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Messaggi del 07/06/2018

Esco dal cinema

Post n°2664 pubblicato il 07 Giugno 2018 da namy0000
 

Esco dal cinema dopo aver visto Dogman di Matteo Garrone, uno dei rari capolavori dell’attuale cinema italiano e riprendo fiato. Sono scosso... Questo film è un colpo duro allo stomaco e appena ci si riprende dalla dolorosa esistenza di Marcello (alias, lo straordinario ed umano troppo umano Marcello Fonte) un cattivo pensiero mi perseguita.

Quello di un’Italia per niente liberata dal Male. Garrone non è un esploratore alla Verne, ma uno dei pochi registi (un intellettuale libero) nostrano, capace di andare e toccare con mano le ferite vive e laceranti del povero Marcello. Un ultimo, ma in tragica compagnia di tanti ultimi come lui, gli invisibili, i Superflui di Dante Arfelli, in un un Paese di brutti, sporchi e cattivi (con pochi buoni come Marcello) che è ancora in guerra.

La guerra di Marcello, uno del popolo dei baraccati, come i miserabili del Mandrione. I poveracci romani, gli sfollati dopo il bombardamento di San Lorenzo del ’43 che trovarono riparo sotto gli archi di Porta Maggiore. Esistenze da cantina (quella che ha fatto a Roma, fino a ieri, lo stesso Marcello Fonte), mangiando sullo stesso piatto di un cane e cercando di crescere una figlia a distanza da quel fango che schizza ancora fuori dalle pagine di Pasolini. Il Poeta di Casarsa passando in macchina al Mandrione anni dopo scrisse di «tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni.

Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano». Viene da piangere a rileggere queste poche righe che parlano di una miseria perenne, con cui poi si cresce affamati di riscatto, di potere e denaro, che nella testa matta, impolverata di ignoranza e cocaina, come quella del pugile Simone (l’amico e aguzzino di Marcello) si tramuta in cieca follia violenta.

I ragazzi di vita, i violenti di Garrone, le periferie anonime e i postmoderni non-luoghi (il Villaggio Coppola, nel casertano, in cui ambientato il film) sono gli stessi che in fondo ci aveva già raccontato Pasolini. E per raccontarle da vicino e toccare anche lui le ferite aperte di un’Italia annegata nella sete di odio e petrolio c’è morto, assassinato. Si ritorna sempre davanti a un mare di silenzio, di omertà omicida per riscrivere continuamente gomorre o romanzi criminali che partoriscono figli e nipoti di una Magliana perpetua. Violenti, allucinati come Simone e deboli abbandonati come Marcello hanno lo stesso volto a Scampia a Quarto Oggiaro o nella favela di Rocinha a Rio de Janeiro. Ci sono uomini che è come se portassero da sempre dentro di sé tutto l’odio e tutto il vittimismo dell’umanità intera. Esiste ancora, e spesso nelle nostre vite distratte di schiavi consapevoli di un’esistenza social non ce ne rendiamo conto, un’umanità disumana, in cui vittime e carnefici alla fine si confondono. Come nella storia del Canaro a cui si ispira Garrone, anche se quella magari è una vicenda ancora tutta da rileggere. Per alcuni invece, tipo la spettatrice seduta affianco che abbandona la sala prima della fine del film, sarà difficile rivedere questa storia, forse perché non abbiamo più il coraggio di guardare l’orrore quando è 'reale', come in Dogman.

d è il dolore fortissimo (oltre all’ammirazione estetica per la pellicola) che ci portiamo via ai titoli di coda. L’unica speranza, sta tutta nell’invocazione umana – troppo umana – di Marcello, quel continuo chiamare «amore», alla figlia, agli amici, ai cani... Tornando a casa ho immaginato Pasolini seduto al bar con il Marcello di Garrone che lo consola, sussurrandogli: «Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto».

 
 
 

Un piccolo borgo

Post n°2663 pubblicato il 07 Giugno 2018 da namy0000
 

“Rondine, un piccolo borgo appeso alla riva dell’Arno, frazione del comune di Arezzo, manciata di case di pietra, fortificazioni medievali sgretolate dal tempo. Una volta era castello. Ha 1.000 anni di storia. Rondine ha stravolto sé stessa, e le pietre smontate dal tempo sono state ricomposte da un pugno di donne e di uomini... È accaduto per la cocciutaggine di un professore di psicologia, Franco Vaccari, fiorentino della scuola di Giorgio La Pira... Ora Rondine è una cittadella della pace, candidata al Nobel, visitata da presidenti e da ministri, ambasciatori e funzionari internazionali, dove si prende l’aperitivo con il nemico e si smonta il rancore. Dice Franco Vaccari: ‹‹Il mio sogno è quello di costruire una scatola di smontaggio dei conflitti, con le istruzioni in almeno 40 lingue››. Osserva il cardinale Gualtiero Bassetti: ‹‹Rondine è un piccolo laboratorio di umanità, dove si stanno formando i segni di quel nuovo umanesimo che tanti desiderano››. È cominciato tutto per caso, dopo anni di lavoro volontario per rimettere a posto le pietre, con 5.000 lire per 2 pale e con piccolissimi prestiti dalle banche che venivano saldati mettendo mano al proprio portafoglio. Ricorda Vaccari: ‹‹Erano gli anni dell’entusiasmo per il Concilio, delle raccolte carta per il Terzo mondo. C’erano gli euromissili e l’Urss, il metodo di La Pira e la paura della bomba. Ma c’era soprattutto la mia nonna che raccontava del metodo del rammendo››. Alla fine degli anni Ottanta (del secolo scorso), le pietre di Rondine, a fatica tra pochi soldi e tanto rivoltar di badile, tornavano a posto sulla riva dell’Arno... Nascono relazioni che quasi 10 anni dopo si riveleranno preziose. Scoppia la guerra in Cecenia e la tragedia del Caucaso mai risolta torna alla ribalta. I russi sollecitano Rondine ad adoperarsi per una tregua, i ceceni conosciuti a Mosca anche. C’è una trattativa segreta che porta a una tregua da niente, 72 ore. Ma è la prova che con il nemico si può prendere l’aperitivo. E Rondine trasforma le pietre in un abbraccio. Arrivano i primi studenti, 5 studenti e 5 russi, e si avvia l’esperienza dello studentato internazionale dove si dimostra che con il proprio nemico si può convivere, perché, sottolinea Vaccari, ‹‹il nemico non è uno, sono due, relazione malata, il nemico è la paura che portiamo nel cuore››. Dopo i ceceni arrivano i georgiani e gli abkazi filorussi, che a casa loro si fanno la guerra, gli inguscezi e tutto il resto del livore caucasico. La prima regola è che a Rondine devono sventolare tutte le bandiere, si parla italiano, lingua franca e mite, si mangia e si studia insieme e si festeggiano le feste di tutte le religioni. Funziona. I metodo del rammendo si applica a serbi e bosniaci, israeliani e palestinesi, libanesi astiosi, africani ostili. Mancano gli italiani. Ed ecco l’ultima impresa, che si allarga all’integrazione Nord-Sud, alla legalità, all’ambiente all’ecologia, con un anno di liceo, il quarto, frequentato a Rondine da studenti italiani, che accedono con un bando e borse di studio, dove accanto alle materie tradizionali si impara tutto quello che serve alla pace... I giovani che sono passati di qui hanno spiegato come si può rendere reale un’utopia. Il segretario generale dell’Ocse, Daniele Panchieri, ha riconosciuto che nel borgo si sta creando ‹‹la capitale universale di una cultura nuova››, quella che i diplomatici chiamano “diplomazia di secondo livello”, quella dei facilitatori, giovani che allontanano lo spauracchio del nemico. Sorride Franco Vaccari: ‹‹A Rondine si cambia il mondo, cercando di trasformare una persona per volta››. La nonna in cielo sarà contenta: il metodo del rammendo riassesta la storia” (FC n. 26 del 26 giugno 2016). 

 
 
 

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