci prendere, qualcuno pensò che tutto era finito, altri capirono che bisognava andarci cauti.
– E quindi “andò tutto bene”? trovaste un mondo nuovo, più bello, diverso?
– Oh no cari fanciulli, il mondo rimase bello solo per due mesi circa, quando l’Uomo limitò la sua presenza, le acque si fecero cristalline, i cieli tersi e regnò la pace, poi ritornò tutto come prima. Questo cosa vi fa capire fanciulli? qual è la lezione? che l’uomo è un?…cancro. Bravissimi e la gente non cambia per una pandemia, non cambia per una guerra mondiale e non cambia per un olocausto (poi vi racconterò cos’è stato). Le persone devono mettere a tacere le loro frustrazioni e la loro mediocrità impegnandosi in battaglie inutili, in chiacchiere senza senso, odiando e concentrandosi in modo negativo sul prossimo ed è proprio per questo che nostro preciso dovere è quello di evitarle.
– E quindi cosa è cambiato?
– Assolutamente una fava, però noi asociali avemmo la nostra vittoria per una volta nella vita.

intothewild

L’unica vita possibile di Christopher McCandless

Oggi il sole ha ceduto il passo alle nuvole finalmente, la brezza rinfresca lievemente l’aria e i colori cupi avvolgono dolcemente questo piccolo angolo di mondo. Quale commistione migliore di eventi per dedicarsi ad un po’ di sana riflessione?

Riflettevo riguardo quel famoso film, “Into the Wild”, tratto dal romanzo intitolato “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer, che ahimè però non ho letto, anche se mi dicono che in pochi casi il film supera di gran lunga il libro e questo è uno di quei pochi casi.

La storia di Christopher McCandless o di Alexander Supertramp, come lo si voglia chiamare, è ben nota a molti oramai; un giovane ragazzo che decide di abbandonare tutte le ricchezze e gli agi famigliari, alla stregua di un novello San Francesco, per inseguire il sogno dell’Alaska e della vita selvaggia, sulle orme di autori quali Jack LondonHenry David Thoreau. Liberarsi di tutte le convenzioni sociali e dell’Uomo stesso, “love not Man the less, but Nature more” come diceva Lord Byron, uscire al di fuori dello schema preimpostato dimostrando che un’altra vita è possibile e forse può essere anche migliore perchè persegue quell’alto principio che è la libertà. La carriera? il matrimonio? convenzioni, il denaro? qualcosa di inutile che non fa altro che rendere schiavo l’uomo, agganciato sempre di più ai bisogni che la società crea ad hoc per lui, una società che sempre più punta alla iper-produzione e alla competitività, premiando non colui che ha merito ma colui che produce più bisogni virtuali, ponendo nei fatti l’uomo dinanzi ad un bivio:

  1.  soddisfare quei bisogni che man mano vengono “creati”
  2.  non riuscire soddisfare quei bisogni che la società mette in vetrina e agita come un biscotto dinanzi ad un cane affamato.

In entrambi i casi il risultato è uguale e fallimentare: l’insoddisfazione. Il soddisfacimento di alcuni bisogni comporta il loro superamento e la necessità di soddisfarne sempre degli altri, il che non porta mai un reale soddisfacimento. Allo stesso tempo il non riuscire a soddisfare un bisogno, (un’auto di lusso o un viaggio costoso o uno status symbol a caso) comporta insoddisfazione e frustrazione. Il punto è che è tutto fittizio. Esistono realmente questi bisogni? sono realmente bisogni? NO! e questo probabilmente McCandless lo aveva capito bene.

Era una sorta di asceta misantropo che odiava la società? Mah, probabilmente odiava la società in quanto istituzione e portatrice di certi valori distorti, forse odiava la modernità che aveva condotto dall’uomo libero all’uomo schiavo del consumo e delle merci, ma non credo fosse uno scontroso misantropo, non odiava l’Uomo, forse lo cercava come lo cercava Diogene (ma senza lanterna), cercava il concetto di Uomo e dove cercarlo se non all’interno della natura più selvaggia? nel seno che lo ha partorito? Probabilmente nel suo piccolo era un “filantropo” per quanto ci è dato sapere.

Molto spesso il commento che più facilmente si sente a riguardo della figura di Christopher McCandless è uno in particolare: “E’ stato stupido perchè non era adeguatamente preparato ed è morto come un fesso.”

Sì, a prima vista è ciò che sembrerebbe la conclusione più ovvia, ma allo stesso tempo la più superficiale o semplicistica che non prende in considerazione quanto c’è dietro. Christopher decide di affrontare un territorio impervio come l’Alaska, vivendo in un bus abbandonato (il famoso “Magic Bus”) e cavandosela con delle nozioni base di caccia o consultando libri sulle piante edibili, morendo poi probabilmente avvelenato da semi di una qualche pianta. Eppure no, a ben pensarci, malgrado tutto non è stato un idiota. L’idea personalissima che mi sono fatto è che è stato uno dei pochi uomini a morire per qualcosa in cui credeva, sebbene fosse folle l’idea di fuggire dalle regole della società vivendo basandosi solo sulle proprie forze di uomo “addomesticato” oramai dalla società e sempre più incapace di cavarsela nel suo ambiente naturale di appartenenza. Ma d’altra parte quanti pionieri sono morti per un principio o per una idea che altri consideravano folle?

Che forse la vita acquisti davvero significato solo se si è disposti ad accettare anche l’estrema conseguenza per un proprio ideale? Essere Uomo di “fede” (non intendo strettamente religiosa, ma anche nell’accezione “laica” del termine) è per pochi, essere disposti a morire per la propria “fede” è qualcosa di raro. Allora in questo caso sì, una vita così è l’unica vita possibile.

Easy Rider

La rivoluzione su due ruote: buon compleanno Easy Rider.

Siamo nella calda estate del 1969, precisamente il 14 luglio 1969 e nella sala cinematografica Beeckman di New York viene proiettato quello che sarebbe divenuto un capolavoro della cinematografia americana e mondiale: “Easy Rider“, film diretto dal compianto Dennis Hopper e rientrato a pieno titolo nella lista dei migliori 100 film della storia del cinema.
Questo breve articolo non vuole essere una recensione del film, il web ne è pieno di recensioni di persone molto più capaci di me, quanto una personale celebrazione accorata per i suoi 50 anni attraverso un breve viaggio nel tempo, saltellando senza troppe pretese da un anno ad un altro e tra un evento e l’altro.

Cos’è Easy Rider? la risposta è molto semplice; la storia di due tizi in motocicletta che percorrono le strade americane dalla California a New Orleans. Sì ma che Paese realmente percorrevano Billy e Wyatt “Capitan America”?

Un Paese che stava subendo sicuramente profondi cambiamenti e rivoluzioni e che stava acquistando una nuova coscienza che si liberava di anno in anno da quel  torpore borghese e puritano. Un Paese che viveva nella paura e nell’apprensione per i padri, i figli e i fratelli che combattevano al fronte in Vietnam una guerra crudele e ampiamente contestata dai movimenti studenteschi pacifisti che vedevano l’appoggio di tutta la controcultura letteraria e artistica del tempo. I libri e le canzoni diventavano inni di libertà, manifesti di pace, martellanti sveglie per le coscienze ancora sopite, insomma c’era un fermento; il mostro della guerra aveva generato qualcosa che era difficile ostacolare perchè aveva più forza dei fucili e delle flotte spiegate al fronte.

Il film diretto da Hopper infatti si colloca anch’esso in quest’ottica anti-borghese e per certi versi anti-holliwoodiana rappresentando un nuovo modo di fare cinema; a basso budget, senza una troupe cinematografica e con un copione aperto che lasciava ampio spazio all’improvvisazione degli attori. Un film realistico, concreto, lontano dal glamour cinematografico e vicino alle comunità e alle persone vere, quegli hippy che in modo non professionale hanno dato il proprio apporto per le riprese del film.

La figura stessa dell’avvocato George Hanson  interpretato magistralmente da un giovane Jack Nicholson alle prime armi è di una importanza emblematica. Lui, un avvocato che dovrebbe rappresentare la classe borghese che si unisce al duo hippy perorandone la causa scevro da preconcetti e con la curiosità dell’uomo che ha in se il germe della Cultura. I temi da lui affrontati sono di una profondità e di una attualità che andrebbero insegnati nelle scuole, ogni sua riflessione offre spunti validi sul modello di società perfetta e utopica, sull’uomo e sulla natura delle droghe, evitandone la demonizzazione e preferendo un approccio più pragmatico.

“Vengono dal nostro sistema solare, solo che la loro società è più evoluta della nostra! Voglio dire che non hanno guerre, non hanno un sistema monetario e soprattutto non hanno capi, perché ognuno di loro è un capo. Voglio dire, ognuno, grazie alla loro tecnologia, è in condizione di nutrirsi, vestirsi, avere una casa, e circolare come vuole senza differenza ne’ sforzi.”  (George Hanson)

Alla guerra combattuta al fronte si scelse e si sentì forse l’esigenza di contrapporre l’amore quale reazione forte e automatica nei confronti delle tensioni politiche orientali, parliamo dell’amore hippy sfociato nella “Summer of Love” del 1967 tra le strade di Los Angeles che avrebbe avuto il suo culmine nel Festival di Woodstock appena un mese dopo l’uscita del film nelle sale. L’amore come strumento di rivendicazione di diritti contro i dettami puritani degli anni 50 e forma di emancipazione per la donna che porterà alla nascita dei primi movimenti femministi che si batterono per la conquista dei diritti civili.

Cominciarono a spuntare come funghi e si diffusero a velocità vertiginosa le prime comunità hippy come quella nel quartiere di Haight Ashbury a San Francisco, e con loro la diffusione delle droghe psicotrope come la marijuana e l’LSD. La droga diviene il viatico per il raggiungimento di stati di coscienza diversi, per la ricerca di una spiritualità anche per molti artisti del periodo che ne facevano largo uso e rappresenta lo strumento di rottura con quel tipo di società dalla quale si volevano prendere le distanze per fondarne una nuova basata sulla fratellanza e sulla comunione, “Come on and be a friend, don’t bogart that joint, my friend pass it over to me.” cantavano i Fraternity of Man in quegli anni.

I nostri moderni cavalieri si muovono proprio in questo substrato culturale, tra le comunità sparse di hippy che si dedicavano ad una vita semplice e quanto più autarchica possibile e il consumo di droghe (reale sul set) che aprono la mente a concetti ancora attualissimi e che hanno ad oggetto la libertà, l’uomo e la sua collocazione nella società come è e come dovrebbe idealmente essere. L’uso delle droghe, argomento spinoso in un film del 1969, è ben lungi dall’apparire meramente ricreativo e fine a se stesso, ma appare più come rituale sciamanico che ha lo scopo di sollevare quel velo di Maya per giungere ad una consapevolezza più profonda e quasi “esistenzialista” per certi versi. Billy e Wyatt sono uomini che rappresentano un concetto, un ideale di cui se ne sentiva grande necessità e di cui se ne sente necessità in ogni epoca storica essendo sempre attuale: la LIBERTÀ.

“è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.” (George Hanson)

Negli anni precedenti c’era stata una gran sete di libertà, nel 1963 avevamo assistito alla marcia su Washington per il lavoro e la libertà degli afroamericani, in quell’anno Martin Luther King aveva pronunciato le famose parole “i have a dream”, le comunità nere avevano iniziato ad alzare sempre più la voce chiedendo più diritti, equo trattamento, dignità, LIBERTÀ, sfociando in movimenti più radicali e oltranzisti del Black Power con Malcom X. Era un periodo di rivolta degli uomini, una rivolta fisica, spirituale e intellettuale.

Il film è un classico “road movie” e percorre le strade di un paese in rivolta, spaccato a metà: da un lato gli uomini liberi che inseguono il sogno della libertà, dall’altra gli uomini che la libertà la temono. Queste categorie sono in perenne lotta; i primi credono nel pacifismo, nella musica rock che fa da colonna sonora al film con brani degli Steppenwolf, Jimi Hendrix o i The Byrds, nelle droghe, nelle donne, nei capelli lunghi e nel look stravagante da moderni bohemien, i secondi credono nella repressione, nei fucili, nella diffidenza, nella xenofobia e nel pregiudizio.
I primi ripercorrono i sentieri già battuti nei primi anni 50 dagli esponenti e fondatori della Beat Generation, ne seguono le orme e riprendono il topos del viaggio che era stato reso celebre nel 1951 da Jack Kerouac nel suo romanzo “Sulla Strada“, dove si narravano le avventure dei due viaggiatori per eccellenza: Sal Paradise e Dean Moriarty.
Gli esponenti della Beat Generation si prefissavano un obiettivo sicuramente non facile, pregno di idealismo utopico forse e sicuramente rivoluzionario: “Aiuteremo a modificare le leggi che governavano i cosiddetti paesi civili di oggi: leggi che hanno coperto la Terra di polizia segreta, campi di concentramento, oppressione, schiavitù, guerra, morte” diceva Allen Ginsberg, quella “Terra” che invece risultava cara agli osteggiatori della libertà che si parano a più riprese “sulla strada” dei nostri eroi in motocicletta.
Loro sono i veri pionieri di un Paese da rifondare, i veri eroi di una rivoluzione donchisciottiana probabilmente, quelli che ci hanno creduto e quelli che dopo 50 anni forse continuano a crederci ancora.