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Messaggi del 23/06/2018

Quello che sembra essere un genocidio

Post n°2682 pubblicato il 23 Giugno 2018 da namy0000
 

Aprile 1994. “Il Ruanda precipita nell’anarchia”. “In Ruanda si sta svolgendo quello che sembra essere un genocidio fra hutu e tutsi: connazionali”. “Bisogna evitare di intervenire nelle guerre civili degli altri”. In quei 100 giorni furono uccise 800.000 persone. Rimaneva meno di metà dei 6.000.000 e mezzo di abitanti. Una carneficina fra le mille colline del Ruanda. Altri due milioni e mezzo erano scappati oltre confine: il più grande esodo che la storia ricordi, avvenuto in non più di 15 giorni. In 100 giorni il Paese era stato cancellato. Non solo la gente, ma anche i beni, le automobili, qualunque cosa di qualche valore, il bestiame, le stesse casse dello Stato erano state depredate. I nuovi arrivati, vincitori della guerra civile che avevano anche posto fine al genocidio, ossia il Fronte patriottico ruandese (a maggioranza tutsi) doveva di fatto ricostruirlo dalle ceneri.

‹‹Una sconfitta non solo dell’Onu ma dell’intera umanità››. All’inizio le Nazioni Unite erano sul posto, ma rinunciarono a intervenire, e andarono via durante il massacro, lasciando nel paese solo poche centinaia di caschi blu.

Vent’anni dopo quel massacro: Jean Pierre Karenzi, un carnefice, “La mia coscienza non era a posto. Quando vedevo Viviane mi vergognavo. Dopo aver seguito un gruppo che lavora per l’unità e la riconciliazione, sono andato a casa sua per chiederle perdono e le ho stretto la mano”; Viviane Nyiramana, una vittima: “Ha ucciso mio padre e i miei fratelli. L’ha fatto insieme ad altre persone, ma solo lui è venuto a scusarsi. Insieme a un altro gruppo di ex carcerati, mi ha aiutato a costruire una casa. Avevo paura di lui, ma ora ho le idee più chiare”.

Ebbene, oggi, 2018, 24 anni dopo, quella stessa strada che scende verso la capitale attraverso le colline e il verde smeraldo dei campi di tè mostra lo skyline dei palazzi di Kigali, e all’ingresso in città le aiuole di fiori e di piante tropicali elegantemente dislocate ad ogni piazza e slargo. In qualunque punto dell’orami grande città (almeno un milione e mezzo di abitanti) c’è la copertura Wi-Fi e il Paese – seppur piccolo, ha le dimensioni della nostra Lombardia,  ha il record mondiale di fibra ottica in rapporto agli abitanti, che sono quasi raddoppiati: superano oggi i 12 milioni. Più della metà di loro sono nati dopo il 1994. Non hanno mai conosciuto l’orrore del genocidio, se non nel racconto dei sopravvissuti.

Resta indelebile la ferita del genocidio che questo Stato non ha voluto dimenticare: ovunque ci sono i “memoriali”, le chiese, le scuole, gli edifici che diventarono luoghi di sterminio e di atrocità inimmaginabili.

Un genocidio non avviene per caso, o per un improvviso scoppio di barbarica violenza. Viene studiato, preparato, pianificato. Anche in Ruanda avvenne così. E su questo dobbiamo sempre vigilare.

 
 
 

Il camice azzurro

Post n°2681 pubblicato il 23 Giugno 2018 da namy0000
 

Il camice azzurro sopra l’abito formale e l’ormai immancabile coroncina d’alloro. Poche volte una foto di laurea ha sintetizzato così una vita intera: Angela DM, 49 anni all’anagrafe, venti in fabbrica, finiti con la mobilità volontaria per crisi aziendale. Gli studi, iniziati a 35 anni, per sete di conoscenza: ‹‹Aspettavo il primo figlio ed ero a casa perché il mio lavoro non era compatibile con la gravidanza. Ho deciso di cogliere la pausa forzata per riprendere gli studi interrotti prima del diploma. Alla laurea non pensavo, ma poi è stato naturale proseguire. Alla filosofia mi ha portata la curiosità: nello studio cercavo strumenti per leggere la realtà attorno a me››.

Nel frattempo, i figli erano diventati due e il lavoro era ripreso, eppure Angela non parla mai di fatica: ‹‹Mi dedicavo ai bambini, oggi di nove e sei anni, fino all’ora della nanna perché non sarebbe stato giusto togliere tempo a loro, poi dalle 21 all’una di notte stavo sui libri: può sembrare strano, ma per me era un piacere, un mondo che si apriva. Tuttora ho dei libri un rispetto “sacro”, detesto rovinarli››.

All’Università Ca’ Foscari a Venezia è andata poco, perché conciliare tutto, per di più abitando a Pordenone, non si poteva: ‹‹Mi sarebbe piaciuto viverla di più, mi è mancato un po’ il confronto diretto con gli insegnanti. Ho potuto frequentare solo mentre aspettavo la seconda bimba. È stato un bel periodo: mi sono sentita in dovere di incoraggiare i miei compagni di corso ragazzi a non farsi travolgere dall’ansia, a non perdere il piacere dello studio, sapendo bene che a vent’anni devi rendere conto a chi ti mantiene, ed è giusto darsi da fare, ma la passione deve restare››.

Del resto è la molla che, a ogni età, esorta alla filosofia: ‹‹Anche i ragazzi sanno che certe cose si studiano per amore, perché non aprono grandi sbocchi: negli anni ho visto tanti giovani approdare alla catena di montaggio dopo gli studi umanistici››.

Tra i colleghi di fabbrica pochi hanno chiesto ad Angela: “Ma chi te lo fa fare?”: ‹‹C’era stima. E comunque tenevo così tanto allo studio che non mi sarei lasciata smontare dai pochi che non capivano: lo facevo per me, volevo arrivare in fondo››.

Tanto che alla fine l’emozione l’ha quasi tradita sul traguardo: ‹‹Ho sempre studiato senza ansia, ma il giorno della seduta di laurea mi ha preso l’angoscia che credo catturi chi scala gli ultimi metri di una montagna. Mi mancava il respiro: durante la discussione parlavo e mi scendevano le lacrime. Credo che fosse la presa di coscienza di chi capisce di non essersi arreso alla strada segnata››.

E adesso? ‹‹Se potessi sognare direi che mi piacerebbe insegnare quello che ho appreso tenendo insieme le mie due vite, realisticamente mi basterebbe un lavoro stabile›› (FC n 24 del 17 giugno 2018).

 
 
 

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