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Messaggi del 08/05/2016

 

Tutti pazzi per Renato Zero, terza data all'Arena di Verona da agi

Post n°13179 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Roma - Tutti pazzi per Renato Zero. Le due date dell'1 e 2 giugno di "Alt, arena, arrivo!" che segnano il grande ritorno live del cantautore romano all'Arena di Verona sono andate sold out e ora ne e' stata aggiunta una terza, il 3 giugno. Renato Zero presentera' dal vivo il nuovo album di inediti "Alt", disco d'oro in sole tre settimane (certificazioni diffuse da FIMI / GfK Italia). Da oggi sono disponibili in prevendita i biglietti per la data del 3 giugno online su ticketone.it e nei punti vendita e prevendite abituali. A tre anni dal doppio progetto di "Amo", incentrato su tematiche piu' intime e riflessive, Renato Zero torna ai grandi temi sociali e alle battaglie civili con il nuovo disco "Alt".

 

Si tratta di 14 brani inediti, dove trovano spazio i temi della fede, della violenza, dei giovani, del lavoro, del destino dell'arte, dell'amore in tutte le sue declinazioni, dell'ecologia, delle politiche d'accoglienza e dei nuclei affettivi. Tutti i brani del disco, prodotto da Renato Zero e Danilo Madonia, sono stati scritti dall'artista romano insieme ad autori e compositori come Vincenzo Incenzo, Danilo Madonia, Maurizio Fabrizio, Phil Palmer, Valentina Parisse, Luca Chiaravalli, Mario Fanizzi e Valentina Sica. La cover dell'album e le foto contenute nel booklet sono state realizzate dal fotografo Roberto Rocco. Dopo 28 album in studio, 3 raccolte, oltre cinquecento canzoni e 45 milioni di dischi venduti, Renato Zero ha ancora la voglia e la passione di confrontarsi col suo pubblico: preferisce la piazza, le sue accorate grida ed i suoi intimi sussurri. (AGI)

 
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La testimonianza diretta di chi vive ad Aleppo: diffidate di chi scrive di Siria dall'occidente da lantidiplomatico

Post n°13178 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

La testimonianza diretta di chi vive ad Aleppo: diffidate di chi scrive di Siria dall'occidente
 L'intervista al medico Nabil Antaki (dei fratelli Maristi di Aleppo):"In Siria sapevamo bene dall'inizio che la primavera araba era solo il nome nuovo di Obama del 'caos costruttivo' di George Bush"

Intervista realizzata dal Coordinamento per la Pace in Siria al medico Nabil Antaki (dei fratelli Maristi di Aleppo)
 
Dottor Nabil, sulla base di quanto a lei consta, cosa pensate dei reports di Amnesty International e di Medici senza frontiere, che parlano di una Aleppo distrutta (compresi diversi ospedali) dai barili bomba dell'esercito siriano?
 
Aleppo è divisa in due parti, la parte est con 300.000 abitanti è nelle mani dei gruppi armati e la parte ovest con 2 milioni di abitanti è sotto il controllo dello Stato siriano; lì viviamo e operiamo noi. Noi non sappiamo quello che accade nell'altra parte della città, dunque io non posso né confermare né smentire, ma so due cose. La prima è che noi siamo bombardati quotidianamente dai ribelli e molti ospedali dalla nostra zona della città sono stati distrutti, bruciati o danneggiati dalla loro azione. La seconda è che siamo in una situazione di guerra ed è possibile che le bombe sganciate dall’esercito siriano abbiano toccato un ospedale, ma sicuramente non in modo intenzionale. Gli statunitensi e gli occidentali con le loro armi tanto sofisticate hanno spesso mancato i loro bersagli e causato dei ' danni collaterali '…Ciò che rimprovero a Medici senza frontiere è che danno conto delle sofferenze solo dell'altro lato della città, la parte ribelle, e mai delle sofferenze della nostra parte. I loro rapporti sono parziali.
 
 
- Cosa pensate della proposta di Sant'Egidio e dell'ex ministro Riccardi di fare di Aleppo una “città aperta” e anche di introdurre una no- fly-zone?
 
L'iniziativa di Sant'Egidio era buona quando fu lanciata, nel luglio 2014. Allora l'acqua era stata tagliata in Aleppo (dai gruppi armati) per ben 70 giorni consecutivi. Bisognava “salvare Aleppo” in primis. Ora questa iniziativa è superata. Noi non abbiamo più bisogno che Aleppo sia dichiarata città aperta e che siano aperti dei corridoi umanitari. Benché la situazione sia cattiva, Aleppo non è più sottoposta a un blocco come un anno e mezzo fa. Le persone e i prodotti entrano ed escono attraverso una strada che l’esercito ha aperto 17 mesi fa. I viveri entrano, nessuno muore di fame anche se l'80% della popolazione deve ricevere un aiuto alimentare. Sì, la città è accerchiata ma c'è sempre questa strada che ci collega all'esterno. La città è danneggiata ma le persone continuano a vivere adattandosi alla penuria di acqua, di elettricità --- Dunque, attualmente i vantaggi della proposta di Sant'Egidio sono meno importanti che il pericolo rappresentato da una no-fly-zone e da una forza di interposizione, che avvantaggerebbero i gruppi armati e metterebbero la città e i suoi abitanti in pericolo, alla mercè di Daesh e al Nusra.

 
- Perché anche i gruppi cristiani sul luogo esitano a parlare delle cause della loro sofferenza?
 
Avete ragione quando dite che parliamo soltanto della sofferenza degli aleppini e non delle cause. Lo facciamo per molte ragioni. Uno: per essere ascoltati dall'opinione pubblica occidentale che è stata a tal punto disinformata che le dichiarazioni in ambito politico che dicono la verità non sono neppure lette, ascoltate, prese in considerazione. Dunque, a partire dalle sofferenze degli aleppini e dei siriani, riusciamo almeno a far passare il messaggio che i ribelli armati sono responsabili della sofferenza dei siriani o, perlomeno, corresponsabili. Quanti amici intimi occidentali ho perso, all'inizio degli avvenimenti, perché io dicevo loro la verità sulle interferenze esterne! Essi mi rispondevano: voi arabi, vedete complotti ovunque! Adesso utilizzo un'altra tattica: non parlo più di complotto o di piano prestabilito, ma dico che ciò che era accaduto e che accade attualmente in Siria non era affatto spontaneo…E ora il mio discorso è accettato. L'importante è far passare il messaggio. In secondo luogo, le persone hanno paura per le loro vite e dunque parlano soltanto delle sofferenze e non delle cause e dei responsabili delle nostre disgrazie.
 Hanno paura di essere uccisi. È più facile parlare quando si vive all'esterno della Siria.
 
Cosa pensate dei media che parlano di Aleppo e della Siria? Perché essi credono a fonti non affidabili? Perché per esempio descrivono come angeli i cosiddetti “elmetti bianchi” di al Nostra?
 
I giornalisti che ci intervistano orientano sempre l'intervista verso il piano umanitario e rifiutano che si parli di altre cose. E tuttavia, noi tentiamo di dire la verità. In tutti i miei scritti io dico che noi siamo bombardati dai gruppi armati ribelli che ci lanciano mortai, razzi e bombole di gas riempite di esplosivi e chiodi. Dal 2011, i siriani hanno compreso che ciò che accadeva non era una rivoluzione per portare in Siria una maggiore democrazia, un maggior rispetto dei diritti umani e minor corruzione. I siriani sapevano, fin dall'inizio, che la “primavera araba” era il nome nuovo del “caos costruttivo” di Condoleeza Rice e del “nuovo Medio-Oriente” dell'amministrazione Bush e che questa “primavera” in Siria sarebbe sfociata o nel caos e nella distruzione del paese o in uno Stato islamico. Disgraziatamente, le due alternative forse riusciranno entrambe.
Per tornare ai media occidentali, essi non hanno che una sola fonte di informazione, l'Osservatorio siriano dei diritti dell'uomo basato a Londra, che nasconde, sotto un nome molto credibile, un centro di diffusione della disinformazione.
 

- Il giorno di preghiera per la Siria organizzato dal Papa Francesco nel settembre 2013 è stato molto importante, ha contribuito a evitare gli imminenti bombardamenti statunitensi in seguito alla disinformazione sulle armi chimiche a Ghouta. Cosa pensate che egli potrebbe fare ora? Cosa dirgli?
 
Direi a  Papa Francesco: fin dal primo giorno del vostro pontificato, i siriani L’hanno amata e hanno adottata. Le Sue svariate dichiarazioni, omelie, tweets, sono tanto apprezzati e diffusi tra di noi. Noi sentiamo che, in Lei, il Vangelo è al centro di tutto, sfidando la burocrazia e il politicamente corretto di una falsa diplomazia.
Lei ha domandato più di una volta ai cristiani di Siria (e del Medio Oriente) di non lasciare la terra dei loro antenati, di restare attaccati alle loro radici per dare un senso alla loro appartenenza e alla loro presenza in Siria. È esattamente ciò che il mio gruppo e io stesso ci sforziamo di fare da decenni (qui un video realizzato ormai vent'anni fa)
 
Diverse organizzazioni cattoliche internazionali (e molte Ong tra cui la nostra) fanno del loro meglio per dare sollievo alle sofferenze dei siriani e in particolare dei cristiani sul piano umanitario.
 
Santo Padre,   La imploriamo di fare ancora di più. Le dichiarazioni, il sollievo alle sofferenze, l'incitazione a restare nel paese non hanno impedito alla metà dei cristiani di Aleppo di andarsene definitivamente. I cristiani di Siria hanno una duplice paura: temono fisicamente i fanatici islamisti di Daesh, e hanno anche paura di perdere il loro futuro e quello dei loro figli a forza di pazientare e di aspettare la fine del conflitto. Se si vuole che l'altra metà dei cristiani rimanga, bisogna fermare la guerra.
 
Noi La imploriamo di usare la Sua autorità morale, il Suo prestigio incontestabile per fare pressione sui diversi governi affinché cessino di armare e di finanziare i gruppi armati, perché lottino effettivamente contro Daesh e perché facciano fermare il passaggio dei terroristi attraverso le nostre frontiere del Nord. 
 
Perché una soluzione politica negoziata possa riuscire, bisognerebbe che l'opposizione accetti l'attuale governo della Siria, perché non si può negoziare con qualcuno di cui si esige, come precondizione, l'eliminazione.
 
Santo Padre,  solo Lei può fare qualche cosa per fermare la distruzione del nostro bel paese, per far cessare la morte di centinaia di migliaia di esseri umani e per permettere ai cristiani di Siria di restare, o di ritornare, nel loro paese.

 
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GAME OF THRONES – UNA TEORIA DEI FAN NON È PIÙ UNA TEORIA A QUANTO PARE (SPOILER, FORSE…)

Post n°13177 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

 

 

 

da https://blog.screenweek.it/2016/05/game-of-thrones-teoria-dei-fan-non-piu-teoria-quanto-pare-spoiler-forse-511482.phpL'ultimo episodio di Game of Thrones e il primo spot della puntata 6x03 hanno letteralmente infiammato gli appassionati della saga. A quanto pare, una teoria che circola da quasi vent'anni, potrebbe corrispondere effettivamente alle idee di George R.R.Martin. Ecco di cosa stiamo parlando [ATTENZIONE: SPOILER, potenziali...]

 

Il secondo episodio della sesta stagione di Game of Thrones – Il Trono di Spade ha causato non poche palpitazioni negli spettatori dell’acclamata serie tv (QUI la nostra recensione) mentre tra i fan che hanno letto negli anni i romanzi di George R.R.Martin (e ci sono invecchiati considerando che il primo risale al 1996) ci sono stati dei veri e propri casi di infarto.

Dopo le sorprese di “Home”, siamo in attesa del terzo episodio, intitolato “Oathbreaker, che andrà in ondadomenica 8 maggio su HBO e Sky Atlantic HD in contemporanea (e in streaming su Sky On-Line).

Se credevate che la scena del risveglio di Jon Snow fosse una delle più scioccanti dell’intera saga, preparatevi a quello che vi sto per raccontare!

C’è infatti una teoria che circola da quasi vent’anni tra gli appassionati, e da alcuni indizi pare che i nodi stiano venendo al pettine e tra pochi giorni potremmo aver conferma che… non si tratti più di una mera fan-theory!

LYANNA STARK

I fan di lunga data della saga di Martin hanno fatto un balzo sulla sedia non quanto nella scena finale, ma nei primi minuti di “Home“! La visione di Bran Stark, il flashback vissuto in prima persona insieme al Corvo a Tre Occhi interpretato dal grandissimo Max Von Sydow (c’è stato un recasting, prima era Struan Rodger) ci porta a Grande Inverno, molti anni prima.

Abbiamo potuto vedere per la prima volta un giovane Eddard “Ned” Stark, il futuro lord di Grande Inverno (Sean Bean da adulto nella prima incredibile stagione), il fratello Brandon e finalmente LEI: Lyanna Stark! 

Si tratta della sorella di Ned, personaggio che praticamente non compare nei libri, ma la cui triste storia è a dir poco cruciale per le intere Cronache del Fuoco e del Ghiaccio, per la psicologia dei personaggi, gli intrecci narrativi e non solo!

Lyanna Stark era l’unica sorella di Eddard e morì a 16 anni alla fine della ribellione di Baratheon. Descritta come una sorta di “giovane e vivace amazzone”. Più ostinata e selvaggia rispetto a Ned (molto simile ad Arya per intenderci) fu promessa in sposa a Robert Baratheon, che l’amava perdutamente, anche se non si accontentava di un solo letto causando spesso perplessità in Lyanna.

Durante il torneo di Harrenhal il Principe Rhaegar Targaryen, erede del Trono di Spade (figlio di Aerys II Targaryen, il Re Folle, fratello maggiore di Daenerys) la cinse con una corona di rose nominandola regina d’Amore e Bellezza del torneo, al posto della moglie, la Principessa Elia di Dorne (sorella maggiore di Oberyn). In quel momento “tutti i sorrisi morirono“, e poco dopo il principe la rapì portandola nella Torre della Gioia tra le montagne di Dorne.

La rabbia conseguente fu la causa scatenante della Ribellione di Robert Baratheon, che vendicò l’affronto uccidendo Rhaegar nella battaglia del Tridente. Dopo il saccheggio di Approdo del Re, Ned e sei compagni andarono a cercarla nella Torre della Gioia, e lì combatterono contro tre cavalieri della Guardia reale, ser Gerold Hightower, comandante della guardia reale, e il celebre ser Arthur Dayne.

Morirono tutti tranne Eddard e Howland Reed, il padre di Meera (la ragazza che ha accompagnato Bran dal Corvo). Il salvataggio fu però tardivo: Ned trovò Lyanna morente su un letto di sangue che stringeva convulsamente una corona appassita di rose blu. Lei lo costrinse a giurarle qualcosa, ma non si sa la natura di tale giuramento (“Promettimelo Ned...”), che però perseguitò Ned per il resto della sua vita. Fu seppellita a Grande Inverno, nell’ancestrale cripta di Casa Stark, come da lei richiesto a suo fratello poco prima di morire. La sua morte favorì la riconciliazione tra Ned e Robert, che si ritrovarono a condividere lo stesso dolore e divennero grandi amici e alleati.

LA TORRE DELLA GIOIA

Nonostante la conferma ufficiale non sia mai arrivata dalla produzione, le scene della Torre della Gioia sono già state girate lo scorso autunno. La splendida location scelta è il Castillo de Zafra che si trova a Campillo de Dueñas, che si trova in Spagna nella provincia di Guadalajara (vedi immagine cover articolo e nostro speciale dello scorso luglio).

Come abbiamo visto negli ultimi secondi dello spot ufficiale del terzo episodio, intitolato Oathbreaker, che andrà la notte di domenica 8 maggio, il prossimo flashback/visione di Bran sarà ambientato fuori dalla Torre, e vedrà combattere il celebre guerrigliero Ser Arthur Dayne (qui sotto, con il simbolo dei Targaryen sull’armatura) contro un agguerrito Ned Stark e i suoi alleati.

Speriamo di assistere ad battaglia spietata, cruda e senza esclusione di colpi, anche se non sappiamo sarà già presente interamente nel terzo episodio oppure verrà divisa in parti. Questo non significa necessariamente che laTeoria in questione, che vi illustrerò a breve, sia vera. Scopriamola insieme…

DA QUESTO MOMENTO FANTA-SPOILER: decidete voi se proseguire con la lettura.

R + L = J

Una delle teorie più antiche dei fan di Game of Thrones, nata a quanto pare nel 1996 quando internet non tutti lo avevano in casa, e non esisteva né Facebook o Twitter, ha dovuto attendere quasi vent’anni prima di scoprire se corrisponda o meno alla realtà.

(Fortuna vuole che) George R.R.Martin non abbia ancora terminato il nuovo romanzo, che si spera possa uscire entro il 2016, e per questo la serie tv anticiperà la conferma o la definitiva smentita di questa teoria, denominata R+L=J, nei prossimi episodi.

Fino a questo momento abbiamo conosciuto Jon Snow come il figlio bastardo di Ned Stark. Ma sul serio, Ned vi è mai sembrato capace di mettere le corna all’amata Catelyn con una prostituta? E Jon Snow poteva davvero essere un semplice “bastardo” con quell’incredibile arco narrativo creato da Martin per lui?

Secondo questa teorie, nelle vene di Jon Snow scorre sangue nobile al 100%. Ecco perché:

Rhaegar (Targaryen) + Lyanna (Stark) = Jon

Jon in realtà sarebbe nato dall’unione di Rhaegar e Lyanna, che lo diede alla luce con un parto a lei fatale, proprio poco prima dell’arrivo del fratello alla Torre della Gioia. Lyanna fece promettere a Ned di prendersi cura del figlio e di proteggerlo con le sue ultime parole, e per questo Ned Stark avrebbe mascherato l’accaduto dichiarando che il bambino fosse frutto della sua infedeltà. Ricordiamo infatti che Robert avrebbe ucciso volentieri ogni Targaryen ancora vivo, e solo per amore e rispetto della sorella Ned (e anche perché era presente solo Howland Reed insieme a lui). Nei libri infatti Ned ha sempre definito Jon come “mio sangue” (Stark) e non “mio figlio”.

Jon “Snow” Targaryen sarebbe l’erede al Trono di Spade, alla faccia di chi l’ha sempre definito un bastardo e battendo per diritti di successione anche sua “Zia” Daenerys in quanto erede maschio. BOOM.

Oppure Jon, nonostante figlio di un principe ereditario e di una nobile, essendo nato fuori dal matrimonio (Rhaegar ricordiamolo era sposato con Elia di Dorne) rimane ugualmente un bastardo, anche se ricordiamo che nella storia dei Targaryen ci sono stati casi di multiple mogli (e rapporti incestuosi)?

Ironia della sorte, ma in ogni caso… Il Trono è di chi se lo prende, come ha ben insegnato l’Usurpatore Baratheon!

STUPRO O AMORE?

Se la teoria fosse vera, un altro quesito essenziale si spera possa avere risposta a breve: Lyanna è stata vittima della violenza di Rheagar o il loro era vero amore? Lyanna è stata davvero rapita contro la sua volontà?

Secondo i fan i due sarebbero stati innamorati, ed ecco la loro rilettura:

“Rhaegar Targaryen era sposato con Elia Martell, da cui ebbe due figli, Rhaenis ed Aegon. Il matrimonio fu politico, ma Rhaegar conobbe il vero amore al torneo di Harrenhal nell’anno della falsa primavera, perdendo la testa per Lyanna Stark, che lo ricambiava. I due si incontrarono segretamente più volte alla Torre della Gioia nelle Montagne Rosse di Dorne, dove Lyanna rimase incinta. Rhaegar però dovette partire per combattere Robert e tre membri della Guardia Reale vennero inviati alla Torre della Gioia per proteggere Lyanna e il nascituro. In qualche modo Ned scoprì dove si trovava Lyanna e dedusse che Rhaegar l’avesse rapita. Ned vinse la battaglia ed entrò nella torre per cercare Lyanna. Lei aveva dato alla luce il bambino, ma, a causa di complicazioni durante il parto, era in fin di vita. Strappò ad Eddard la promessa di non rivelare a nessuno le vere origini del bambino, per paura che l’odio di Robert (suo promesso sposo) per i Targaryen lo portasse ad ucciderlo. Poi spirò. Eddard chiamò il bambino Jon. Quindi si recò verso Stelle al Tramonto, per restituire la famosa spada Alba che era appartenuta ad Arthur Dayne, cavaliere leggendario e valoroso, molto ammirato anche da Ned. Forse in quel luogo Ned e la nutrice Wylla cospirarono per far credere che lei fosse la madre di Jon. Ashara, vecchia fiamma di Ned, si suicidò in circostanze non chiarite. Eddard si diresse infine a nord con Jon, portando il figlio “bastardo” con sé a Grande Inverno.”

Lo scopriremo prossimamente, ma ecco alcuni indizi sparsi per i vari romanzi della saga che sembrerebbero propendere per un innamoramento. Ecco alcuni passi che abbiamo raccolto:

– Rhaegar era in realtà un uomo gentile, rispettato e amato da tutti. Difficile pensare avesse rapito la ragazza contro la sua volontà.

– Lyanna non era più convinta di sposare Robert, e più volte si era confidata con il fratello sull’argomento. La ragazza era rimasta in particolar modo turbata del fatto che l’uomo avesse avuto un figlio illegittimo da una ragazza della Valle

– Mentre è in preda alle allucinazioni nella Fortezza Rossa, Ned si ricordò del “momento in cui tutti i sorrisi si spensero“, quando il principe Rhaegar Targaryen condusse il cavallo oltre sua moglie per lasciare la corona di regina di bellezza in grembo a Lyanna. Una corona di rose dell’inverno “blu come la brina“.

– Perché ben tre uomini della Guardia Reale (tra i più valorosi) si trovavano alla Torre della Gioia invece che in battaglia a difesa di ciò che rimaneva dei Targaryen? La ragione più ovvia è che Lyanna portasse in grembo il figlio di Rhaegar, e che le cappe bianche fossero lì per proteggere il sangue reale.

– Lyanna morì di febbre, in una stanza che odorava di “sangue e rose”. Dal momento che il combattimento avvenne fuori dalla torre, si suppone che il sangue derivi dal parto di Lyanna. Martin ha usato un’altra volta il termine “letto di sangue” per indicare il parto quando Mirri Maz Duur dice di conoscere i segreti del “letto di sangue”, riferendosi, appunto, al parto.

– “Promettimelo, Ned. La febbre le portava via le forze e la sua voce stava affievolendosi come un sospiro, ma appena lui diede la sua parola, la paura svanì dagli occhi di sua sorella.” L’oggetto della promessa che Lyanna strappa a Ned, richiamata numerose volte nei libri, non è è mai stato reso noto. Perché avrebbe dovuto avere addirittura paura riguardo al luogo della propria sepoltura? I fan sostengono che in realtà Lyanna abbia chiesto a Ned di mantenere il segreto circa la vera identità di Jon, e di proteggerlo dall’ira di Robert contro i Targaeryan.

– “Lo farò, le promise Ned. E questa fu la sua maledizione […]. Pensò alle promesse che aveva fatto a Lyanna mentre giaceva morente, ed al prezzo che avrebbe pagato per rispettarle.” Altro passo importantissimo che denota la fatica e il sacrificio che costò a Ned quella promessa.

– “La menzogna lo fece sentire sporco. Sono le bugie che diciamo per amore, pensò. Possano gli dei perdonarmi.” Iltormento di Ned è un elemento che pervade il primo romanzo della saga, e non vi sono molte altre potenziali spiegazioni se non quella di aver nascosto la vera origine del nipote Jon. Un segreto che non poteva condividere con nessuno.

– “Lui non era alieno a sonni tormentati. Aveva vissuto nella menzogna per quattordici anni, ed ancora lo tormentavano di notte.” Il fatto è che Jon proprio in quel periodo ha 14 anni…

STAY TUNED

Pare che Martin si sia indispettito molto quando scoprì dell’esistenza della teoria R+L=J, perché credeva di essere riuscito a tenere perfettamente nascosta la discendenza di Jon, punto cardine dell’intera saga. Ma se hai milioni di lettori in tutto il mondo, e uno tra i fandom più attenti, intelligenti e attivi mai visti, dovresti considerare un onore il fatto che sia stato dedicato così tanto tempo alle speculazioni a riguardo.

Per cercare di depistare i fan, nel romanzo A Dance With Dragons (l’ultimo libro pubblicato) si parla di Jon come figlio di Ned e di una pescatrice delle Dita. Ma chi ci crede ora, in particolare ora dopo aver visto questo episodio e pregustando le sorprese in arrivo con la puntata numero tre?

I FAN HANNO RAGIONE? CHE NE PENSATE DELLA TEORIA?

Riguardiamo insieme lo spot di Oathbreaker, andrà in onda domenica 8 maggio alle ore 3 di notte su Sky Atlantic e in streaming su Sky On-Line, che anticipa la sequenza della battaglia fuori dalla Torre della Gioia negli ultimi istanti:

 

Questa è invece la sinossi ufficiale del terzo episodio, scritto dagli showrunner David Benioff e D.B. Weiss, mentre la regia è curata dal veterano Daniel Sackheim.

Daenerys (Emilia Clarke) incontra il suo futuro. Bran incontra il passato. Tommen affronta l’Alto Passero (Jonathan Pryce). Arya (Maisie Williams) si allena per diventare Nessuno. Varys (Conleth Hill) trova una risposta. Ramsay riceve un regalo.

Vi ricordiamo che la serie basata sulla celebre saga letteraria di George R.R. Martin ha vinto il prestigioso Emmy Award come Miglior Serie Drammatica nel 2015.

 
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LA MAGNANI: RETROSPETTIVA A NEW YORK da cinecittànews

Post n°13176 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 
Tag: eventi, news

redazione05/05/2016
Istituto Luce-Cinecittà e The Film Society of Lincoln Center presentano la retrospettiva "La Magnani" che porterà in anteprima a New York, e poi in tutti gli Stati Uniti e Canada,  un momento irripetibile della storia del cinema mondiale: l’apparizione davanti alla macchina da presa di un’attrice di nome Anna Magnani. La retrospettiva prevede 24 titoli, in gran parte provenienti dall’Archivio Internazionale di Luce Cinecittà, tutti proiettati in pellicola in formato 35 e 16 millimetri,dal 18 maggio al 1 giugno presso il Walter Reade Theater del Lincoln Center, coprendo quasi per intero l’arco cronologico della sua carriera cinematografica, dal suo terzo film Tempo massimodi Mattoli del ’34, fino al simbolico addio in Roma di Fellini nel 1972. Passando per il capolavoro di Rossellini che la proiettò nella memoria del mondo, Roma città aperta ("Ti ho sentito gridare Francesco dietro un camion e non ti ho più dimenticato", scrisse Giuseppe Ungaretti), La rosa tatuata di Daniel Mann che le valse l’Oscar® (di cui ricorre quest’anno il 60° anniversario) e Selvaggio è il vento di Cukor, con cui vinse il premio per la miglior interpretazione a Berlino, e la sua seconda nomination agli Oscar®.

La retrospettiva intende riproporre negli Stati Uniti, che le hanno ufficialmente tributato i più alti onori - dall’Oscar® alla stella sulla Walk of Fame di Hollywood - l’orgogliosa passione, l’umorismo tagliente ed il naturalismo alieno dall’affettazione, che hanno reso Anna Magnani il simbolo, se non forse la più sintetica definizione dell’idea del cinema italiano. Una forma d’arte, esplosa nell’apparizione di Roma città aperta, che mostrò al mondo qualcosa che prima le platee non avevano mai visto così apertamente: quel qualcosa che si divideva tra la nudità del realismo e la gloria, che era la vita portata sullo schermo.

Parimenti portata per il dramma e la commedia, così come per il palcoscenico e lo schermo, la Magnani incarnava quella che sarebbe stata la qualità più precisa e insieme inafferrabile del nostro cinema migliore: muovere con lo stesso film il pubblico al riso e alla commozione. Così, non per caso, la retrospettiva newyorchese dedicata ad Anna Magnani diventa anche l’occasione per riscoprire alcuni capolavori del cinema italiano: da Rossellini (oltre a Roma città apertaL’amore), Visconti (Bellissima), Pier Paolo Pasolini (Mamma Roma), Federico Fellini (Roma), De Sica (Teresa Venerdì), Lattuada (Il bandito), Monicelli (Risate di gioia), Zampa (L’onorevole Angelina). Consegnando la diversità di generi e umori che fanno del cinema italiano uno dei più eclettici, ancora oggi, al mondo.
E non meno intensa è la visione di pellicole di maestri internazionali: da Cukor, a un film divenuto proverbiale come La carrozza d’oro di Jean Renoir, al Lumet di Pelle di serpente (accanto a un possibile analogo maschile della Magnani, per iconicità ed estensione dei limiti del vero: Marlon Brando), a un film intrecciato alla vicenda biografica con Rossellini come Vulcano di Dieterle, a La rosa tatuata, scritto da Tennessee Williams appositamente per l’attrice.

E non mancherà per il pubblico del Lincoln Center la visione di pellicole raramente conosciute oltreoceano, come una delle sue prime prove per il cinema, il già citato Tempo massimo di Mario Mattoli del 1934, o il suo distintivo stile vocale in La vita è bella di Carlo Lodovico Bragaglia, e una delle sue ultime interpretazioni sullo schermo: il dramma storico …correva l’anno di grazia 1870, di Alfonso Giannetti, la sua unica pellicola a fianco di un altro grande interprete italiano: Marcello Mastroianni, nel 1971.

Una retrospettiva emozionante ed esaustiva del mestiere e dell’anima dell’attrice, che dopo New York sarà presentata in alcune delle più prestigiose istituzioni cinematografiche nord americane di Chicago, Detroit, Berkeley, Los Angeles, San Francisco, Houston, Columbus, Toronto, Cambridge.

‘La Magnani’ è organizzata da Florence Almozini e Dan Sullivan, e da Camilla Cormanni e Paola Ruggiero di Istituto Luce Cinecittà. Coprodotta da Luce Cinecittà e Film Society of Lincoln Center. Presentata in associazione con il Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo.

A seguire, dal 2 fino all’8 giugno, Istituto Luce Cinecittà ed il Lincoln Center presenteranno insieme la rassegna di Cinema Contemporaneo OPEN ROADS, giunta alla sua 16a edizione.

 
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MORDINI: IL MIO NOIR PRODOTTO E INTERPRETATO DA SCAMARCIO

Post n°13175 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

"E’ STATO SCAMARCIO, CON LA BUENA ONDA, A PROPORMI PERICLE IL NERO LIBERAMENTE TRATTO DALL'OMONIMO ROMANZO DI FERRANDINO" SPIEGA IL REGISTA CHE SARÀ A CANNES IN UN CERTAIN REGARD. IN SALA IL 12 MAGGIO
“Parlarvi di Pericle il nero che sarà a Cannes in concorso in Un Certain Regard è la coronazione di un sogno grande e largo che comprende le persone che sono qui al mio fianco, manca purtroppo Valeria che è New York con Per amor vostro. Significa che abbiamo allora fatto bene a lavorare due anni e mezzo come dei matti per realizzare questo film”. Così Riccardo Scamarcio che oltre ad essere il protagonista, è anche il produttore con Buena Onda (Valeria Golino e Viola Prestieri), insieme a Rai Cinema, del film di Stefano Mordini, un mix di noir, dramma, humor e una certa teatralità. 

Pericle il nero
, tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Giuseppe Ferrandino, è un progetto che risale ai primi mesi del 2013 quando la Buena Onda, su suggerimento dello stesso Scamarcio, opzionò i diritti del libro che in passato aveva interessato Abel Ferrara e Francesco Patierno.
Pericle Scalzone, detto Il nero, di lavoro 'fa il culo alla gente' per conto di un boss camorrista emigrato in Belgio. Pericle stordisce la vittima colpendolo con un sacchetto di sabbia e poi la sodomizza. "Quando la persona è svergognata capisce e riga diritto”. Pericle è un orfano che ha trovato accoglienza e protezione nella Famiglia di Don Luigi (Gigio Morra). E’ un reietto della società, un uomo apparentemente sgradevole, considerato uno stupido dai componenti del gruppo camorrista. Durante una spedizione punitiva per conto del boss, Pericle commette un grave errore. Scatta la sua condanna a morte. In una rocambolesca fuga che lo porterà fino a Calais, Pericle incontra Anastasia (Marina Foïs), una donna separata che mantiene con fatica due figli e che lo accoglie senza giudicarlo e gli mostra la possibilità di una nuova esistenza. Ma Pericle dovrà fare i conti con un passato ingombrante.

Pericle il nero, in sala il 12 maggio con Bim, come spiega una delle sceneggiatrici Francesca Marciano è diviso in tre atti: il primo rimanda a un film noir, il secondo è costruito sui sentimenti intimi, il terzo ha un ritmo teatrale. Più volte la voce fuori campo di Scamarcio esprime il continuo flusso di pensieri ed emotività di Pericle che fa da contrappunto alla sua incapacità di esprimersi.

Mordini, come è nato il film?
E’ stato Scamarcio a propormi l’idea di portare sul grande schermo il libro di Ferrandino, cosa non facile perché la struttura del racconto è un flusso di pensieri del protagonista all’interno di un plot non molto chiaro. Ho spostato la vicenda in Belgio e Francia perché l’ambientazione a Napoli del libro richiedeva una conoscenza e un approfondimento delle logiche delle relazioni che in quanto non napoletano non avrei affrontato nella maniera corretta. La collocazione nel nord Europa mi ha consentito così di lavorare in un mondo di emigrati dall’Italia, di azzerare il contesto del libro e scoprire questa storia in una sorta di non luogo dove Pericle, quest'orfano, potesse costruirsi una sua memoria, una sua famiglia e un luogo in cui stare.

Nel film il tema centrale non sembra essere la criminalità?

Fin dall’inizio volevo prendere le distanze dalla violenza raccontata in forma di eroismo e mostrare la miseria della criminalità. Tutto questo partendo da alcuni personaggi del libro - la madre di Pericle o Signorinella - abbiamo ricercato e ricostruito le storie autentiche che li hanno ispirati. E’ importante farlo, perché siamo invasi da gangster movies che raccontano giustamente un certo tipo di realtà, ma poi manca anche l’altro tipo di rapporto. Pericle da subito ha abbracciato questo punto di vista.

E’ soprattutto un film sulla solitudine di un uomo?
Il racconto della solitudine è un po’ la mia ossessione e nel libro essa è forte, con Pericle che proviene da una ‘famiglia’ più grande che lo vuole morto e trova rifugio in una famiglia vera.

Lei ha scelto di misurarsi con il noir.
Lavorare con i generi è divertente, perché puoi trasformare gli stilemi. Qui mi sono confrontato con il noir: la voce fuori campo per il travaglio esistenziale, la città di notte, senza tuttavia appoggiarmi in modo completo a questo genere.

Come è stato il rapporto con i fratelli Dardenne?
Non è la prima volta che producono generi diversi dal loro cinema. Il vero rapporto è stato sul territorio e con alcuni loro collaboratori. Abbiamo girato a Liegi, e hanno apprezzato da subito la sceneggiatura, facendo solo due appunti su dettagli importanti.

E il lavoro con gli attori?

Abbiamo avuto un approccio fatto di grande preparazione e grande rimozione, ci siamo presi il rischio di scoprire che cosa stava succedendo in scena, mantenendo sempre la linea dettata dalla scrittura, ma non avendo paura di dare ai personaggi la possibilità di prendersi sul set i propri spazi di crescita. Al personaggio di Pericle abbiamo sempre aggiunto elementi.

Come ha sviluppato il finale?

Nella parte conclusiva del film c’è un eccesso di parole che funzionano, non tanto per spiegare quanto è accaduto, quanto come azione e inquadrature per mettere in scena verità che non esistono. O meglio uno scontro di verità dal quale Pericle si chiama fuori per trovare finalmente la sua identità e un suo punto di vista.
 
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DAL 17 MAGGIO CON 01 DISTRIBUTION LA COMMEDIA AVVENTUROSA E TUTTA AL FEMMINILE DEL REGista toscano

Post n°13174 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

A CANNES, ALLA QUINZAINE DES RÉALISATEURS, E IN SALA DAL 17 MAGGIO CON 01 DISTRIBUTION LA COMMEDIA AVVENTUROSA E TUTTA AL FEMMINILE DEL REGISTA TOSCANO CON VALERIA BRUNI TEDESCHI E MICAELA RAMAZZOTTI
Matte da slegare sono Beatrice e Donatella, le protagoniste della "commedia avventurosa" di Paolo VirzìLa pazza gioia, che tra una settimana debutta a Cannes, nella Quinzaine des Réalisateurs. Ma intanto regista e interpreti l'hanno presentato alla stampa a Roma, accolti da applausi, risate e momenti di commozione. Valeria Bruni Tedeschi Micaela Ramazzotti danno vita alla fuga di due donne sottoposte a misura di sicurezza e ospiti di una comunità terapeutica, una strana coppia al centro di una storia di amicizia e redenzione. La prima, Beatrice Morandini Valdirana, è un'istrionica bipolare di ricco lignaggio, intima a suo dire del "presidente" Berlusconi, capace di dilapidare un patrimonio con l'amante pregiudicato; Donatella Morelli è una ragazza proletaria, chiusa in sé e magrissima, affetta da una depressione grave, con tentativi di suicidio e un tragico segreto a tormentarla. "I personaggi femminili - ha detto Paolo Virzì - mi interessano da sempre e riempiono i miei film, è una materia narrativa formidabile, specie se c'è da raccontare donne non virtuose, escluse, 'sbagliate'. Queste due le ho amate moltissimo, sono una grande coppia comica, buffa e struggente, erano bellissime da inquadrare e soprattutto riportavano a quella che per me è la lezione del film: non c'è miglior terapia dell'amore". 

La sceneggiatura, scritta con Francesca Archibugi, complice di lunga data e autrice, anni fa, con Il grande cocomero, di un altro film importante sul tema del disturbo mentale e della cura, nasce anche dall'incontro di Virzì con l'antipsichiatria, un incontro propiziato da un bel documentario, Il viaggio di Marco Cavallo, che era al Festival di Torino quando il regista livornese ne era guest director (leggi l'articolo di Cinecittà News). E sono tanti gli psichiatri citati e ringraziati nei titoli di coda di un film che mostra anche la realtà durissima degli OPG, gli ospedali giudiziari. Poi c'è la fascinazione, tutta cinematografica, di veder recitare insieme "queste due creature", come le chiama lui. "Le ho viste per la prima volta insieme sul set de Il capitale umano. Micaela, che era incinta di Anna, mi è venuta a trovare e Valeria l'ha presa per mano, trascinandola quasi. Quell'immagine mi è rimasta nel cuore...". Prodotto da Lotus, una società di Leone Film Group, e da Rai Cinema, La pazza gioia uscirà in 400 copie per 01 Distribution il 17 maggio.

Virzì,  considera la Quinzaine la collocazione giusta per il film?
E' stato un piacere e una sorpresa essere selezionato a Cannes. Eravamo pronti a uscire il 3 marzo, c'erano già le locandine stampate con quella data. Ma a fine gennaio è arrivata lettera dal delegato della Quinzaine, Édouard Waintrop, una lettera talmente toccante che non potevo dire di no. Da spettatore e anche da ex direttore di festival ho sempre amato la Quinzaine. Poi Cannes è una calamita per l'ego dei registi. Valeria, che è una habitué, ci guiderà. 

Alla Quinzaine sono stati selezionati anche Marco Bellocchio e Claudio Giovannesi.

Sì, è bello condividere la scena con due cineasti così diversi: Claudio è un nostro ex allievo, mio e di Francesca Archibugi, Bellocchio un monumento al cinema italiano d'autore.

Qual è il primo spunto del film?
In un certo senso tutti i miei personaggi sono casi clinici, la psicopatologia corre sotto le nostre storie, è quasi sempre il cuore della narrativa letteraria e cinematografica. Sul set de Il capitale umano immaginammo un finale diverso per il personaggio di Valeria, che facesse finta di andare verso il ricevimento, dove la chiamava il marito, ma poi si buttasse a correre verso il burrone, togliendosi le scarpe con i tacchi. Avevo preparato per lei una controfigura, ma si è messa a correre sul serio divertendosi molto. Insomma, quella è stata la prima scena di Beatrice. 

Ha scritto la sceneggiatura con Francesca Archibugi, che dice di considerare la sua Lucy dei Peanuts. Aveva bisogno di uno sguardo femminile?
Collaboriamo da sempre e condividiamo la passione per la letteratura e per i matti. Non è la mia quota rosa, anzi scherzando dico che scrive bene come un uomo. 

Nel suo film ci sono rimandi ad altre eroine femminili della sua filmografia, in particolare la madre de "La prima cosa bella".
Mi fa piacere pensare che stiamo mettendo insieme un macro film lungo 12 film. Racconto storie di disuguaglianza, scandaglio la Toscana in lungo e in largo, da Livorno a Lucca, da Pistoia a Piombino... E poi mi interessano i personaggi femminili, forse sono un po' donna anch'io, da piccolo ho letto Piccole donneoltre a Jack London. I personaggi femminili che mi interessano sono donne un po' sbagliare, non edificanti, a volte stigmatizzate come poco di buono. Madame Bovary, Anna Karenina, le ragazze di Pietrangeli, Scola e Allen. Devo dire che preferisco Io la conoscevo bene al Sorpasso. Spero di non aver esaurito il mio lato femminile, di continuare. 

Perché pensa che la follia ci riguardi tutti così tanto?
Dalla follia si preferisce allontanare lo sguardo, i pazzi meglio che stiano lontani, reclusi. Invece questa cosa ci riguarda tutti: la tristezza, l'infelicità, l'angoscia. Ci ha fatto bene avere sul set delle pazienti del centro di salute mentale di Pistoia e Montecatini. Sono state liberatorie. A me hanno detto che ho problema nella regolazione dell'umore. Non bisogna avere paura dei matti, ma di chi ha paura della pazzia.

Le dispiace se si paragona "La pazza gioia" a "Thelma e Louise" come è stato fatto?
E' vero, Waintrop ha detto che è Thelma e Louise nel mondo dei lunatici. Ma io, se ho citato quel film, l'ho fatto involontariamente. Ne ricordo solo il finale che era molto bello. Sento di avere tanti debiti, cinematografici e letterari ma non tanto con Thelma e Louise. Piuttosto Qualcuno volò sul nido del cuculo, con la libidine di Jack Nicholson, la sua voglia di andare a pesca, di trombare, di ridere. E poi ci sono tante citazioni da Un tram che si chiama desiderio, a cui abbiamo rubato intere battute, a Dov'è la libertà di Rossellini con Totò che alla fine vuole tornare in prigione. 

Considera "La pazza gioia" un film terapia?

E' una storia di accudimento e di cura tra due pazienti ritenute pericolose. Alla fine tutti i film sono una terapia, aiutano almeno a sopportare meglio le cose della vita, ad accettare senza riserve la natura umana, con i suoi lati sconvenienti e, a volte spaventosi. E La pazza gioia dice che la cura è l'amore.
 
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Game Of Thrones, il colpo di scena arriva nella seconda puntata da larepubblica

Post n°13173 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Pubblicato il 02 maggio 2016
Aggiornato il 02 maggio 2016

E' l'evento che tutti aspettavano sin dalla fine della quinta stagione della serie in onda su Sky Atlantic. C'è chi ha fatto nottata per vederla in contemporanea con gli Stati Uniti e chi ha deciso un black out social per non incorrere negli spoiler...

Game of Thrones ha abituato i fan alle dipartite violente dei suoi protagonisti. Dopo lo shock della decapitazione di Ned Stark nella prima stagione, sono pronti a tutti e hanno capito che George R.R Martin (l'autore della saga Le cronache del ghiaccio e del fuoco da cui è tratta la serie tv) non si fa scrupoli a far fuori i personaggi più amati senza il timore di far calare l'attenzione sulla storia. Ciò a cui gli spettatori non sono pronti, piuttosto, sono le buone notizie. L'attesa di questa sesta stagione era tutta incentrata su un unico avvenimento: che ne sarà di Jon Snow dopo essere stato pugnalato da alcuni dei suoi confratelli? E nel secondo episodio dal titolo “Home” trasmesso su Sky Atlantic in contemporanea con gli Stati Uniti hanno trovato la loro risposta.
 
ATTENZIONE SPOILER: NON VARCATE QUESTA LINEA SE NON VOLETE ROVINARVI LA SOPRESA
 
Il cast durante le riprese della sesta stagione ha più volte confermato che Jon Snow era "morto e stra morto" in quell'ultima scena dell'ultimo episodio della quinta stagione, ma dopo gli avvistamenti dell'attore Kit Harington sul set della sesta (guarda le foto rubate dal set), le ipotesi sul suo ritorno in vita si sono moltiplicate (e nell’universo di Game of Thrones non sarebbe il primo a farlo). Svariate le modalità con cui sarebbe potuto risorgere. Alcune basate sulla teoria R+L = J (ecco di cosa si tratta) altre su un suo eventuale ritorno ad opera degli Estranei, altre ancora sui poteri dei preti e sacerdotesse del Signore della luce che nei libri hanno già dimostrato di essere abilissimi in questo. E guarda caso accanto al cadavere di Jon Snow si aggira proprio Melisandre, una grande sacerdotessa di R'hllor. Ed è proprio lei, senza crederci più di tanto, che sarà l'artefice del suo risveglio. Persa la fiducia nei suoi poteri viene convinta da ser Davos a fare un tentativo e alla fine Jon riapre gli occhi in contemporanea al risveglio dal sonno di Spettro, il suo metalupo. Sono bastati così due occhi sbarrati a far tremare le gambe degli spettatori, a farli commuovere o esultare come dopo la vittoria di una Champions League. Ma la sua risurrezione non fa diminuire le domande, anzi. Che abbiainfluito anche Spettro in questo? E come sarà Jon Snow redivivo? Dai libri sappiamo che un altro personaggio riportato in vita per opera del Signore della luce è tornato cambiato dal regno dei morti, anche il Lord Comandante dei Guardiani della Notte subirà lo stesso destino?
 
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Il ritorno di Zucchero. "Dedico il mio disco ai nuovi partigiani" da larepubblica

Post n°13172 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Pubblicato il 28 aprile 2016
Aggiornato il 29 aprile 2016

'Black cat' è il primo album di inediti del cantautore dopo sei anni di silenzio: "Ho smesso di preoccuparmi delle classifiche, faccio solo quello che mi piace". Tra gli ospiti del disco Costello, Bono e Mark Knopfler

SONO passati sei anni dall'ultimo album di inediti, Chocabeck, sei anni in cui, però Zucchero non è mai stato fermo, tra tour e session internazionali. E ora arriva il nuovo Black Cat, che esce oggi e che celebra una ritrovata libertà, una nuova voglia di musica: "Quando ho cominciato a lavorare a questo album mi sono detto, "ho sessant'anni e il mio futuro è la musica". Quindi ho smesso di preoccuparmi delle classifiche, delle radio, e ho pensato solo e soltanto alle canzoni. Mi sono ricordato di come lavoravo quando facevo Oro, incenso e birra, quando avevo poco da perdere e tanto da dire. Quindi mi sono messo a fare solo quello che mi piace".

Il cuore ritmico della sua musica è sempre pulsante, ma ogni canzone ha sempre il centro nella melodia...
"Anche nei brani ritmici devo trovare un grappolo di note che mi facciano venire la pelle d'oca, che diano il brivido. Lo cerco in ogni brano che faccio, se non lo trovo ci lavoro molto finché non raggiungo l'obbiettivo". 
Ascoltando Partigiano reggiano non si possono avere dubbi sulla "parte" per cui tiene. Così come in Street of surrender. È un disco a suo modo "politico".
"Sono partito da un semplice gioco di parole, ma poi mi è piaciuto avere un ritornello che mi legava alla mia storia, ai racconti di mia nonna, di mio zio prigioniero in Germania, di mio padre sotto il fascismo. Parole che mi hanno sempre mostrato il partigiano come un uomo coraggioso che lascia la casa per andare a combattere il dittatore. Queste sono le mie radici. Mi piacerebbe che oggi ci fossero dei giovani con lo spirito dei partigiani, capaci di stare insieme per combattere contro qualcosa che non va. Forse si può dire che è un disco politico, spero che possa servire ad accendere qualche scintilla. E mi piace che canzoni come Street of surrender abbiano un messaggio universale: le parole di Bono parlano a tutti. Dicono "sono orgoglioso e pieno d'amore, puoi decidere se combattermi o dimenticare l'odio e camminare insieme in queste strade di resa reciproca". Questo disco, più di altri che ho fatto riflette, i nostri giorni, il nostro mondo. Chi fa il mio mestiere deve sentire i cambiamenti, deve ascoltare il vento". 

Oltre a Bono ci sono Mark Knopfler ed Elvis Costello. Perché tutti amano collaborare con lei?
"La mia musica, il mio stile, il mio suono, appartengono anche a loro. Giochiamo nella stessa squadra: quella della buona musica". 
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    Foto: Meeno

Adesso torna in tour, prima dieci date in Italia, a Verona dal 16 al 28 settembre, poi due concerti alla Royal Albert Hall e l'esordio in Giappone.
"Sarà un tour molto lungo, durerà un anno e mezzo. Voglio riprodurre senza orpelli, niente effetti speciali, con la voglia di mettere in primo piano solo la musica".

Adesso torna in tour, prima dieci date in Italia, a Verona dal 16 al 28 settembre, poi due concerti alla Royal Albert Hall e l'esordio in Giappone.
"Sarà un tour molto lungo, durerà un anno e mezzo. Voglio riprodurre senza orpelli, niente effetti speciali, con la voglia di mettere in primo piano solo la musica".
 
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Capitan Harlock - L'arcadia della mia giovinezza

Post n°13171 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Emanuele Sacchi     * * * - -
 
Locandina Capitan Harlock - L'arcadia della mia giovinezza

La Terra cade sotto i colpi degli invasori da Illumidas. Ad Harlock e ai suoi amici non resta che la resa, ma le parole di Maya attraverso la sua radio clandestina infondono coraggio nei cuori dei terrestri, incitandoli a una disperata rivolta.
Simbolo di tutti gli spiriti indomiti e avventurosi, emblema della ribellione anarchica, Capitan Harlock è uno dei personaggi-simbolo degli anime anni '70 e '80, di quelle serie Tv o di quei lungometraggi che hanno educato un'intera generazione, insegnando valori di umanità, onore e fratellanza. Ultimo dei pirati, Harlock vaga irrequieto, sventolando il suo Jolly Roger, intorno alla Terra, come un esiliato che non disdegna del tutto il suo stato di isolamento. Primo film a provare a scavare nelle radici del carattere del condottiero éCapitan Harlock - L'arcadia della mia giovinezza, due ore di prequel sulla genesi del personaggio ed eroe, che si scopre essere un ex-militare ma soprattutto un uomo capace di amare, costretto dalle circostanze a perdere la sua compagna e a scegliere un destino di solitudine e lotta per la libertà. 
Spezzando così la continuity con la serie originale, prima delle successive e definitive alterazioni del passato di Harlock in Harlock Saga. Lo scopo di L'arcadia era molto ovviamente quello di ogni prequel che si rispetti: fornire tutte le risposte e trovare una spiegazione per i comportamenti peculiari di Harlock o per la sua condizione (la famosa benda su un occhio). La visione ad anni di distanza del film colpisce per più di un verso: da un lato stupisce la cura per i dialoghi e per la psicologia dei personaggi, raramente riscontrabile negli anime di venti o trenta anni dopo, così come la capacità di affrontare eventi tragici senza indulgere in melodrammatici esibizionismi. Prevale una sensazione di pessimismo cosmico, un "no future" totale che non lascia indifferenti. Il rovescio della medaglia è invece costituito dal lato visivo e tecnologico che, ovviamente, riserva le maggiori delusioni.
Troppa staticità e tendenza alla ripetizione nei disegni, interamente realizzati a mano e quindi impossibilitati nella resa di una profondità di campo (in cui ogni personaggio sullo sfondo gode di vita propria) oggi consentita dalla computer graphics e dalla intelligenza artificiale delle routine utilizzate. Nonostante un invecchiamento difficile, L'arcadia della mia giovinezza resta una delle tappe fondamentali dell'epopea dell'eroe di Matsumoto Leiji, resa smagliante dal nuovo restyling tecnologico.

 
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Torneranno i prati

Post n°13170 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 


In un avamposto d'alta quota, verso la fine della prima guerra mondiale, un gruppo di militari combatte a pochi metri di distanza dalla trincea austriaca, "così vicina che pare di udire il loro respiro". Intorno, solo neve e silenzio. Dentro, il freddo, la paura, la stanchezza, la rassegnazione. E gli ordini insensati che arrivano da qualche scrivania lontana, al caldo. Ordini telefonati che mandano i soldati a farsi impallinare come tordi. 
torneranno i prati, scritto tutto minuscolo come si conviene ad una storia minima e morale, non è un film d'azione e non ha nemmeno una trama nel senso canonico del termine, perché i pochi avvenimenti si consumano come la cera di una candela, dentro una quotidianità sporca e scoraggiata. Il film di Olmi è una ballata malinconica come la melodia alla fisarmonica che apre la narrazione, e triste come Il silenzio, le cui note sono incorporate nel tema finale composto e suonato alla tromba da Paolo Fresu. torneranno i prati è un film epidermico, che ci fa sentire il ruggito dei mortai in lontananza, il rosicchiare del trapano che scava una galleria nemica sotto la trincea, il gelo e la monotonia delle giornate segnate dal rancio e dalla consegna della posta, unica occasione in cui i nomi dei soldati vengono pronunciati, riconoscendoli come esseri umani invece che come semplici numeri. I militari, dal capitano alla recluta, restano attoniti davanti all'orrore dell'inganno in cui sono caduti per aver creduto nell'amor di patria e nel dovere del cittadino italiano. Alcuni guardano verso di noi e raccontano quell'orrore e quella solitudine, ricordandoci i magistrali sguardi in camera de Il mestiere delle armi. Anche questi soldati semplici sono testimoni della storia, una storia che si è consumata sulla loro pelle, e a loro insaputa. 
La fotografia profondamente evocativa di Fabio Olmi, a suo agio nel gestire tanto le nebbie quanto il profilo nitido delle montagne, allinea quadri grigi in successione atemporale, sottolinea i colori dell'oro e del sangue; le scenografie di Giuseppe Pirrotta ricostruiscono con esattezza storica ed emotiva la miseria della trincea, fatta di pochi pezzi essenziali - la gavetta, la lampada ad olio - e i costumi di Andrea Cavalletto (con l'amichevole supervisione di Maurizio Millenotti) trasformano i soldati in fantasmi, ombre imbacuccate irriconoscibili a se stesse sotto pile di coperte che non bastano a cacciare il freddo dalle ossa. Ci vuole pudore per raccontare una guerra senza senso, come lo sono tutte le guerre. Ci vogliono lunghi silenzi, profondità di sguardo e di coscienza, per intonare un de profundis dedicato alla memoria dei tanti giovani (e meno giovani) morti in luoghi dove poi sarebbero ricresciuti i prati, cancellando la memoria del loro sacrificio. Un sacrificio di cui il regista si fa cantore, ritraendo i suoi soldati nel momento dell'estrema consapevolezza di essere andati a morire invano, in una guerra di posizione che si è rivelata una mera attesa del proprio destino finale.
In torneranno i prati c'è la lezione di Remarque e Rigoni Stern e Buzzati, nessuno citato perché tutti assorbiti nel sapere di Olmi, che crea un mondo da incubo i cui personaggi si rivolgono a noi dicendo: questo ero io, e lo ricordo proprio a te, sperando che tu sia custode della mia memoria, e che porti con te il mio messaggio. Perché "anche quelli che sono tornati indietro hanno portato dentro la morte che hanno conosciuto", e se il piccolo Ermanno ricorda i racconti del padre, cui ha dedicato questo film, il regista più che ottantenne teme che, come dice un soldato, "di quel che c'è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero".
torneranno i prati è un film perfettamente centrato nel cuore di tenebra di una trincea, e di una guerra, buia e allucinata, il nostroApocalypse Now, cronaca di un conflitto supremamente inutile, e che la Storia vorrebbe dimenticare.

 
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The captive da cineblog

Post n°13169 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Nemmeno un anno dalla prima mondiale di Devil's Knot a Toronto. Atom Egoyan da lì non si smuove, tornando subito a trattare un'altra storia dall'alto tasso scabroso. Una rete di pedofili semina il terrore attraverso una serie di rapimenti. I bambini vengono prelevati addirittura quasi sotto gli occhi dei genitori, come capita a Matthew (Ryan Reynolds): davanti a un diner, giusto il tempo di comprare il pranzo ed un gelato. Se a questo si aggiungono le foto atroci che girano per la rete, lo scenario va da sé. Su Twitter Scott Foundas scrive: «raramente è un buon segno quando un film comincia con un maniaco p

The Captive (o Captives, come preferite) ha inizio proprio in questo modo. E bisogna dire che, ironia a parte, in un primo momento Egoyan ci vede giusto. La prima metà del film, o giù di lì, è disorientante: frequenti salti temporali in avanti e all'indietro senza nessuna misura tesa ad informarci di questo giochino; personaggi già in corsa, riguardo ai quali ci vengono per lo più sottoposti alcuni episodi. Sta a noi ricostruire quanto è accaduto, anche se, una volta chiarito il quadro, si avverte nostalgia di quel breve momento di ignoranza.

Sono trascorsi otto anni dal rapimento di Cass, ma nessuno dei suoi genitori, che lo voglia o meno, è riuscito davvero a riprendersi da quell'accaduto. La speranza è un lusso che in fin dei conti non possono concedersi, finché un giorno non incappano in due poliziotti che stanno lavorando a dei casi analoghi. In realtà Egoyan non fa mistero di che fine abbia fatto la ragazzina, che dal giorno in cui fu rapita davanti a quel diner vive segregata in una stanza all'interno dell'abitazione del proprio rapitore.

Questo rivelare preventivamente le carte non dispiace affatto, anzi, mette benzina sul fuoco, impreziosendo situazioni e comportamenti che per un po' ci lasciano interdetti. Anche noi vogliamo venire a capo di quel caso, e tipica del giallo è la pratica di congetturare su quale possa essere il suo sviluppo nonché l'epilogo. Il problema è quando tocca realizzare che quello di Egoyan è un bluff a pieno titolo, mentre tira per le lunghe una storia che a un dato punto approda ad un vicolo cieco e che quindi non può far altro che girare su sé stessa.

Sorprendentemente privo di interesse, la piega che assume The Captive non contribuisce a reggere un film che si sgonfia troppo presto e che stancamente si sforza di approdare ad una conclusione che non ripaga affatto delle quasi due ore che ci sono volute per arrivarci. Ciò che lascia maggiormente l'amaro in bocca è assistere ad un Egoyan così innocuo, incredibilmente piatto, che confeziona un film mainstream senza integrare un briciolo di idea che sia tale. Arrendevole, ci spiace che ad un progetto le cui premesse promettevano qualcosa di ben diverso sia seguito invece un prodotto senz'anima, che aveva tutti i requisiti per funzionare ed invece non funziona - non meno rilevante un'inspirata ambientazione, tra le nevi dell'Ontario.

Un tonfo non da poco, visto che probabilmente mai come in questo caso il regista canadese era atteso al varco. Solo che ad una cornice impeccabile segue un dipinto modesto, troppo per un pittore che è vivace ma non s'impegna (come ci dicevano alle scuole elementari). E mentre noi si aspetta che Egoyan torni a fare sul serio, non possiamo che consigliare di tenere d'occhio il più promettente tra i cineasti "emergenti" (d'obbligo le virgolette) in Canada, di quelli che fanno thriller tra l'altro. No, non mi riferisco a Xavier Dolan, la cui menzione in tal senso sarebbe legittima solo in relazione a Tom à la ferme. Parlo di Denis Villeneuve, che conPrisoners si è dimostrato ampiamente all'altezza della situazione.

Voto di Antonio: 4 
Voto di Gabriele: 3

The Captive (Captives, USA, 2014) Atom Egoyan. Con Ryan Reynolds, Scott Speedman, Rosario Dawson, Mireille Enos, Kevin Durand, Alexia Fast, Peyton Kennedy, Bruce Greenwood, Brendan Gall, Aaron Poole, Jason Blicker, Aidan Shipley, Ian Matthews, Christine Horne, William MacDonald, Ella Ballentine, Jim Calarco e Michael Vincent Dagostino.

 
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Fedele alla linea

Post n°13168 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Fedele alla Linea - Giovanni Lindo Ferretti

Film-dialogo con Giovanni Lindo Ferretti, cantautore e scrittore, anima delle band di culto CCCP Fedeli alla linea, C.S.I. e PGR. Alla boa dei sessant'anni, il controverso artista emiliano si concede alla discreta macchina da presa di Germano Maccioni, consegnando il quadro intimo-personale quanto artistico del proprio cammino: dall'infanzia alla vocazione musicale, dall'ideologia politica alla ritrovata fede nella religione cattolica durante la maturità. 
La forma colloquiale di Fedele alla linea, ritratto che ha il pregio di non trasformarsi mai in un santino, è la forza di un documentario totalmente affidato al ritmo ipnotico e alle parole di un narratore di prima classe. A colpire più della mano registica o del montaggio - peraltro inventivo: si pensi al contrasto creato dall'accostamento della musica con immagini da La madre e Tempeste sull'Asia di Pudovkin - è la particolarità di una esposizione quieta e serena, la frontalità, reale e metaforica, di un discorso tenuto lontano da qualsiasi intenzione predicatoria. L'attaccamento alle montagne d'origine, Cerreto Alpi nell'Appennino reggiano, l'amore per i costumi del luogo, il percorso musicale o il racconto delle malattie avute e sconfitte riempono lo schermo, plasmando l'intero spazio filmico. In due parole, l'itinerario di Ferretti, probabilmente un unicum nel panorama della musica italiana, mette nero su bianco il desiderio di un ritorno a casa, di un vero e proprio "nostos" che ha come porti finali il focolare e la fede: «Senza famiglia e chiesa non si vive». Oltre alle stanze dell'abitazione del musicista, set di gran parte dell'intervista, ha fondamentale rilevanza la stalla in cui alleva gli amati cavalli, legame tangibile con la storia e la terra, poi ritratti durante le esibizioni di "Saga. Il canto dei Canti", ambizioso progetto di opera equestre ideato per riportare alla luce il passato di un orizzonte social-culturale rimosso. Distante dal concetto di film biografico, procede infatti per sprazzi, suggestioni e temi portanti senza una certa linea cronologica (purtroppo è del tutto assente la fase PGR), la cronaca montana di Maccioni restituisce il ritratto di un mondo che è sul punto di morire, di un luogo lontano da una modernità che non fa rima con progresso: «Prima erano poveri e liberi, adesso sono poveri e schiavi» conclude Ferretti, riferendosi agli abitanti del borgo che hanno deciso di trasferirsi in città per l'illusione di un'emancipazione. A quanto girato dal regista si amalgamano con armonia immagini dei CCCP Fedeli alla linea nella Berlino degli anni Ottanta, scatti dei primi concerti concessi da Umberto Negri, contributi inediti filmati da Benedetto Valdesalici, ex-psichiatra che negli anni Ottanta seguiva la band, e alcuni estratti da Tempi moderni di Luca Gasparini e 45° parallelo di Davide Ferrario. Ad ogni modo, non si tratta di un lavoro destinato ai soli fan.

 
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Soap opera

Post n°13167 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 


Nel condominio di una Milano 'accennata' convive una piccola comunità di inquilini eccentrici, che non smettono di farsi i fatti degli altri e di infilarsi alla prima occasione nella vita degli altri. Al piano terra vivono Gianni e Mario, gemelli eterozigoti e tignosi, uniti a filo doppio dalla fratellanza, l'abitudine e un incidente che ha costretto Mario sulla sedia a rotelle. Di fronte a loro c'è Pietro, un uomo introverso che ha ereditato l'appartamento alla morte della madre. Al primo piano si concede con allegria Alice, attrice di soap col vizio del sesso e degli uomini in divisa. Al secondo invece si consola con un'amante occasionale Francesco, che ha tradito la fidanzata e prova a gestire il rimorso e l'amico Paolo, depresso con un figlio in arrivo e l'idea fissa di amare Francesco. Mine vaganti in un interno, a esplodere per prima è quella di Pietro, che si spara alla tempia e disinnesca i vicini, su cui sospettoso e spaccone indaga adesso il maresciallo dei carabinieri Gaetano Cavallo. 
Archiviato il cinepanettone e corrette le coordinate del genere, la nuova commedia "di mezzo" presenta, al di là delle differenze di tono e di stile, una serie di elementi trasversali che la rende agli occhi dello spettatore immediatamente riconoscibile, rassicurante e prediletta. La prossimità al mondo dell'intrattenimento televisivo, attiguo come i vicini di Soap Opera, la generazione di sceneggiatori e registi in equilibrio tra piccolo e grande schermo, la ricerca di una declinazione locale di una commedia fino a un certo a punto all'italiana e orientata ai modelli inglesi, francesi e americani, non difettano nemmeno al cinema di Alessandro Genovesi, che questa volta fa qualcosa di più che parcellizzare e ripresentare implementato il suo prototipo di successo. DopoLa peggior settimana della mia vita e Il peggior Natale della mia vita, Genovesi scrive e dirige una commedia accomodata in un condominio ricostruito in studio, di cui esibisce gli 'interni' e i movimenti interiori dei suoi residenti. 
Ancora una volta, come nei film precedenti, sono gli attori a costituire la materia prontamente espiantabile dal modello, capitalizzando immaginari già attivati nello spettatore. Sul pianerottolo e dentro una storia che si svolge sotto ai nostri occhi, abitano allora nuovi e vecchi inquilini: il gaffeur Fabio De Luigi e l'indeterminata Cristiana Capotondi, l'esagerata Chiara Francini e l'eclettica Caterina Guzzanti, il malincomico Ricky Memphis e l' 'eccezionale' Diego Abatantuono, la sofisticata Elisa Sednaoui e i pregiatissimi solisti di Ale e Franz, che insistono su se stessi, svanendo alla gravità dei loro ruoli in un contrasto tutto poetico tra leggerezza e pesantezza. Distinguere l'identità stessa dei personaggi dalla maschera indossata è cosa superflua perché tutto è portato a rivelarsi per quello che è. Ed è quello che è a rendere singolare Soap Opera, che sta saldamente in piedi nel suo gioco svaporato e affermato tra sentimenti e coabitazione. Autore e regista di Happy Family, la versione teatrale, e sceneggiatore di quella cinematografica, diretta da Gabriele Salvatores, Genovesi realizza senza dubbio il miglior film della sua vita, radicalizzando la finzione (e il suo stile) attraverso l'astrazione degli spazi rappresentati. 
In sostanza, il regista milanese svela il trucco con una buona (rap)presentazione, sganciata dal peso del disimpegno e felicemente 'campata in aria', libera dalla vita (vera) e piena di figure attratte dalla gravità, che ancora le ancora al suolo, ma comunque sospese in volo sciolte, disperse e instabili nel condominio e dentro un'architettura perfetta. Se il Pietro di Genovesi si 'suicida' a pochi minuti dall'inizio, a 'dirigere' la compagnia sopraggiunge il maresciallo ganassa di Diego Abatantuono, impagabile e inversamente proporzionale alla sciabola del suo ufficiale gentiluomo.

 
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Il caso Spotlight

Post n°13166 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina Il caso Spotlight

Al “Boston Globe” nell’estate del 2001 arriva da Miami un nuovo direttore, Marty Baron. E’ deciso a far sì che il giornale torni in prima linea su tematiche anche scottanti, liberando dalla routine il team di giornalisti investigativi che è aggregato sotto la sigla di ‘Spotlight’. Il primo argomento di cui vuole che il giornale si occupi è quello relativo a un sacerdote che nel corso di trent’anni ha abusato numerosi giovani senza che contro di lui venissero presi provvedimenti drastici. Baron è convinto che il cardinale di Boston fosse al corrente del problema ma che abbia fatto tutto quanto era in suo potere perché la questione venisse insabbiata. Nasce così un’inchiesta che ha portato letteralmente alla luce un numero molto elevato di abusi di minori in ambito ecclesiale.
Lo scandalo che, a cavallo tra il 2001 e il 2002, travolse la diocesi di Boston diede il via a una indispensabile, anche se comunque sempre troppo tardiva, presa di coscienza in ambito cattolico della piaga degli abusi di minori ad opera di sacerdoti. Il film di Thomas McCarthy, rispettando in pieno le regole del filone che ricostruisce attività di indagine giornalistiche che hanno segnato la storia della professione, ha anche però il pregio di rivelarsi efficace nel distaccarsene almeno in parte. Perché i giornalisti del team non sono eroi senza macchia che combattono impavidi il Male ovunque si annidi. Qualcuno tra loro aveva avuto tra le mani materiale che avrebbe potuto far scoppiare il caso anni prima (evitando così le sofferenze di tanti piccoli) ma non lo ha fatto. Così come le alte sfere hanno taciuto e le vittime, in molti casi, hanno (anche se comprensibilmente) preferito non esibire con denunce le ferite impresse nel loro animo. 
Un film come Spotlight non è solo cinematograficamente efficace anche perché sorretto da un cast di attori tutti aderenti al ruolo (con in prima fila un Michael Keaton che sembra aver trovato una nuova giovinezza interpretativa) ma anche perché finisce con l’affermare un dato di fatto incontrovertibile. La Chiesa Cattolica, grazie ad alcuni suoi esponenti collocati ai livelli più alti della gerarchia, ha creduto di ‘salvare la fede dei molti’ nascondendo la perversione di pochi. Ha invece ottenuto l’effetto contrario finendo con il far accomunare nel sospetto di un’opinione pubblica, spesso pronta alla semplificazione, un clero che nella sua stragrande maggioranza ha tutt’altra linea di condotta. La forza con cui Papa Francesco ha condannato, anche con la detenzione entro le mura vaticane, i colpevoli di questo tipo di reati è prova di un’acquisita nuova consapevolezza in materia. Quell’inchiesta di poco più di dieci anni fa ne è all’origine e quei giornalisti, anche se non ne erano del tutto consapevoli, finivano con il ricordare a chi regalava loro copie del Catechismo di andare a rileggere e fare proprie le parole di Gesù: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo 18, 6).

 
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Suffragette

Post n°13165 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Suffragette

Londra, 1912. Maud Watts è una giovane donna occupata nella lavanderia industriale di Mr. Taylor, un uomo senza scrupoli che abusa quotidianamente delle sue operaie. Alcune di loro combattono da anni a fianco di Emmeline Pankhurst, fondatrice carismatica e ricercata della Women's Social and Political Union. Solidali e militanti, le suffragette combattono per i loro diritti e per il loro diritto al voto. Ignorate dai giornali, che temono gli strali della censura governativa, e dai politici, che le ritengono instabili e inette fuori dai confini concessi, decidono unite di passare alle maniere forti. Pietre contro le vetrine, boicottaggio delle linee telegrafiche, bombe in edifici rappresentativi (ma vuoti), scioperi della fame, tutto è lecito per avanzare la causa. Mite e appartata, Maud diventa presto una militante appassionata e decisa a vendicare le violenze in fabbrica e a riscattare una vita che la costringe alle dipendenze degli uomini. Arrestata più volte, perde il lavoro e viene 'ripudiata' dal marito che la caccia di casa e adotta a una famiglia borghese il loro bambino. Rimasta sola trova ragione e forza nella lotta politica, attirando con le sue sorelle l'attenzione del mondo che adesso dovrà starle a sentire.
A lungo e ingenuamente le abbiamo immaginate come nel film Mary Poppins, un pugno di borghesi gentili che bevono tè e sfilano gioiose dentro le loro camicette bianche impreziosite con fiori freschi e fasce di seta sul petto. Sarah Gavron le rivela invece per quello che le suffragette furono davvero, un piccolo esercito armato di operaie pronte a sabotare le loro città, a infrangere vetrine a colpi di pietra e a collocare bombe. Questa secondo la regista inglese è la vera storia delle suffragette, quella che la stampa dell'epoca si guardò bene dal raccontare, quella che ancora ci si guarda bene dal raccontare nelle scuole. 
Suffragette non brilla per la sua forma, il film è più scritto che messo in scena, nondimeno Sarah Gravon e Abi Morgan hanno il merito di far conoscere questa versione dei fatti, celebrando la lotta per l'uguaglianza, contro le molestie sessuali e la disparità salariale che scosse l'opinione pubblica all'inizio del secolo. Sceneggiatrice di Suffragette e penna dietro The Iron Lady e The Hour (la serie televisiva), Abi Morgan sfoglia negli archivi, nelle lettere, nei diari intimi e mai pubblicati di numerose donne che come la protagonista presero parte alla causa sacrificando la loro vita privata o perdendo la propria vita come Emily Davison sotto il cavallo di re Giorgio V per guadagnare l'attenzione dei media. Donne spiate, picchiate, imprigionate perché volevano essere pienamente, per loro e per le generazioni a venire. Vitale e verace, Suffragette elude la rigidezza del film in costume e trova in Carey Mulligan una protagonista sensibile e ardente. 
Mélange di tutte le suffragette britanniche, Maud Watts è interpretata da un'attrice capace di esprimere le sue evoluzione sottili, le emozioni di un'eroina dentro primi piani instabili in cui emerge la presa di coscienza e da cui sembra pronta a fuggire verso un impegno che le farà perdere impiego e famiglia. L'epifania toccante di Carey Mulligan si accompagna alla solidarietà militante dell'operaia tribolata e magnifica di Anne-Marie Duff e alla determinazione della farmacista di Helena Bonham Carter, che rende omaggio, non solo nel nome, a Edith Garrud e alle sue jiu-jitsuffragettes. Professionista delle arti marziali, Edith Garrud organizzò dal 1913 dei corsi riservati esclusivamente alle donne incoraggiandole a difendersi dai poliziotti durante le manifestazioni duramente represse. Icona, fuori e dentro lo schermo, è Meryl Streep a incarnare Emmeline Pankhurst in una breve ma vigorosa apparizione perché Sarah Gravon al biopic su una donna straordinaria dentro una causa straordinaria, preferisce la vicenda di donne ordinarie, operaie che hanno incarnato l'avanguardia del cambiamento in grembiule o gonne lunghe. Morte sotto i colpi della polizia, arrestate, alimentate con forza a causa dello sciopero della fame, dopo quarant'anni di campagne pacifiche, che ottengono soltanto promesse infrante, le suffragette abbandonano la compostezza indulgente e decidono per la disubbidienza civile, senza esitare a ricorrere ad azioni radicali e violente. Ma sono donne e non lo fanno con leggerezza, diversamente dai terroristi che uccidono innocenti, colpiranno soltanto sedi vuote ma distinte per attirare l'attenzione sul movimento e la causa. 
Quanto a sapere se questa violenza valesse la pena o se tanta violenza abbia infine permesso di ottenere il diritto al voto, a riguardo gli storici hanno discordi opinioni. Quello che è certo per la Gravon è il prezzo pagato dalle donne che l'hanno perpetrata dentro una società reazionaria e che il suo melodramma sociale mette in scena in maniera forte e dolente, chiudendo sul funerale di Emily Davison e sull'idea di farci dono di un modello da seguire. Perché la strada da fare è ancora lunga e scorre sui titoli di coda indicanti le date di conseguimento del voto, raggiunto dalle donne britanniche nel 1918 (in maniera incompiuta). Le italiane ventisei anni dopo. In Arabia Saudita il diritto al voto è stato concesso a partire dal 2015.

 
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Remember

Post n°13164 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Remember

Zev Guttman, ebreo affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l'orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant'anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi. Quattro le identità da verificare, uno il colpo in canna per chiudere una volta per tutte col passato. Tra America e Canada, Zev troverà il suo 'nazista' e con lui una sconvolgente epifania.
C'è stato un tempo (lontano) in cui il nome di Atom Egoyan risuonava come la promessa di un cinema 'deragliante'. Un cinema di resistenza e devianza contro i dettami della società nord-americana e contro quelli dell'industria cinematografica hollywoodiana. Negli ultimi anni invece l'autore canadese, indeciso tra Hollywood e indipendenza, ha faticato a trovare il suo posto, a rintracciare il suo sguardo precursore e la cerebralità glaciale sotto cui coltivava l'emozione e faceva di quell'emozione un vero e proprio campo di tensione. TuttaviaRemember riemerge a sorpresa la sua identità canadese e le sue ambizioni artistiche, infilando, dopo quello di Felicia, un altro viaggio straordinario. Quello di un sopravvissuto alla Shoah che soffre di demenza senile, che vorrebbe vendicare il suo passato, che intraprende il viaggio e dimentica regolarmente perché lo ha intrapreso. 
Remember ribadisce gli elementi tipici del cinema di Egoyan, a partire dalla sua attenzione per la struttura (a puzzle o a labirinto). Una struttura che produce un'abile premessa smentita poi dall'epilogo, lasciando lo spettatore solo col suo desiderio di coerenza. Perché una parola e un'immagine interrompono improvvisamente il processo di costruzione di senso, invalidando il lavoro compiuto e innescando un movimento di rivalutazione della vicenda che annuncia qualcosa fino a quel momento impensabile. Impossibile dire meglio e di più senza togliere allo spettatore il piacere frustrante (e frustrato) di una manifestazione inattesa. 
Alla maniera di Black Comedy, dove un piano sequenza smascherava il mito di una famiglia perfetta, costringendo il protagonista e lo spettatore a riconsiderare le tracce del passato alla luce di quella rivelazione, Remember sconfessa la propria edificazione narrativa con un arresto secco, un passaggio di segno brutale che introduce un nuovo ordine e configura una nuova inquietante emergenza. La violenza dell'atto di ricomposizione 'uccide' il protagonista di Christopher Plummer e basisce lo spettatore empatico con la ricerca di vendetta. Un regolamento di conti con la Storia e con una storia di 'privazione', che il vapore della doccia, la sirena di una diga, il ringhio di un pastore tedesco, le grida rabbiose di un poliziotto ubriaco, 'rigenerano', giustificano e suggeriscono, perché in relazione di vicinanza con l'esperienza concentrazionaria. 
L'indagine estenuante e l'impossibilità di Zev di concedere il proprio perdono al giovane SS, si rovescia di colpo e con un colpo di pistola in un movimento che colpisce duro personaggio e spettatore, precipitando il film in un territorio instabile su cui non è davvero più possibile ricostruire, neppure dolorosamente. In questo scarto ritroviamo la poetica di Egoyan, il suo cinema incentrato quasi sempre su una catastrofe assente, di cui ripercorriamo i brani e di cui conosciamo soltanto lo choc di ritorno. Il trauma su cui i suoi personaggi cercano di riprendere il controllo attraverso una ricerca improntata frequentemente sulle foto o sui video. 
Remember, thriller senile sulla Memoria e sulla mostruosità banale del totalitarismo, che ha privato l'uomo della percezione di sé e di tutte le categorie intellettive soggettive, quelle che permettono di discernere e di scegliere con coscienza tra il bene e il male, ritrova l'autore e la strategia dello scarto del suo cinema, lo stravolgimento della percezione e il narcisismo con cui riconciliamo la frattura tra desiderio e identificazione.

 
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99 homes

Post n°13163 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina 99 Homes

Dennis Nash, sua madre e suo figlio vengono buttati fuori dalla casa in cui hanno sempre vissuto nel giro di pochi minuti, il tempo di raccogliere due cose, le foto ricordo, i giochi del bambino, una piantina in vaso. L'agente immobiliare Rick Carver non ha tempo da perdere e si fa accompagnare dalla polizia. Dopo Nash, tocca a molte altre case, famiglie da spedire in qualche motel, anziani da parcheggiare alla croce rossa: tutta gente che non ce la più a pagare il mutuo, tutte case che fruttano a Carver un sacco di soldi. Ma Nash non si vuole arrendere, è deciso a ridare al figlio la sua stanza, dovesse vendere l'anima al diavolo. Ed è così che comincia a lavorare per Carver stesso, dentro e fuori la legalità, infliggendo ad altri come lui le sofferenze che ha appena subito, perché "l'America è stata costruita per i vincenti" e non sarà lui il perdente di turno. 
"A che prezzo?", domandava Barahni nel suo ultimo film, e la domanda ritorna, ancora calata in un'attualità drammatica e in un'età della crisi di cui il regista si è eletto narratore lucido ma anche simpatetico. Trasportatosi dall'America rurale del businnes delle sementi geneticamente modificate a quella urbana e residenziale di Orlando, Florida, Bahrani riposiziona gli stessi elementi sulla nuova scacchiera senza far pesare la ripetizione, ma declinandola in fruttuosa coerenza di temi e di stile. 
Andrew Garfield è il protagonista in lotta con se stesso e col destino, emblema del giovane uomo per bene, che una volta si sarebbe detto timorato di Dio ("Vai in chiesa?" gli chiede il boss, "Certo", risponde lui a denti stretti) e non avrebbe versato una lacrima fino ad un minuto dalla fine e invece oggi ha sempre gli occhi rossi perché i nuovi duri non nascondono la tenerezza e perché tensione e empatia in questo film procedono appaiate e inseparabili per definizione. Diviso in coscienza dal turbamento morale, il suo personaggio si divide anche idealmente nei due alter-ego che lo attorniano, come un cattivo ladrone e un buon ladrone ai lati della croce. Da una parte il mefistofelico Carver, il "padre" che potrebbe rendere orgoglioso e di cui potrebbe ereditare fascino e impero, dall'altra il padre di famiglia che Dennis stesso ha incarnato fino a un attimo prima, che si aggrappa con le unghie alla legge degli uomini, insufficiente e corruttibile, non potendo concepire un altrimenti. 
Non c'è molto spazio per farsi sorprendere in questo genere di prosa cinematografica, e il regista, in aggiunta, si lascia prendere un po' la mano e conduce i tempi oltre la misura ideale. Il commento musicale, ansiogeno e pomposetto, ribadisce il concetto sforando nel superfluo. Ma il messaggio ha trovato una bella dicitura filmica: vincere non è fare cento, ma sapersi fermare (foss'anche) a novantanove.

 
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Posh

Post n°13162 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 


Un gruppo di studenti viene ammesso all'università di Oxford, dove fra i tanti club accademici il più esclusivo è il Riot, che accoglie solo dieci membri destinati a "diventare delle fottute leggende". I nuovi ammessi sono Miles e Alistair, entrambi di ottima famiglia e allevati nel privilegio, ma molto diversi fra loro: Miles è tollerante, di mentalità (relativamente) aperta e disposto a fidanzarsi con Lauren, una studentessa che non ha il suo pedigree aristocratico. Alistair vive nell'ombra del fratello maggiore Sebastian, mitico ex presidente del Riot Club, e si abbandona a lunghe tirate contro quella borghesia che "ci odia, ma vorrebbe essere come noi". 
Dalla sua pièce teatrale The Riot Club, un successo sui palcoscenici londinesi, la commediografa Laura Wade ha tratto la sceneggiatura di Posh, e la casa di produzione ha avuto l'intelligenza di affidarne la regia alla danese Lone Scherfig, il cui precedente An Education, l'ha resa la candidata perfetta per dirigere questa storia. Come in An Education, anche in Posh c'è la descrizione di una upper class spocchiosa e arrogante, convinta che il proprio posto nel sistema di caste che ancora oggi caratterizza la società inglese sia frutto di un disegno divino. Anche in Posh lo sguardo della regista alterna e mescola attrazione e repulsione, perché è fondamentalmente lo sguardo della classe della quale i ragazzi del Riot Club parlano con il massimo disprezzo - la borghesia - secondo loro disposta a tutto per salire i gradini della scala gerarchica e pronta a vendersi al migliore offerente. E se in An Education il microcosmo che Scherfig raccontava era prevalentemente femminile, qui le donne restano ai margini e il dramma si consuma in un'autocelebrazione delle componenti più stereotipate del maschile.
La storia culmina in una lunghissima cena (che nella pièce era l'ambiente unico della vicenda) in cui i fraternity boys si divertono a mangiare, bere, tirare di coca, umiliare le ragazze presenti e diventare elementi di sempre maggiore disturbo per gli altri avventori e per il proprietario del locale, incarnazione perfetta (sempre secondo loro) della mediocrità borghese.
Posh si inserisce nella lunga lista di film che raccontano l'assurdità crudele delle confraternite universitarie anglosassoni. Ma Scherfig è molto efficace nel riacciuffare al volo una storia che rischiava di perdersi nell'escalation di degrado e violenza dei ragazzi (la necessità di rimanere un "film per tutti" ha fatto tagliare alla distribuzione le scene più crude e insistite e le volgarità più esplicite, rispetto alla versione vista a Toronto) con un finale che indica come le confraternite non siano altro che il frattale di una società che si regge sulla protezione istituzionale delle élite
Sherfig posa sui suoi giovani protagonisti lo stesso sguardo algido e (apparentemente) distaccato con cui raccontava la vicenda della studentessa circuita dal playboy in An Education, rivelando una capacità molto originale (anche se spiazzante e spesso sgradevole) di raccontare la ferocia insita nella natura umana, ancor più agghiacciante se coperta da una pàtina di civiltà. La regista danese concede ai suoi personaggi una complessità che si misura in un braccio di ferro continuo con le pressioni sociali e famigliari che li circondano, ben assistita da un cast che mette in scena tre talenti emergenti del nuovo cinema inglese: Max Irons (figlio di Jeremy e di Sinéad Cusak), Douglas Booth (il Romeo del film di Carlo Carlei) e Sam Clafin (il Finnick Odair di Hunger Games). 
Posh è una favola nera sul cuore di tenebra che sostiene un intero sistema sociale, e che vive la propria autoperpetuazione senza alcuna volontà (o capacità) di porle fine, men che meno cercare redenzione.

 
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La scomparsa di Eleanor Rigby: Loro

Post n°13161 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina La scomparsa di Eleanor Rigby: Loro

Eleanor Rigby è stata chiamata così da un ragazzo e una ragazza che si erano incontrati davanti ad un locale dove avrebbero dovuto suonare i Beatles, e forse nel nome scelto per lei, una volta che quel ragazzo e quella ragazza sono diventati una coppia sposata, c'era un'intuizione profonda riguardo al destino della propria figlia. Perchè Eleanor, quando noi spettatori facciamo la sua conoscenza, è una trentenne che ha scelto la solitudine, scomparendo dalla vita del marito Conor e rimanendo virtualmente alla finestra a contemplare tutta la gente sola come lei. 
Dietro la sua scomparsa c'è una tragedia insopportabile, davanti, apparentemente, il nulla. Dal canto suo Conor non si rassegna alla sparizione della moglie, e cerca in ogni modo di rimettersi in contatto con lei. Ma anche lui non sa affrontare la tragedia che ha segnato la loro storia. E se lei è diventata dura, lui si è rammollito, come sintetizzerà la stessa Eleanor. 
Eleanor Rigby, opera prima di Ned Benson che firma anche la sceneggiatura, racconta una crisi di coppia che coincide con una crisi esistenziale. Eleanor si iscrive ad un corso universitario il cui tema è l'identità e torna a casa dai suoi per cercare il bandolo della propria matassa. Anche Conor deve confrontarsi con il padre, ristoratore di successo al contrario del figlio, il cui localino è prossimo alla chiusura. Saranno proprio gli incontri all'interno di questo piccolo cerchio protettivo, che comprende anche il cuoco di Conor e l'insegnante di Eleanor, a far intravvedere ai due un orizzonte possibile.
Purtroppo quello che dovrebbe essere un indie film appare fin dal cast stellare un prodotto cinematografico fortemente commerciale e la narrazione risente di una mancanza tangibile di genuinità. I dialoghi sono artefatti e non offrono margini di spontaneità, le frasi solo apparentemente profonde si sprecano, e soprattutto il dolore autentico che dovrebbe sottendere tutta la storia non riesce a fare breccia attraverso una confezione tanto artificiosa. Basta fare un confronto mentale con Blue Valentine, per citare un esempio recente, per accorgersi della profonda differenza nella capacità di raccontare la sofferenza all'interno di una coppia in modo credibile e sincero, e di lasciare agli attori lo spazio per improvvisare aggiungendo veridicità alla storia.
Inoltre il personaggio di Eleanor, che dovrebbe sostenere l'intero impianto narrativo, risulta narcisista e indisponente, interamente concentrato su se stesso e più lamentoso che dolente. Per contro il personaggio di Conor è poco sviluppato, come se l'egocentrismo di Eleanor avesse fagocitato anche il tempo di scena del suo partner cinematografico. "Mi sembra di vivere un tremendo clichè sul disastro", dice Eleanor, e pare un'involontaria illuminazione del regista, che però sceglie di ignorare la sua intuizione e prosegue imperterrito a costruire un prodotto cinematografico solo apparentemente indipendente e invece assai allineato alle esigenze del marketing hollywoodiano.

 
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The interview da internazionale.it

Post n°13160 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Cos’è. The interview è il film di Seth Rogen e Evan Goldberg al centro della cronaca negli ultimi giorni. A giugno il governo nordcoreano ha minacciato ripercussioni gravi nel caso in cui il film fosse stato distribuito. Successivamente la Sony ha subìto attacchi e furti di dati per via informatica che la Cia ha assicurato essere riconducibili a Pyongyang, e qualche settimana fa sono arrivate le minacce di attentati terroristici ai cinema che avessero proiettato il film. La giapponese Sony che produce, e la sua controllata Columbia che distribuisce, hanno deciso di ritirare il film. A questo punto è intervenuta la Casa Bianca, che si è detta scontenta della decisione. Siamo arrivati al ribaltamento di Natale, per cui il film è distribuito su tutte le piattaforme possibili, e vive in questi giorni un nuovo posizionamento patriottico che gli assicurerà molto probabilmente un certo successo.

The interview è una commedia a sfondo politico che racconta di un presentatore televisivo e del suo produttore, James Franco e Seth Rogen, che decidono di far fare un salto di qualità giornalistica al loro programma di intrattenimento e gossip sul mondo dello spettacolo. Scoprono che Kim Jong-un è un fan del loro show, e riescono a organizzare trasferta e intervista. La Cia, rappresentata dalla sempre più bella Lizzy Caplan, chiede loro di approfittare dell’occasione per avvelenarlo. I due vanno in Corea del Nord, realizzano l’intervista, debellano il dittatore.
Com’è. Il film è una commedia bromantica (commendia romantica che ha per protagonisti degli amici tardoadolescenti senza sbocchi sentimentali) con il tono e l’andamento dell’altro film diretto da Rogen, l’apocalittico deficiente e a tratti decisamente buffo This is the end. Rogen e Franco parlano per tutto il tempo come amici in gita senza genitori e senza femmine, e il film è costantemente sopra le righe, tra la parodia della retorica militare hollywoodiana, quella della rappresentazione giornalistica dei paesi nemici, e una più generica iperbole continua dei momenti tipici del racconto cinematografico pop. Tutto quello che succede è concepito come una gag più o meno sottile del momento tipico: l’intervista televisiva della star, l’arrivo della Cia, l’addestramento militare, il viaggio, l’incontro con gli asiatici eccetera. Ma la trama non presenta veri snodi profondamente divertenti: è più un’ambientazione per delle gag dove Rogen è un intelligente ambizioso goffo, e Franco è un imbecille sincero e inconsapevole. I due, in sintesi, sono dei teneroni sboccati e simpatici. Molti degli spunti comici sono legati alla scorrettezza politica delle frasi dette da Franco davanti al suo amico e agli sconosciuti.

Perché vederlo. Ne parlano tutti, ed è interessante capire di cosa si stiano occupando da mesi i manager della Sony e della Columbia, i militari nordcoreani, l’ambasciatore di Pyongyang alle Nazioni Unite Ja Song-nam, il leader Kim Jong-un, gli hacker al soldo della dittatura, i giornalisti del cinema, della tv, della politica internazionale, la Casa Bianca, la Cia e Barack Obama. Poi c’è Lizzy Caplan di cui è bello innamorarsi ogni volta che si può. Il film non è comunque molesto.
Perché non vederlo. Esiste un film che racconta con gli stessi intenti una storia simile. Si chiama Team America: World Police, ed è una parodia post-11 settembre dello spirito che si respirava dieci anni fa negli Stati Uniti. Scritto da Trey Parker e Matt Stone, gli autori di South Park, ha per protagoniste delle marionette animate nello stile di Thunderbirds, la serie britannica anni sessanta dei grandissimi coniugi Anderson. Lo spirito di quel film era sinceramente dirompente in tutto, soprattutto nel suo sfottere le anime belle di Hollywood, il governo americano, l’opinione pubblica, i mezzi d’informazione: non si salvava nessuno, men che meno Kim Jong-il (il padre di Kim Jong-un). The interview è un film che racconta questa storia, ma senza lo spirito sinceramente punk e iconoclasta del modello (che tale è, senza dubbio), e con battute decisamente peggiori. Inoltre James Franco è troppo belloccio e impeccabile per fare veramente ridere, anche se forse questa è una notazione personale.

Uno dei fulcri comici del film, su cui ruotano molte battute, è il culo, compresi peti e feci, ma con una particolare predilezione per la parte in sé, il butthole, che indicheremo con l’acronimo bdc. Nella prima scena del film, Eminem intervistato da Franco dichiara di essere gay, e subito gli vengono riletti dei suoi testi che parlano di bdc. Successivamente si gioca con il motto “They hate us because they ain’t us”, ci odiano perché non sono noi, trasformandolo in “They hate us because they anus”, ci odiano perché bdc. All’addetta stampa nordcoreana viene subito chiesto se è vero che il sovrano non ha il bdc come dice l’agiografia popolare, e lei conferma. La cosa viene poi chiesta direttamente a Kim Jong-un, e lui ridendo dice che sì, certo che ha un bdc, “e ha un sacco di lavoro”. Rogen si infila una grossa capsula mandata via missile dalla Cia nel bdc per non essere scoperto, e se ne parla per cinque minuti. Il tecnico della messa in onda con cui combatte Rogen finisce con un joystick di controllo di una telecamera nel bdc, e con lo stesso cambia le inquadrature. Infine Kim Jong-un spara dichiaratamente nel bdc a un militare.

Questi film di ragazzoni un po’ idioti che fanno pazzie e vivono come eterni adolescenti sono fatti di scemenza, ed è giusto che ballino sul crinale del cattivo gusto, scollinando volentieri quando è necessario. Ma qui si ride poco in assoluto, e molto poco per un film con una trama del genere. Si ride, va detto, decisamente pochissimo per tutto il furore che si è scatenato, e indubbiamente per le figure coinvolte, ma a volte la società degli uomini fa cose assurde, ed è un po’ il suo bello.

Una battuta. Ladies and gentlemen, Kim Jong un has just pooed in his pants!

 
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Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II

Post n°13159 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II

La resistenza si sta facendo sotto. I distretti ribelli sono ormai tutti riuniti sotto un'unica bandiera, quella dei ribelli, e sta per iniziare la marcia verso Panem, prenderla equivale a destituire il regime. Katniss è l'arma numero uno della resistenza, non per le sue doti di stratega o per la sua abilità sul campo, ma per la sua immagine. Prima sfruttata come volto simbolo dell'intrattenimento e della distrazione di massa, ora è invece diventata il corpo della ribellione, l'unica a cui la massa dia ascolto, l'unica a cui tutti credano anche se la sua immagine è stata continuamente manipolata. Per questo motivo decide di abbandonare i ribelli (che non sono meglio del regime) e di cercare di trovare la sua vendetta e uccidere il presidente Snow da sola. Ora tutti la vogliono morta però: la vuole morta Peeta, che ha subito il lavaggio del cervello; la vuole morta il presidente Snow; la vuole morta la resistenza, perché diventerebbe un martire e unirebbe ancora di più le truppe.
Dopo quattro film si chiude la saga di Hunger Games e la chiusa è, una volta tanto, una conclusione impeccabile e rispettosa delle domande e dei problemi che tutta la saga ha sollevato rispetto alla realtà che vivono i suoi spettatori (in linea di massima compresi tra i 13 e i 30 anni). La storia di Katniss Everdeen rispecchia il miglior romanzo di formazione possibile per le ragazze contemporanee, un romanzo che le mette in guardia e le prepara al vero terreno di negoziazione dell'età contemporanea, quello dell'immagine.
Che tutta la saga sia un ribaltamento dell'action movie di fantascienza classico è evidente fin dall'inizio, dalla maniera in cui la protagonista non combatte sul terreno degli uomini ma anzi sposta il conflitto su dinamiche, idee e strumenti propri dell'universo delle ragazze. Il suo miglior aiutante è uno stilista; sono i suoi abiti a determinarne il successo; è la treccia che porta sempre il dettaglio che prima di tutti si diffonde tra il pubblico e la fa individuare come un nemico del potere. Infine qui sono i vestiti a salvarla anche fisicamente. Katniss combatte prima di tutto con la propria immagine e poi con le frecce, perché, dice Hunger Games, il corpo della donna è l'arma più potente e pericolosa, l'oggetto desiderato da tutti, a cui tutti vogliono dare un significato proprio. Katniss lotta per salvare il suo amore (Peeta, di fatto sempre in pericolo, sempre bisognoso di essere protetto o salvato da qualcosa) e per essere autonoma; che quest'autonomia passi per un percorso di liberazione dai "partiti", dalle "fazioni" e da qualsiasi aggregato ideologico è solo un segno dei tempi. In Il canto della rivolta - Parte II la resistenza non si rivela migliore del regime e non c'è alcun valore per il quale si batta la protagonista, se non per difendere il diritto di non essere usata.
Diretto con molta più concretezza rispetto ai precedenti due capitoli, quest'ultimo film rifiuta qualsiasi idea di eroe predestinato o di gloria: non ci sarà nessun finale epico per Katniss, anche questo in controtendenza con qualsiasi narrazione adolescenziale. Nella grande chiusa la protagonista si dimostrerà più nichilista che mai. 
È qui decisamente evidente come dietro questa saga ci sia molto più di quel che siamo abituati ad aspettarci dal cinema hollywoodiano di immenso incasso, dalle grandi saghe e dai film di intrattenimento. Nonostante le più consuete trovate finalizzate ad un'azione molto semplice e basilare (un filo di simil-morti viventi, un po' di scene grandiose ed esplosioni clamorose non si negano a nessuno con quei budget), in Il canto della rivolta - Parte II finalmente tornano a battere una testardaggine ed un'ostinazione arrogante nel portare avanti le proprie idee che non vedevamo dal primo film. La forza con cui si batte contro tutte le persone che vogliono impadronirsi della potenza dell'immagine del suo corpo è esemplare di un universo in cui l'immagine fissata (foto come video) diventa centrale nella costruzione dell'identità individuale. E in Hunger Games qualsiasi ripresa mente: non c'è video di repertorio o immagine filmata che i protagonisti guardano che non dica il contrario di quel che è accaduto realmente.
A contribuire a rendere questa saga un perfetto manuale di umanità di questi anni ovviamente è Jennifer Lawrence, molto più determinante di attori decisamente più navigati (Julianne Moore, Woody Harrelson o Philip Seymour-Hoffman). Il suo è un personaggio spinoso perché costantemente antipatico, brusco, scontroso e depresso, non ha gioia nè vuole piacere (ma piace, piace a tutti nel film e fuori dal film), eppure la Lawrence ha un'intima onestà sentimentale che colpisce. Quest'attrice in grado di mettere in mostra capacità impressionanti anche su testi molto semplici come quelli di Hunger Games rende complessa qualsiasi cosa. Si guardi solo la prima scena, in cui le viene controllata la gola dopo che la persona a cui più tiene ha tentato di strangolarla: senza parlare, con un'espressione sola e unicamente ritraendosi riesce a trasmettere una concreta impressione di paura indotta da un trauma in maniera personale, come se fosse la prima a farlo nella storia del cinema. Questo genere di complessità, spalmata per tutti i 4 film, fa sì che la saga possa compiere il salto definitivo e riesca a rendere umane e concrete tutte le sue idee.

 
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Post n°13158 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 


Carlo è un industriale ipocondriaco che ha l'esclusiva dei servizi fotografici scattati al pontefice. Quando viene convocato a Roma dal Vaticano si mette in viaggio sfidando la paura dei contagi. Saturno è un tecnico specializzato nell'installare parabole e terrorizzato dalle donne dell'ariete: peccato che la sua ragazza ideale appartenga proprio a quel segno zodiacale. Giuliano è un avvocato pronto a difendere i peggiori "zozzoni". Ma una caduta gli farà perdere la memoria e l'istinto prevaricatore. Augusto è un maresciallo dei carabinieri gelosissimo della figlia 17enne la cui missione è allontanare dalla ragazza tutti i possibili fidanzati. Piero e Andrea, infine, sono amici foggiani che sbarcano il lunario l'uno sfornando oroscopi di fantasia, l'altro fingendosi vittima di incidenti stradali per ottenere i denari delle assicurazioni. Quando nella vita di Andrea entra la bella Monica gli imbrogli dei due amici si moltiplicano. 
I fratelli Vanzina alla sceneggiatura e Neri Parenti alla regia uniscono le forze per confezionare un cinepanettone antico e asfittico. Esiste una grande differenza fra l'umorismo politically incorrect e le battute e gag più becere su donne, gay, trans, neri e cinesi: sarebbe ora che certa commedia italiana lo capisse, entrando finalmente nel Ventunesimo secolo. Anche perché di un certo umorismo greve oggi non ride (quasi) più nessuno. 
Spiace soprattutto vedere sprecato il talento di interpreti dagli ottimi tempi comici come Gigi Proietti, ma anche i più giovani Angelo Pintus e Amedeo Grieco, per non parlare di Ricky Memphis, che interpreta un maschilista della peggior specie con evidente disagio. Spiace anche constatare che autori di talento come i Vanzina e un regista di mestiere come Parenti sinergizzino al ribasso, creando un prodotto molto al di sotto delle loro capacità, e della possibile evoluzione del pubblico.

 
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