Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

arte, racconti, idee

 

 

FRAGILE: LE MANI DI MIO PADRE -

Post n°99 pubblicato il 20 Settembre 2012 da alex.canu

 


     Lo dico senza vergogna, senza nessun pudore: ho odiato mio padre. L'ho odiato come si può odiare un tumore che ti annienta e non ti lascia vivere, come un morbo maligno che ti succhia la vita, come una cancrena ad una gamba che ti devono tagliare perchè non ti uccida, e dopo che te la sei amputata, ti lascia zoppo a barcollare senza equilibrio. L'ho odiato come si odia una galera che ti leva il respiro e ti soffoca con la sua aria chiusa e malata. L'avrei voluto veder morire, aggredito da un male terribile e incurabile, avrei voluto spingerlo giù in fondo ad un baratro, l'avrei strozzato con le mie mani di bambino. Sognavo di schiacciarlo, tagliarlo a pezzi, squarciargli il petto e mangiargli il cuore, rompergli le ossa con una mazza di ferro, chiudergli la bocca e il naso con le mie mani, vederlo soffocare senza più aria nei polmoni. Desideravo osservarlo mentre lentamente se ne moriva, crocifiggerlo con chiodi e spine e appenderlo a sinistra di cristo. Ma quando è morto per davvero, dopo il primo momento di euforico disorientamento, ho sentito subito un gran vuoto che mi assaliva e un odore di aria fetida che non mi avrebbe abbandonato mai più. La sua morte improvvisa mi ammutolì, quella presenza ingombrante, ossessiva, quell'ostacolo che avevo ritenuto eterno e insormontabile non esisteva più e adesso, cosa avrei fatto? Mi resi conto fin da subito che la sua improvvisa assenza era peggio di qualsiasi altra cosa. Da vivo potevo tenere sotto controllo il mostro che mi portavo dentro, si rifletteva in lui e aveva un volto riconoscibile e domestico, persino rassicurante e familiare. Adesso me lo ritrovo negli angoli letali del ricordo, negli anfratti bui della sua assenza dalla mia quotidianità. Mi salta addosso improvvisamente nei momenti di solitudine e di abbandono. Piango e lo chiamo per nome, implorandolo di ritornare, di concedermi ancora un bis della sua onnivora cattiveria. Sarei perfino disponibile a lasciarmi prendere ancora a calci e pugni come faceva nei suoi momenti di rabbia cieca e improvvisa, supplicandolo di non lasciarmi da solo a fare i conti col mio odio saturo e inutile.

   Due giorni dopo natale le sue giá gravi condizioni, causate da una emiparesi che gli aveva paralizzato tutta la parte sinistra del corpo, peggiorarono improvvisamente e fummo costretti a  portarlo all'ospedale dove gli prestarono il primo soccorso, ma si capì fin da subito che stavolta era più grave del previsto. Decidemmo chi di noi sarebbe dovuto rimanere con lui la prima notte e, senza pensarci su, mi offersi io convinto che liberandomi del primo turno mi sarei anche liberato del fastidio di dovergli stare accanto. Non avevo fatto i conti con gli effetti della sofferenza, ma ero giovane e le cose mi apparivano allora sempre chiare, nette nel loro essere di due soli colori, il nero che era il fondo perenne della mia rabbia e del risentimento che covavo e il bianco, metafora lucida del vuoto e dello smarrimento totale nel quale costantemente conducevo la mia esistenza. Appena arrivato in ospedale mi assegnarono una sedia, un infermiere mi sorrise per comunicarmi il senso di impotenza della medicina e mi disse che lo avrei potuto chiamare a qualsiasi ora della notte, starò sempre qui vicino nei paraggi, non mi disturberá affatto, mi disse e se ne andò. Non appena mi misi seduto sulla sedia di metallo verniciata a smalto mi accorsi che mio padre soffriva realmente, era agitato da chissà quali visioni e fantasmi e nella bocca contratta dalla paresi vi leggevo il terrore della morte ormai prossima. Quando sarò morto gettatemi nell'immondezzaio, amava ripetere con un particolare tono della voce e con un sorriso coraggioso e sprezzante, che tradiva lo sconcerto per l'inutilità di ogni esistenza umana. Era arrivato alla conclusione filosofica che la vita degli uomini non vale più di quella degli animali e forse per questo si confermò nella teoria che bastonare i propri figli era cosa che non avrebbe lasciato traccia nella vita futura dell'aldilà; se un aldilà non esiste, non esiste punizione. Era laicamente convinto di ciò. I bambini andavano educati come le bestie innocenti con le quali aveva perennemente a che fare. Quelle piccole bestiole non oppongono resistenza, non si sanno difendere, non comprendono la brutalitá e sopratutto stanno zitti.

Durante la notte le sue condizioni peggiorarono, chiedeva balbettando qualcosa che io non ero in grado di comprendere, la sua mezza bocca chiusa impediva alle parole di zampillare fuori chiare e intelligibili e si affaticava a cercare di farsi capire. Non era di acqua che aveva bisogno, ne di aria, che di quella ne aveva consumata abbastanza, cercava la mia mano, la cercava a tastoni nelle pieghe che la coperta invernale dell'ospedale formava nel suo letto devastato dal dolore. La vedevo nella penombra della luce della notte, quel moncone incerto cercava me, ma io non soccorsi la sua angoscia e lasciai che la sua mano vagasse sulla coperta come giuda nel deserto. Mi ricordavo, osservandola, di tutte le volte che si era levata per punirci di colpe che non comprendevamo, per chiudere la porta e lasciare fuori mia madre, per lanciarci un oggetto, per minacciarci, per ferirci. Quella era stata la mano che si alzò su di me, piccolo, perchè non sapevo reggergli il sacco quando lui ci buttava dentro le olive che avevamo raccolto inginocchiati per terra. Si alzò brutale quando bisbigliai qualcosa all'orecchio di mia madre perchè lui non potesse sentire l'innocente richiesta che le rivolgevo, si alzò contro me e mio fratello quando ci sorprese a giocare con le carte pur avendocelo proibito. Quella stessa mano che adesso grattava disperata la coperta dell'ospedale si levò dura e spietata quando mi punì per essermi arrampicato su una vetrina per nascondermi, mentre con altri bambini giocavo a guardie e ladri, si levò per lasciarmi steso sul pavimento quando mi chiuse dentro casa e non gli ubbidii, si levò per frustarci quando lo disturbammo durante il riposo del pomeriggio. La mano arida che ora brancolava tremante, nel buio appena rischiarato dalla luce oscena dell'ospedale delle tre di notte si volse contro di me, quando il mio tono di voce nel rispondergli non corrispondeva alle sue aspettative, si volse ancora quando sceglievo a tavola la frutta migliore, si volse ancora di più quando non ubbidivo prontamente ai suoi ordini, quando mi scaglió addosso un tegame con l'olio bollente, si volse per queste e per mille altre ragioni. Quella mano si alzò nuda, armata di bastone, di nerbo di bue, di verga d'ulivo, di cinghia dei pantaloni usata dalla parte della fibbia di metallo; si levò chiusa a pugno contro di me, contro i miei fratelli e sorelle, contro mia madre, perfino contro le sue stesse bestie che lo servivano al lavoro, armata di coltello contro gli agnelli con i quali giocavamo, per sgozzarli a pasqua. Mani che sollevarono una grossa pietra per scagliarla in testa alla sua asina, rea di avergli disubbidito. Eppure quella era la stessa mano che tagliava il pane e il formaggio a tavola, la medesima mano che potava con amorevole tenerezza la vite e gli alberi di ulivo, che versava il vino rosso agli amici. Quella stessa che scriveva delle poesie su un vecchio quaderno con la copertina verde, che scherzava sui capelli dei primi nipotini o dei bambini altrui che incontrava per la strada. La mano medesima che mi toccava la fronte quando scottavo di febbre e la sentivo fresca e rassicurante. La febbre stessa si allontanava allora vinta dal tocco taumaturgico delle sue dita di cuoio e acqua santa. 

Quando, ormai morto, lo vidi immobile, inoffensivo ed impotente, dentro la bara dove l'avevano composto, fu praticamente l'unica parte del suo corpo che catturò ancora la mia attenzione, non il viso duro di cera fredda, non la benda che gli avevano legato per impedire alla mascella di cadere, non il completo grigio antiquato, due taglie piú grandi, col quale lo avevano sommariamente rivestito e la camicia bianca, senza cravatta, abbottonata fino all'ultima asola. Rividi le sue mani, incrociate appena sopra la cinta dei pantaloni, stringere un innocuo rosario di plastica fosforescente che avrebbe continuato a brillare ancora per chissà quanto tempo dopo la chiusura della bara, come l'estremo lume per accompagnarlo nelle terre desolate di caronte, l'ultimo tocco di glamour cristiano. Le vidi quelle mani, ancora abbronzate da settant'anni di campagna e non riuscivo più a staccarne lo sguardo, mi aspettavo che si muovessero rapide da un momento all'altro, sorprendendo la morte stessa che se lo stava trascinando via con grande fatica. Possibile che era tutto finito così, senza alcuna possibilità di vendetta, da un momento all'altro, lasciandomi orfano della rabbia e del risentimento? Se la sarebbe cavata ancora a buon mercato, con una uscita di scena in tono minore, con una morte dimessa, quasi in sordina, da ultimo della classe? Sparì in un lampo dalla nostra casa, dalla nostra vita deflagrata. Se ne andò ad abitare al cimitero con gli altri morti come lui, perdonato dal corteo funebre del prete suo amico di bevute. Salvato in extremis dal corteo funebre delle donne che piangono a comando, prefiche a buon mercato, a un tanto a lacrima, con una messinscena di dolore standard, uguale e allo stesso modo, per tutti i morti paganti. Fintamente ignare di quello che tutti sapevano.

Adesso che è passato così tanto tempo e nessuno mi picchia più, oggi che nessuno osa alzare la mano su di me, talvolta mi osservo tagliare il pane a tavola. Compiere quelle azioni quotidiane piccole ed innocenti, come sbucciare una mela o preparare i libri e gli appunti per la lezione del giorno dopo. Succede che mi vedo puntare il dito contro il mio unico figlio, quando lo sgrido e ritrovo nel suo sguardo terrorizzato per i miei improvvisi scatti di rabbia, lo stesso terrore cieco che provavo io allora. Mi fermo in tempo con la mano sollevata in aria, stretta in un pugno, ancora incredulo per quello che stavo per fare. Sento il suo sangue scorrermi velenoso dentro le vene e pervadermi il corpo e intossicarmi l'anima. Ascolto stupito le parole dure che escono dalla mia bocca, quando rovescio bile impotente addosso a mia moglie. Adesso osservo le mie dita magre correre rapide sulla tastiera del computer, così simili alle sue. La stessa identica forma, la stessa durezza, lo stesso colore scuro della pelle, le stesse vene rialzate sul dorso, così identiche nella forma e nel disegno alle sue. Osservo tutto questo e ne ho paura. Paura. Perfino il suono della mia voce sta prendendo i toni cupi che erano suoi. Padre, penso in questi momenti, quando è stata l'ultima volta che ti ho seppellito? Non eri vissuto abbastanza, non eri definitivamente uscito di scena? Non era tuo quel cadavere ridicolo? o sono morto quel giorno anch'io insieme a te ?

 

 
 
 

FRAGILE: Storia di Monica S.

Post n°98 pubblicato il 29 Agosto 2012 da alex.canu

 

 

 

   Ho conosciuto una  bella signora una volta, si chiama Monica S. è tedesca suo malgrado. Ha un figlio che si chiama Atahualpa, come l’ultimo grande re Inca, morto drammaticamente, convertito al cristianesimo suo malgrado per non farsi bruciare vivo dalla pietà cristiana di don Vicente de Valverde, un monaco barbuto che gli ordinò di riconoscere l’autorità del re spagnolo. Atahualpa, troppo orgoglioso, rifiutò e allora don Vicente disse a Pizarro che non c’era niente da fare e lo strangolarono con alcuni giri di garrota. Per gli abitanti nativi dell’Ecuador il nome Atahualpa è sacro come i fiumi e come l’aria che respirano. Monica, stanca della sua tranquilla vita tedesca, inquieta come tutte le donne che scoprono troppo presto la loro imbarazzante bellezza, partì per l’Ecuador, per un viaggio alla scoperta di se stessa e li trovò quello che cercava, povertà, miseria, amore, contraddizioni che lasciavano inconcluse e vuote le mille discussioni sulla loro risoluzione. Trovò un uomo con i capelli neri, lunghi e lucenti, con lo sguardo e le spalle di un guerriero Inca e perse la sua bella testa bionda europea. Il suo guerriero la convinse che la modernità, le luci, l’acqua corrente, la televisione, erano il dono velenoso di quell’antico e crudele frate che aveva sconfitto Atahualpa in modo così vile. Le disse che il suo popolo sarebbe tornato a camminare sulla via della luce che gli europei avevano drammaticamente oscurato, ma non spento del tutto. Il giovane guerriero accompagnava le sue parole con sguardi e carezze e Monica aveva bisogno degli uni e delle altre. Se lo immaginò con un copricapo di piume colorate, nudo di bronzo, lo sentì parlare la sua lingua quechua, misteriosa e seducente e accettò di seguirlo in una misera baracca lontana dalla città, si accontentò di un letto basso con un materasso di foglie. Si adattò a portare l’acqua dalla fonte con un recipiente di alluminio, sopportò i mosquitos e gli escarabajos numerosi, diventò paziente col suo uomo, che allontanava con futili motivazioni il giorno della liberazione del suo popolo e un giorno, suo malgrado, gli diede un erede, un giovane principe, scuro di pelle, con i capelli nerissimi, lontano anni luce dalla sua carnagione pallida, che chiamarono Atahualpa. Proprio così, come il famoso ultimo re Inca. Monica dovette partorire nella sua povera baracca, così era delle fiere donne di quell’antico paese, si dovette portare l’acqua dalla fonte e scaldarsela da sola. Il giovane guerriero Inca, privo delle preoccupazioni di ogni suo coetaneo che doveva mettersi in fila per pagare le bollette dell’acqua, della corrente elettrica, fare rifornimento di carburante, andare al supermercato a fare la spesa, passava le sue giornate a sfruttare il senso di colpa generazionale della sua bionda conquistadora.

   Bionda conquistadora, che un giorno prese il piccolo niño e lo portò in gran fretta al più vicino aeroporto dove un grosso uccello d’acciaio, gomma e vetro aveva già il suo muso puntato verso l’altra parte del mondo, dove acqua corrente ed elettricità erano una cosa considerata normale. Monica Seiffart prese il minuscolo re e lo allontanò dal suo inetto guerriero di carta stagnola. Non atterrò a Monaco il suo uccello di fuoco, non ebbe coraggio la mia bella amica di ritornare subito in famiglia. Aveva paura, mi disse, che non sarebbe riuscita a ricordare la sua lingua madre e avrebbe potuto commettere l’errore di spiegarsi in lingua quechua. I suoi genitori non avrebbero capito, molte cose non avevano capito in precedenza, non poteva correre il rischio di sbagliare anche stavolta. Stavolta c’era un piccolo principe da trasformare in un bambino come tutti gli altri. Il suo aereo atterrò a Roma e in quella città neutrale cercò una stanza, ne trovò una a casa mia e da quel momento ascoltai gli incredibili racconti che questa donna mi faceva. Talvolta portavo Atahualpa con me a lavoro, per lasciare che la sua nobile regina trovasse un impiego per pagarsi l’affitto della stanza. Io lavoravo, mio malgrado, con una compagnia di giovani attori, guidati da un regista con pretese di genialità, una cosa triste, ora me ne rendo conto. Atahualpa mi aiutava a martellare le cantinelle ai grandi fogli di compensato da mezzo centimetro. Preparava le colle e sapeva passare il fondo bianco su cui avremmo disteso un soffice manto di grosse nuvole bianche. Si tagliò un dito con un coltello affilato e ne uscì sangue scuro del colore dell’amarena. Lo portammo all’ospedale e non emise neanche un gemito, i dottori se ne meravigliarono e quando gli chiesero il nome lui disse inorgogliendosi, Atahualpa! 
   Una domenica pomeriggio Monica mi chiese se volevo accompagnarli a fare una passeggiata, io le dissi che ne sarei stato molto onorato, ma li avvertii che anch’io discendevo da un antico principe coraggioso e sfortunato che si chiamava Josto e che visse ben mille anni prima del loro prode Atahualpa. Camminavamo tenendo entrambi il bambino per mano e la mia bella regina tedesca mi disse in lingua castigliana, mira, parecemos una normal familia feliz. Non ho più rivisto Monica, Atahualpa adesso deve essere un uomo grande, perduto in chissà quale angolo del mondo. Spero che abbia la corrente elettrica e un rubinetto per l’acqua calda.

 
 
 

FRAGILE: Lo zio Neno

Post n°97 pubblicato il 29 Agosto 2012 da alex.canu

 

 

 

   Neno non è un mio amico, lo è stato una volta. In senso stretto sarebbe una persona di cui dovrei fidarmi poco. Si è rivelato in talune occasioni, subdolo e vile, dalla doppia, inquietante, personalità. È vecchio, mi ha spesso ripetuto mia moglie, lo devi scusare, cerca di non averci molto a che fare e ignoralo quando puoi. Sembra facile, ma lo zio Neno, ti arpiona con la scusa di discutere del parcheggio condominiale e ti distrugge con argomenti di cui tu non sospettavi neppure l'esistenza. L'ultimo, in ordine di tempo, verteva sulla discriminazione, operata arbitrariamente dalla Natura, fra quelli che hanno i capelli e quelli che per conservarseli in testa, sono costretti a pratiche invereconde. Con estenuanti e capziose variazioni su questo tema mi ha tenuto tutto un pomeriggio intero. Io mi ero rivolto a lui per discutere, ed eventualmente risolvere, il problema di come conferire i sacchetti dell'umido, secondo le nuove disposizioni dell’amministrazione comunale e lui stimando poco il mio quesito ha esordito, ma che umido e umido, vuoi sapere qual'è il mio vero problema adesso? Quale, gli ho risposto io sospettoso, la rovinosa e imprevedibile caduta dei capelli, ecco cos’è! Li porti avanti o li tiri indietro per tappare i buchi, ma il vuoto c’è e si vede e allora non ti rimane che il riporto. Il riporto!? ma Neno i sacchetti di plastica per l’umido costano cari, se noi riciclassimo le sporte della spesa in materiale quasi interamente ecocompatibile, per non parlare del risparmio e dell’ambiente... Vedi, il “Riporto” è l'ultima parola che rimane ad un uomo, oltre quello esiste l'oblio, il non ritorno. Altro che “dove conferire l'umido!”. Nessuna colpa, per lieve che sia, ti viene più perdonata. I comici e gli intrattenitori costruiscono interi monologhi satirici sbeffeggiando ora questo ora quel personaggio pubblico che copre la sua vergognosa testa pelata col riporto. È la foglia di fico dei pelati sul cranio. Questi poveri disgraziati curano la corona di capelli grigi attorno alle orecchie, come alcuni appassionati di fiori trattengono il respiro davanti ad una varietà rara di orchidea, per non impensierirne la crescita col vapore acqueo in eccesso del loro fiato che farebbe morire il loro delicato esperimento floreale. Far crescere un riporto non è facile, quando i capelli si diradano tenti di coprire la piazzetta che si forma portando i capelli dalla nuca in avanti, ma poi un giorno il tuo parrucchiere di fiducia (?) ti mostra, con un opportuno gioco di specchi, l'enormità del vuoto che si è già formato dietro, a tua insaputa, rendendo del tutto inutile, se non vano, il tentativo di coprire la vergognosa calvizie che ti assale. Ecco allora l’estremo, disperato rimedio, l’innaturale e esagerato allungamento dei capelli appena sopra le orecchie, fino a dieci, quindici centimetri, occorrono anni per questo. Man mano che crescono il riporto appena sopra la fronte viene saldato alla cute da lacche che incollano i capelli dandogli però l’aspetto di una velatura lanuginosa. Ma, Neno, mormoro ormai sopraffatto, i cassonetti dell'umido che il comune ha sistemato davanti al nostro condominio, mandano un cattivo odore ormai. Non vengono a svuotarli ogni giorno, come avevano promesso e non tutti nel nostro palazzo mettono bucce e scarti di cibo nelle buste biodegradabili e... Ma quello sarebbe il meno, dice, qui la situazione è ormai sfuggita al controllo, (si da dei colpi con l’indice sulla fronte spaziosa), è da un po' di anni ormai che non mi guardo più allo specchio, mi vergogno di me stesso, capisci come. Ogni uomo col riporto ascolta il meteo con apprensione, il vento è il suo primo nemico. Nessuna lacca resiste ai colpi della tramontana, o di una maestralata fatta bene, in quel caso il riporto vola via come lenzuola bianche stese ad asciugare all'aria. Allora è come se un gigantesco cartello pubblicitario si accendesse sopra la testa strillando, È CALVO!!! Il riporto non sostituisce i capelli perduti. Infatti si vede benissimo che il riporto non sono capelli. Non è un falso, come la parrucca o il toupet. Il riporto mostra chiaramente che la persona è calva, pare che implori, “abbiate pietà dei miei pochi capelli, fate finta che li abbia”… Il “riportato” vive nel costante timore delle manifestazioni della natura: la pioggia lo riduce a un pulcino bagnato, il sole rivela ancor meglio la sua mascheratura, ma soprattutto è terrorizzato dal colpo di vento, che senza preavviso scoperchia il riporto sventolando la misera tendina come una bandiera. La voce di mia moglie dalla finestra al terzo piano mi avvisa che è già ora di cena. 

"Rasati la testa Neno!", gli urlo in un accesso di stizza che non riesco a controllare e, prima che lui si riabbia dalla sorpresa, rincaro la mia teoria a proposito dei pelati codardi e gli grido a due centimetri dal naso, "il Riporto è una forma di insicurezza, una tecnica goffa utilizzata per nascondere la calvizie. Di fronte alla provocazione della Natura il rasato a zero risponde con un atto risolutivo, quasi di disprezzo: "Mi fai cadere i capelli? e io mi rado a zero! Meglio niente capelli che pochi", afferma, gettando alle ortiche lozioni, fiale e frizioni. La rasatura a zero è segno di virilità, perché è nel cliché virile lo sprezzo dei maquillage e delle mascherature. La rasatura a zero corrisponde a un'immagine di natura viva, una naturalità codificata, formalizzata, estetizzata. La stessa visione per cui Tarzan vive nella jungla con un gonnellino di pelle di leopardo e una ragazza di New York naufragata su un atollo se ne va in giro in tanga e scalza, con i capelli sempre puliti, come se fosse da subito in grado di resistere al sole, alle asperità del suolo e alle carenze igieniche". Vedo il pover'uomo sgranare gli occhi e ammutolire, ma che dici, che c'entra Tarzan, le scimmie, Jane col perizoma? Già, caro zietto, che c'entra la tua calvizie di merda col problema dello smaltimento dell'umido? I bricchi del tetrapak, dove li dobbiamo mettere? E dei bicchieri di plastica che ne facciamo? Me lo sai dire cosa ci devo fare coi contenitori di cartone delle pizze da asporto? E tutto quel cellophane che non sappiamo dove mettere, che ci sta affogando lentamente... Beh, quello noi lo conferiamo... Bofonchia qualcosa, ma evidentemente il problema cellophane non se l'era mai posto e, così su due piedi, gli deve apparire irrisolvibile. Il toupet..., gli sibilo sprezzante, ...no, il Riporto, mi corregge lui.

Lascio lo zio Neno col suo problema e salgo lentamente le scale, apro la porta e sento il comprensivo rimprovero di lei che mi dice, potevi trovare una scusa e andartene. Ti pare facile a te, le rispondo. Vatti a lavare le mani che fra un po' si cena, mi dice. Io vado in bagno e mentre mi sciacquo e passo il sapone fra le dita, osservo la mia faccia allo specchio, istintivamente abbasso il capo e osservo da sotto in su la mia nuca, cacchio! mi pare di vedere uno sfoltimento dei capelli o è solo l'effetto delle nuove lampadine a basso consumo energetico scelte da mia moglie di recente?

 

 

 
 
 

FRAGILE: Storia di Antonia

Post n°96 pubblicato il 27 Agosto 2012 da alex.canu

 

 

    Questa è la storia della mia amica Antonia. Quando l'ho conosciuta viveva in un ospizio, aveva ottantasette anni, ma era straordinariamente lucida e dolce. La sua acuta intelligenza la rendeva curiosa dei miei studi e quando le chiesi di raccontarmi la sua storia non oppose alcuna resistenza. Doveva essere certamente una donna molto bella e questa è la sua storia, così come me l'ha raccontata lei stessa. Diceva, scusandosi, che non avrebbe trovato le parole per dire quello che aveva passato, diceva che avrebbe pianto e che si sarebbe vergognata. La invitai ad iniziare e le dissi che non doveva preoccuparsi della luce rossa del piccolo registratore che avevo messo sul tavolo. Mise due bicchieri di acqua fresca, ne bevve un sorso, trasse un respiro profondo e iniziò.

   “La prima volta è stato dopo appena un mese che eravamo sposati, mi disse che lui era contento di me, che era molto innamorato, ma doveva partire e questo lo avrebbe tenuto lontano per qualche tempo. Fece tutto un giro lungo di parole, mi disse che mi amava, di stare tranquilla, che non mi dovevo preoccupare. Poi senza che me lo aspettassi, improvvisamente, mi afferrò dietro il collo e mi fece scivolare in ginocchio premendomi con le mani sulle spalle e costringendomi a scendere lungo il suo corpo. Ci misi un po' a capire le sue intenzioni, ma non ero preparata a una richiesta così pressante. Non che non mi andasse, tante volte avevo fantasticato, vergognandomi di me stessa, su quel che si provasse a prendere il “coso” di lui in bocca, (ride imbarazzata). Tante donne lo fanno e quando siamo sole ne parliamo tra di noi e ridiamo. La curiosità è tanta e anche quel ribrezzo iniziale è più una resistenza psicologica, come un'ultima barriera di pudore che non si vorrebbe abbattere, perché è un arrendersi completamente all'uomo, consegnarsi definitivamente a lui, allargare le gambe è molto più facile che aprire la bocca. Le donne più grandi ci dicevano che agli uomini questa cosa qua li fa impazzire, escono fuori dalla ragione e dalla grazia di dio. Vanno via di testa, ci dicevano, la loro curiosità verso le donne è tutta concentrata li. Ci avevo fantasticato non so quante volte, avevo anche fatto delle prove, da sola con un..., (abbassa la testa vergognandosi e con le mani imita, con imbarazzo, la forma di un frutto). In certi momenti ero quasi decisa a prendere io l'iniziativa, ma non quella sera, non ero pronta. No gli dissi, lasciami, può venire qualcuno, la porta è solo accostata, ma lui si era eccitato, spingeva e mi chiamava troia, non l'aveva mai fatto. La sua voce era un rantolo, mi premeva forte sulle spalle, ma io non mi abbassavo, non volevo dargliela vinta, non volevo che accadesse così. Era una delle cose ancora proibite che mi eccitavano, ma non doveva essere così, non in questo modo. Lui mi assestò un ceffone in piena faccia e mi disse, scendi giù, cazzo di un dio! (Si ferma un attimo, si fa il segno della croce e volta il capo dall'altra parte. Mi fa cenno di spegnere il registratore, ma poi ci ripensa e mi dice, no proseguiamo). Lo schiaffo mi stordì, feci per reagire, ma lui mi afferrò per i capelli costringendomi ad abbassarmi. Se ne venne d'improvviso, senza che me ne potessi rendere conto, sentii il suo membro irrigidirsi come in un ultimo spasimo, poi un fiotto caldo, dolciastro, inondarmi la gola. Feci per sfuggire e sputare, ma lui mi pressava la testa sui suoi pantaloni strofinandomi ancora il suo sesso sulla bocca. Quando ebbe finito si mise a ridere, pareva che non si dovesse fermare più. Si tirò su i calzoni e mi chiese scusa per lo schiaffo. Io mi sciacquai la bocca nel lavandino e osservai la guancia arrossata nello specchio, strano non ce l'avevo con lui, non mi sentivo arrabbiata. Lui continuava a ridere e mi disse, vieni qui e io gli andai accanto, lasciandomi ancora abbracciare. Se mi tradisci ti ammazzo, gli dissi, prima di cacciargli la lingua in bocca”.

   “Con la nascita dei gemelli le cose sembravano andare piuttosto bene, lavorava dove capitava, cantieri ne stavano aprendo tanti, ma doveva spostarsi sempre più spesso e per tempi sempre più lunghi. A volte stava via tutta la settimana e tornava il sabato con la sacca grande che si portava dietro, piena di roba da lavare. Portava sempre qualcosa, per i bambini, che avevano ormai quasi cinque anni. Portava qualcosa anche per me, niente di particolare, un pensiero, lo chiamava lui e infatti quasi sempre era solo quello. Un giorno però mi portò due pendenti di oro e corallo, aspettò che i bambini fossero andati a letto e poi, mentre in bagno mi preparavo per andare a dormire, mi venne dietro. Lo vidi riflesso sullo specchio e notai come un'increspatura a margine della sua bocca, come un sorriso che mi gelò il sangue. Mi bloccai e attesi, lui mise le mani in tasca e tirò fuori i due orecchini che brillarono indecisi alla luce della lampadina. Non capii subito che cos’erano, ma la luce dei suoi occhi era accesa e illuminava il suo volto, felice come quello di un ragazzino. Che cosa sono? gli chiesi inquieta. Lui se ne stava con le mani alzate all’altezza della testa, tenendo sollevati i due gioielli, guardandomi negli occhi attraverso lo specchio, poi si chinò piano e mi cercò i due buchi negli orecchi, passò la punta della lingua prima su un lobo poi sull’altro e, delicatamente, infilò dentro i due gancetti d’oro. Mi guardò e rise impacciato, soddisfatto di quel che vedeva. Ti stanno bene, disse, hai i capelli neri e la pelle bianca, il tuo profilo è da regina, l’oro e il corallo sono degni di te, disse. Infilò le mani sotto le mie ascelle e mi sollevò di peso, protestai dicendo che i bambini erano appena andati a dormire e potevano essere ancora svegli. Mi sollevò e mi slacciò il reggiseno lasciandolo cadere a terra, no, no, supplicai, andiamo di la, chiudiamo la porta, ma lui aveva preso a massaggiare i miei seni e i capezzoli mio malgrado si inturgidirono, lui lo interpretò probabilmente come un segnale di assenso, ma io non volevo, giuro, non volevo. Mi tirò su i capelli dal collo e afferratolo me lo premette contro lo specchio, mi ritrovai così con un lato del viso schiacciato contro il vetro e con l’altra metà rivolto verso la porta. Mise le mani sui miei fianchi e tirò forte verso di se, la mia cavalla, diceva, la mia vacca da latte, fai muh, mi disse ridendo eccitato. Si fece largo con un ginocchio e mi frugò con la mano, mi divincolai e lui mi morse la schiena, affondò i suoi denti e ve li tenne conficcati fino a che io non mi fermai, arresa. Mi entrò da dietro e spinse facendomi male. Afferrò i due orecchini come se fossero due briglie e mi ripeté, nitrisci puttana, fai muh, vacca... (piange e si torce le dita). No, dicevo a bassa voce, non svegliare i bambini, fai muh, troia, gridò lui. Quando il maschio comparve improvvisamente sulla porta del bagno e chiamò, mamma, mi vide che facevo muuh, muuh, con la guancia schiacciata sullo specchio e suo padre che gli urlava, vai a letto, vai a letto cazzo! Il bambino se la fece addosso, vidi la pipì che dalle gambe colava sul pavimento, fuggì via e lui mi strappò un orecchino facendomi sanguinare. Mi girò con uno strattone verso di se e mi alzò un pugno in faccia, trattenendolo in aria tremante e indeciso e quella sera fu l’ultima cosa che vidi. Il giorno dopo giurò che il dente mi si era rotto battendo la bocca sul bordo del lavandino mentre cadevo, disse che anche il livido sullo zigomo me l’ero fatto così, me ne convinsi anche io”. 

   (Nella registrazione si sente una lunga pausa, il rumore del bicchiere sollevato dal tavolo e poi vuotato, ancora il bicchiere posato con delicatezza. Se vuoi smettiamo qua mi sento dire. Quanto tempo abbiamo ancora? dice lei soffiandosi il naso, tutto il tempo che vuoi, le dico io).

   “Mi chiamava stupida, diceva che ero tonta, prima ero una regina, poi sono diventata semplicemente, la scema. Lo diceva anche con i ragazzi, dov’è quella stupida di vostra madre? avete visto quella scema della mamma? Io non sapevo leggere, ne scrivere bene, avevo frequentato la scuola fino alla terza elementare, alle femmine non era richiesto che sapessero leggere o scrivere bene. Passavo tutto il mio tempo a preparare la lana, cardarla, filarla e tingerla. Poi la mettevo nei grossi rocchi, tiravo i fili per ore con la femmina, quindi iniziavo a tessere con grandi colpi di pettine. Il mio lavoro, per mesi, per anni è stato quello. La mia vita è trascorsa seduta su una sedia in quell’unico punto del mondo. Aveva ragione lui, ero stupida e ne ero cosciente, lui me l'aveva dimostrato, me ne aveva pienamente convinto, senza faticare troppo, con qualche pugno e molti schiaffi. Diceva che gli stupidi comprendono meglio le cose con qualche buon ceffone. Quando entrava a casa un po‘ ubriaco con degli amici mi gridava, ehi scema vai a prendere il formaggio e il vino e, mentre li sentivo ridere, mi arrampicavo in alto sulla credenza dove, avvolto nella carta oleata, teneva il formaggio coi vermi. Lo portavo in tavola e me ne andavo subito via. Non rimane tua moglie con noi? dicevano gli amici ridendo. No è tonta e non capisce le cose di cui parliamo, diceva lui”.

   (le tengo la mano rugosa mentre parla e le chiedo se non vuole fermarsi qui. Mi fa cenno di si e mi chiede se sono disponibile a proseguire un altro giorno. Ci diamo appuntamento per la settimana successiva e quando torno la trovo straordinariamente tranquilla e disponibile. L'infermiera mi fa cenno di non affaticarla troppo, rispondo con un cenno di assenso e riaccendo il registratore, la lucina rossa la attrae e la spinge a riprendere il suo racconto).

   “Quando quel giorno, al lavoro, cadde dall’impalcatura, non morì subito, (riprese a raccontare), rimase a letto all’ospedale senza poter muovere neppure un dito. Gli davo da mangiare, lo lavavo con delicatezza, gli accendevo e gli spegnevo la luce, gli leggevo perfino alcune notizie dal giornale. Quando lo portammo a casa gli feci trovare il televisore nuovo. I dottori dissero che non sarebbe riuscito più a camminare, che lo dovevamo tenere seduto in una carrozzina con le ruote. Quelli del sindacato riuscirono a fargli avere un risarcimento per l’incidente e la pensione per tutta la vita. Dissero che eravamo fortunati, che dopo che lui fosse morto, con la reversibilità io non avrei avuto problemi e, con i figli che crescono, la scuola, le tasse da pagare, non mi sarei più dovuta preoccupare di niente. Lo devi solo spingere, mi dissero, ogni tanto portarlo fuori a prendere una boccata d'aria e un po‘ di luce, tutto qui. Come una pianta? dissi io, si proprio come una piantina mi dissero loro. Lo lavai, lo imboccai, spinsi la sua carrozzina, gli cambiavo gli unici tre canali della nostra televisione, un’altra, nuova, a colori. Quando morì, lo piansi, come una scema. Prima che chiudessero la bara gli sussurrai, muuh, all’orecchio, e dentro vi lasciai cadere i due orecchini di oro e di corallo che, da quella volta, non avevo mai più indossato. Poche ore dopo che i muratori suoi amici hanno messo l'ultimo mattone, chiudendo definitivamente la sua tomba, è iniziata la mia morte, la mia vera prigione, senza di lui”.

   La luce rossa continuava a lampeggiare, ma lei si interruppe, riprendendo un pianto sommesso che era iniziato chissà quanti anni prima. Il suo racconto si concluse li e non lo volle più riprendere. Che ci farai con questa cosa? Mi chiese. Niente è per la mia tesi all'università, le risposi, sto facendo una ricerca sul campo sulle società in transizione tra due epoche economiche e culturali, ma non credo che utilizzerò mai questo materiale. Per anni ho conservato questa registrazione, solo adesso che Antonia è morta e i figli sono cresciuti e lontani, impegnati in chissà quali carriere, mi decido a trascriverla.

 

 

 

 
 
 

FRAGILE: Mi ami?

Post n°95 pubblicato il 17 Agosto 2012 da alex.canu

 

    “Mi a-mi?” disse, con un tono secco e deciso, bloccando il mio corpo sopra il suo aggrappato come un ragno. Come!?, feci io, sorpreso, facendo finta di non aver capito bene la sua semplice domanda. Tu mi a-mi? ripetè, staccando innaturalmente la a dalla sillaba seguente e allontanando il mio petto da lei con le palme delle mani. Percepivo i suoi occhi cercarmi interrogativamente nella penombra della stanza e da quel momento sentii i miei fuggire in ogni direzione.

     Cercavo di colmare la mia ignoranza riguardo alla musica classica frequentando quanti più concerti possibile, in quel periodo ne davano tanti, di ottimo livello e soprattutto gratuiti. La incontrai ad uno di questi, nell’aula magna dell’ospedale dell’isola tiberina a Roma. In programma la fantasia in re min. K 397 di Wolfgang Amadeus Mozart. Sull’autobus che percorreva il lungotevere notai una ragazza con i capelli biondi e un grosso zaino messo a terra che sorvegliava tenendoselo accostato al piede. Era gennaio e nonostante la temperatura fosse molto bassa portava delle scarpe da ginnastica che erano di una misura inusuale per essere di una femmina. Scendemmo insieme alla stessa fermata e la lasciai andare un poco avanti per osservarla meglio. Si caricò il suo pesante fardello e proseguì a passo svelto sul marciapiede nella mia stessa direzione. Attraversammo il ponte Cestio ed entrammo nella sala barocca del Fatabenefratelli, dove si sarebbe tenuto il concerto. Lei si guardò attorno e prese posto due file avanti a me, dispose lo zaino sotto il sedile e, per tutta l’ora del concerto, battè discretamente il tempo tamburellando sul suo forte ginocchio, dando l’impressione che conoscesse la fantasia di Mozart molto bene. Io invece estrassi dalla mia piccola tracolla matita e blocco di carta e, lasciandomi trasportare dal pianoforte, ritrassi il maestro con i capelli che si infiammavano, le sue mani sulla tastiera come radici nodose e le statue barocche degli angeli, di marmo e stucco, che si sporgevano pericolosamente nel vuoto, sopra l’altare maggiore. Alla fine del concerto applaudimmo e chiedemmo insistentemente un bis che venne prontamente concesso. 

    Usciti dalla sala del concerto ripercorremmo la breve salita che porta al ponte Cestio per raggiungere la fermata dell’autobus, ma stavolta fu lei a tenersi qualche passo dietro di me. Sentivo il rumore delle sue grosse scarpe battere il tempo sui sampietrini del ponte, poi mi raggiunse, ma anzichè sorpassarmi rallentò la marcia camminandomi al fianco per una decina di metri. Io la tenevo d’occhio discretamente senza però rivolgerle la parola, la sua insistente vicinanza mi metteva in imbarazzo. Visto che io non prendevo l’iniziativa fu lei a dirmi improvvisamente, ti è piaciuto il concerto? Come? dissi, stupito per la sua domanda così diretta e anche per guadagnare tempo. Non eri tu che stafi al concerto di Mozart? mi ripetè, precisando meglio la domanda. Si certo, Mozart, molto bello vero? e il pianista era davvero bravo con quelle sue lunghe dita. Lunghe dita? disse lei sorpresa, non ho notato, ma si, era molto bravo e veramente buono il suo esecuzione. Buona, la corressi, si dice buona la sua esecuzione. Ah, crazie! disse lei. Io osservavo le sue scarpe da ginnastica e intanto mi domandavo cosa dovesse contenere lo zaino perchè fosse così gonfio, doveva pesare davvero tanto.

     Mi chiamo Eva disse allungandomi la mano, io le dissi il mio nome e sorridemmo e finchè non raggiungemmo la fermata dell’autobus fu tutto. Doveva raggiungere la stazione della metropolitana Piramide, mi informò, abitava fuori Roma dove aveva preso una stanza in un appartamento in affitto. Io le proposi di accompagnarla e mi parve contenta di questa mia iniziativa. Entrati dentro la stazione ci mettemmo seduti ad aspettare il suo treno e incominciammo a parlare del concerto, poi mi chiese che genere di disegni stessi facendo durante l’esecuzione della fantasia di Mozart. Stafi disegnando vero? mi disse, e io le domandai come aveva fatto ad accorgersene, visto che aveva passato tutto il tempo a tamburellare sul suo ginocchio. Non ti ho mai visto girarti, osservai, come fai a sapere che disegnavo? Mistero, disse lei rivolgendomi un sorriso malizioso. Da bambina ho studiato flauto, mi disse, ricordo quei momenti con molta felicità, Bach mi emozionafa tanto e ho molto rispetto per lui. 

     Si trovava a Roma da pochi mesi, mi disse e ci rimarrò per un anno intero, tenne ad informarmi, per specializzarmi in archeologia. Mi sono laureata a Freiburg e ho ottenuto una borsa di studio per l’Italia della durata di un anno. Intanto molti treni passavano, ma non sembravamo accorgercene e lei non accennava ad alzarsi. Mi piaceva stare seduto in quella panchina ad ascoltarla, l’ora tarda della notte aveva diradato i passeggeri e eravamo le uniche persone li dentro. E tu, cosa fai? mi chiese col suo forte accento tedesco. Studio arte, le dissi con scarsa convinzione, come se fosse un punto a mio sfavore. A lei invece parve piacerle molto, mi chiese se poteva vedere i disegni che avevo fatto durante il concerto e quando, sfogliando il quaderno, vide un suo ritratto di spalle, lo osservò perplessa e in silenzio voltò pagina. Si alzò e disse che quello sarebbe stato il suo ultimo treno, mi scrisse il suo numero di telefono su un bigliettino di carta, raccolse il suo zaino e sono convinto che se l’avessi baciata in quel momento non avrebbe detto di no, ma non lo feci, fu lei a darmi un rapido bacio sulla guancia. La guardavo e mi piaceva, piedi enormi e tutto, non volevo correre rischi inutili, sapevo che ci saremmo visti tante altre volte ancora. Da quella volta iniziammo a frequentarci con una certa assiduità. Andavamo ai musei, la accompagnavo a vedere ponti e acquedotti romani, visitavamo mostre di arte contemporanea, dove rimanevamo stupiti per la libertà raggiunta dagli artisti e di cui non comprendevamo quasi niente. Ascoltammo tanta musica, gratuitamente, a volte si portava il suo flauto traverso a casa mia e, mentre io disegnavo, lei suonava Bach, con i piedi scalzi perchè, diceva, sentiva meglio il passaggio della musica lungo il suo corpo. Un giorno, tranquillamente, la baciai e lei mi sorrise.

    Qualche tempo prima di conoscere Eva avevo frequentato con alterne fortune una ragazza che mi teneva continuamente sulle spine, lei era innamorata di un uomo sposato che viveva a Milano e che vedeva un paio di volte all’anno. Mi ero convinto, chissà perchè, di essere innamorato di lei, ma da quando conobbi Eva non la frequentavo ormai quasi più e lei pareva non soffrirne affatto. Mi distaccai dalla ragazza problematica e divenni più aperto e sereno. Eva mi presentava i suoi amici tedeschi e imparai da loro che esiste una linea netta che separa l’impegno nel lavoro dai momenti di relax e di divertimento. Sapevano organizzare delle feste a cui si imbucavano tutti e che non finivano mai. Ci divertivamo molto e mi piaceva tanto stare con loro, imparai un po’ di parolacce in tedesco e loro impararono le parole impronunciabili della mia lingua d’origine, come sempre si fa.

     Una sera che organizzavamo una cena a casa mia disse che si sarebbe trattenuta a dormire. Avremmo finito molto tardi, mi fece notare, e a quell’ora era meglio non avventurarsi con i mezzi notturni fuori Roma. Mi parve opportuno, per salvare le apparenze, offrirle un passaggio, ma come mi aspettavo rifiutò, ho teciso ke stanotte rimarrò a tormire qvà, disse con un sorriso dolcissimo. Jawohl, risposi scattando militarmente sull’attenti e portandomi una mano alla visiera. Quando tutti gli amici se ne andarono rimanemmo soli, in silenzio, sparecchiammo e mettemmo tutto in ordine, con cura. Misi i piatti e i bicchieri dentro il lavello della cucina e iniziai a far scorrere l’acqua calda, quando lei si avvicinò e mi disse, tutto qvesto domani, insieme. Entrai in bagno per lavarmi i denti e spensi le luci mentre lei entrava a sua volta portandosi dentro il suo pesante e misteriosissimo zaino. Vi rimase per un tempo che mi parve infinito, sentivo l’acqua della doccia scorrere e lei cantare discretamente qualcosa. Io mi ero già infilato sotto le coperte e l’aspettavo con impazienza quando finalmente spense la luce del bagno facendo piombare la casa nel buio più completo. Il profilo del suo corpo si disegnò fugacemente sui fori delle tapparelle alla finestra che davano sulla strada, poi sollevò la coperta e mi stordì col suo profumo di fresco. Si distese accanto e l’abbracciai forte, ansimava per la leggera corsa a piedi scalzi dal bagno fin li e aveva ancora dei ciuffi di capelli bagnati. La sua pelle era liscia, ma notai con sorpresa che le sue gambe non erano depilate, glielo dissi e lei rise dicendo con facile ironia che, "le donne italiane sono troppo belle". Provai un certo imbarazzo sulle prime, al buio mi sembrava di stare a letto con un amico se non fosse stato per il suo seno che premeva contro di me, poi mi ci abituai e la cosa non mi diede più fastidio. Mi baciò a lungo sugli occhi e sulle labbra e mi sussurrava parole nella sua lingua di ferro che non potevo capire. Mi stuzzicava a proposito della mia statura, così inferiore alla sua, chiamandomi dolcemente, uomo-piccolo, oppure, uomo-strano. Scivolò lentamente sotto di me e io a quel punto afferrai l’orlo delle sue mutandine e cominciai a sfilargliele. Lei si fermò per un attimo, come sorpresa da quel gesto, come se non si aspettasse tanta intraprendenza da parte mia, poi inarcò la schiena permettendomi di levargliele del tutto. A quel punto però, come se quel semplice atto avesse innescato automaticamente una reazione inaspettata mi chiese, tu mi a-mi? e lo disse con un tono di voce preoccupato per la possibile risposta negativa. Cosa dici? le chiesi, emergendo dal tepore rassicurante del suo corpo, non ancora sicuro di ciò che avevo appena sentito. Mai mi aveva posto questa domanda, così precisa e diretta, tagliente nella sua semplicità. Pose la domanda in modo da avere altrettanta schiettezza nella mia risposta che si aspettava immediata e istintiva. Non chiedeva spiegazioni, non voleva discorsi inopportuni, esigeva solamente un si o un no, una sola sillaba, asciutta e lapidaria, nient’altro. Ammetto che non ero pronto a rispondere ad una domanda di quel genere, non in quel modo e con l’immediatezza che lei richiedeva. Ci conoscevamo ancora da così troppo poco tempo, sapevo che fra non molto lei sarebbe andata via e avevo un pezzo dei miei pensieri ancora legati all’altra, quella con l’amante sposato e milanese, non credevo che lei desiderasse già una relazione stabile e definitiva. Tu mi-a-mi? insistette lei allontanando da se il mio corpo con le mani, mentre questo le premeva contro, testardamente, con ogni centimetro quadrato di pelle disponibile. Ero irritato da questa richiesta inopportuna, posta in maniera così definitiva e perentoria. Ero pronto con ogni cellula del mio corpo, con ogni energia di cui disponevo a fare l’amore con lei. Mi ero preparato da settimane a questo momento, ad essere dolce, attento ai suoi ritmi, a capire i suoi  tempi, a lasciarmi andare all’istinto, a esercitare quella tenera violenza che caratterizza ogni primo rapporto sessuale di ogni coppia del mondo, ma non ero preparato a rispondere a quella semplice domanda, mi a-mi? Scelsi allora di essere sincero, altrettanto naturale e spontaneo come era lei e le risposi, non lo so ancora, fermando il mio ventre che spingeva testardo contro il suo. Eva allora si sporse verso la piccola luce accanto al letto e l’accese, privandoci del buio complice e ambiguo, mi guardò intensamente e mi disse, lo sai o non lo sai? Avrei potuto dirle, si ti amo tantissimo e spegnere finalmente quel cazzo di lampadina che mi bruciava gli occhi e scopare tutta la notte felice e beato. In quel momento sentivo di amarla davvero tanto, ma capivo che la sua domanda andava oltre quel momento, che pure lei aveva aspettato tanto. La sua breve domanda però si proiettava ben oltre la nostra piacevole serata, riguardava i giorni e i mesi a seguire, forse lei pensava addirittura ad un futuro da condividere insieme. Troppo per un piccolo uomo come me, abituato a rubare l’amore, ad essere lupo, a non concepire il domani che come prolungamento dell’oggi. Troppo poco per una come lei abituata alla chiarezza e alle linee parallele degli scavi archeologici che tagliano il tempo in grosse fette di ventimila anni.  Invece io spinsi fino in fondo il pedale della mia sincerità miope, contingente, e con un tono di voce sfilacciato, appena venato di colpevolezza esalai un, non lo so, ancora non lo so, perdonami. Eva si spinse fuori dal letto, andò in bagno dove rimase per qualche minuto, poi rientrò vestita con le mutandine e una canottiera leggera  di lana che le avevo visto indosso altre volte. Scostò di nuovo la coperta e con un sorriso mi si sdraiò accanto sporgendosi ancora a spegnere la luce. Aspettai qualche secondo e poi la abbracciai ancora mettendoci quanta più tenerezza potevo per farle sentire il mio calore, convinto che tutto fosse risolto. Lei si voltò verso di me e mi diede un bacio, piccolo e definitivo. Possiamo essere dei buoni amici, disse, voltandosi immediatamente dopo verso il muro. Il suo corpo accanto al mio odorava di buono e io mi struggevo dal desiderio di toccarla e stavo male. Avrei voluto urlare, tutto il mio corpo stava già urlando, peli, unghie, ginocchia, dita, gomiti, naso e orecchie, tutto era in rivolta, sentivo il suo respiro e annusavo il suo profumo. Mi avvicinai al suo orecchio e piano, dolcemente le sussurrai, Eva, ich liebe dich auch, con un tono da tedesco di cartolina illustrata, calcando sulle ultime sillabe aspirate perchè dessero alla dichiarazione  quel tono di verità che la potesse stupire e farle cambiare atteggiamento. Ma forse esagerai il registro patetico perchè lei, con un tono da lettera commerciale, mi rispose in perfetto italiano, tormi ora. E per quella notte fu tutto. Un auto mise in moto, fece manovra e le luci dei fari disegnarono sul soffitto e sulle pareti un film fatto di forellini illuminati, poi si allontanò perdendo il rumore del suo motore un po‘ più lontano.    

 

 
 
 

Fuga dal carcere delle Saline (parte 1)

 



     Cust’abba mala, queste saline del malanno!  Queste grandi vasche d'acqua, come enormi specchi d’azzurro, sdraiati sulla terra per l’invidia che gli dei da sempre hanno degli esseri umani. Queste grandi paludi con gli insetti che ti mangiano la carne e ti lasciano come morto con delle febbri altissime. Non ci voleva venire nessuno a lavorare qui, solo i disperati morti di fame o quelli che avevano più di un debito verso la Giustizia, Giustiscia chi si los mandhighet! Un tempo qui ci lavorava tanta gente. Tutti  uomini duri, come me e come lui, che adesso vedi in silenzio, straziati, su quelle macchie di rovi senza prusu un’alenu de vida, come anime smarrite. Caldi ancora della vita che ci è stata appena tolta. Abbiamo ucciso e siamo  stati uccisi, il conto è pari.      

   Il carcere aveva un aspetto rassicurante, costruito  per essere un granaio da non so quale Papa di Roma. Presto però i chicchi di grano vennero sostituiti da tutta gente come noi, duecento detenuti saremo stati in tutto. Raschiavamo il sale dal fondo delle vasche con un palone di legno, coperto in cima da una lamina di ottone per non farlo consumare e durare più a lungo. Partivamo dal carcere del porto Clementino che si apriva sul mare al suono di un fischietto, legati l’uno all’altro dalle catene ai piedi. La gente veniva a vederci perché quella partenza aveva qualcosa di buffo e di drammatico insieme. I bambini ridevano e ci indicavano col dito.  Fuggire, fuggire via di lì era l’unico chiodo fisso che tutti avevamo in testa, costantemente, notte e giorno. Trovare il modo di nasconderci allo sguardo vigile delle guardie senza dare nell’occhio e senza compromettere gli altri compagni. Magari con l’appoggio di un salinaro libero, pagandolo bene s’intende. E poi via, in Argentina, in Brasile o in Australia, in qualsiasi angolo oscuro del mondo dove la luce della Giustizia non potesse illuminare la tua tana buia, dimenticato da tutti. Non era facile per niente. Se qualcuno provava a scappare la guardia che lo aveva in consegna rischiava di perdere il posto di lavoro o di essere trasferito ad un altro penitenziario. Nessuno voleva rischiare, né noi, né loro. Per questo ci tenevano d’occhio costantemente e come buone mamme non ci abbandonavano mai. A piedi, saltellando sui ciottoli bianchi con i piedi scalzi, trottavamo verso il villaggio di casupole basse allineate in due file, dove i salinari ci aspettavano.  Sui muri delle case c'erano stampati dei numeri che indicavano l'anno di costruzione. Uno, in particolare, lo ricordo bene perché segnava lo stesso anno di nascita di mio padre, 1881. Non è un anno facile da ricordare? Non è un anno speciale per nascere? Mica saranno nati solo disgraziati come lui, qualche grande personaggio sarà pure venuto al mondo in quell'anno, che ne so, un re o magari un grande artista, chi lo sa. Il carcere è sulla riva del mare, di fronte ha l’orizzonte immenso e questo mi calma nelle giornate di pena più dura. Guardare il mare mi fa bene, come facevo da bambino quando mi affacciavo alla porta di casa e l’acqua già mi lambiva i piedi.  Mio padre faceva il minatore e il villaggio dove abitavamo raccoglieva una ventina di famiglie con tanti bambini per poter giocare tutto il giorno. Mio padre però era un uomo bello d’aspetto e ritornare a casa sempre nero di carbone non gli piaceva. Gli offendeva la pelle bianca e sa balentìa, diceva.  Mia madre sorrideva e non lo prendeva sul serio. Ma quando le disse che un suo fratello gli aveva scritto, proponendogli di prendere un po’ delle sue bestie a mezzadria e che saremmo partiti per il continente, pianse tutta la notte. Il lavoro in miniera era sicuro come il pane, il continente invece era lontano, sconosciuto, non ne sapevamo niente, e parlavano un’altra lingua. L’acqua del mare mi lambiva i piedi, come lacrime, come gocce, come suono di fontana, ma ancora per poco.

  Quando arrivammo in continente mia madre ci rimase male, prenda istimada, se l’aspettava diverso, più grande, più... non sapeva come spiegarlo, ma ci rimase molto male e non perdonò mio padre. Noi bambini non avevamo più il mare ad accogliere i nostri piedi. Mio padre si stancò presto anche del nuovo lavoro e, sentito che chiamavano operai per lavorare  alle saline di Tarquinia, ci trasferimmo li dove ci diedero due stanze umide. Io non riuscii mai ad integrarmi, nessuno sapeva giocare a Tenemiludene, a Brucio o a Brincamuru. Picchiavo gli altri bambini e gli uccidevo i piccoli animali che catturavano.  Allevavo i falchi e quando erano affamati gli davo i loro uccellini. Catturavo piccoli topi, con delle trappole di legno e fil di ferro che mi costruivo da solo e quando se ne stavano dentro terrorizzati li inzuppavo con la benzina e gli davo fuoco con un fiammifero. Quando aprivo la trappola, quei poveri animali trasformati in palle di fuoco, correvano fuori andando a sbattere contro i muri delle case, poi si arrestavano, accasciandosi, spenti e morti. Le mamme degli altri bambini prendevano i loro figli per mano e se li trascinavano via, quelli continuavano ancora a guardare il topo morto, annerito dal fuoco e mi odiavano, finalmente mi temevano.  Altri ragazzi, più grandi, mi deridevano invece apertamente, sfidando la loro malasorte. Il mare, non questo mare, il mare-mare, quello vero, quello che ti accarezza i piedi e te li rinfresca dolcemente, mi mancava; questo ha il sale che pizzica, che brucia le ferite, ma non rimargina quelle del cuore e della nostalgia della mia terra.  La mia famiglia andò in pezzi, lastima. Di me la vita ne fece quello che volle e dopo molti anni dispose di farmi tornare qui alle saline, da ladro, assassino e da carcerato. Tutti si ricordavano di me, con tutti avevo un debito e tutti quanti si presero la loro vendetta, solo al vedermi costretto in catene.

   Le donne ci portavano il pane e l'acqua dolce la mattina, poi se ne andavano via, portandosi sotto le gonne tutta la nostra disperazione. Avremmo ucciso ancora per esse, per avere mezz'ora con loro, dietro il casotto di legno, dove tenevamo gli attrezzi da lavoro. Le guardie vigilavano, su cunnu 'e mama, avrebbero ucciso per lo stesso nostro motivo. Questo è quello che ci accomunava, che ci rendeva complici.  Noi che avevamo rubato e mentito e ammazzato, e loro che si guadagnavano da vivere col più infame dei lavori.  Ci guardavamo con odio tutto il tempo. Ci saremmo azzannati volentieri alla gola. Ma noi avevamo le catene ai polsi e ai piedi e loro avevano le chiavi. Tra Agosto e Settembre ci svegliavano presto la mattina perché era il periodo della cava del sale. Ci riempivano mezza fiaschetta col vino rosso e con le catene, a coppie, uno all'altro ci legavano. A me era toccato un toscano, un compagno silenzioso e discreto. Mai un problema, mai uno screzio. Quando ci incatenavano insieme e allungavamo le braccia per offrire i polsi alle guardie, lui mi guardava dritto negli occhi, senza mai staccare lo sguardo, senza mai battere ciglio. Analizzava ogni tratto del viso, la durezza dei miei lineamenti, prendeva nota del colore della pelle,  misurava la mia altezza.  Lasciava che anch’io lo guardassi fisso negli occhi, che gli ponessi silenziosamente le domande che servivano e che trovassi le risposte che mi attendevo. Non permise a nessun altro di guardarlo in quel modo e quando qualcuno si prese delle libertà seppe regolare il conto in modo rapido e discreto. Una volta che non seppi resistere al suo sguardo gli chiesi a bruciapelo con un soffio di voce, mi porterai con te? Strattonò forte la catena, fulminandomi con un sibilo che somigliava ad una bestemmia. Dopo però, per tutta la giornata, non smise mai di cercarmi con lo sguardo. Non parlava mai, non con le parole almeno. Mi indicò la data scolpita in alto, sopra la porta di una casa: 1881. La puoi leggere anche all’incontrario, 1881, andata e ritorno, disse. E furono le uniche parole che mi rivolse per quella giornata. Andata e ritorno, ripetei mentalmente più volte. Alzai lo sguardo verso la porta e lessi ad alta voce quella data, lì era scritto il nostro destino.  Ci capimmo al volo. 1881, era segnato lassù, in alto nell'ultima casa entrando sulla sinistra, prima della garitta della guardia. Oltre il cancello c'era il lavoro duro, per tutto il giorno. Le montagne di sale che si accumulavano e ci spaccavano le dita. Il sale sulle ferite ce le cicatrizzava bruciandole, ma ci faceva anche impazzire di dolore. Le guardie lo sapevano  fizzos de bagassa, storcevano il naso, gli dava fastidio che ci lamentassimo. Il sale che raccoglievamo con i paloni lo ammucchiavamo ai bordi delle vasche per essere poi trasportato con le ceste fino alle aie dove veniva ammontinato. Quello era il più schifoso dei compiti, che veniva lasciato solo a noi carcerati. Il sale lo dovevamo trasportare a spalla, dentro delle grandi ceste di vimini, per almeno cento metri dentro le vasche e poi dovevamo salire su una pedana, perché c’era il canale e andare sull’aia. Poi lì trovavamo un’altra tavola in pendenza che andava sù e scaricare in cima alla piramide. Con l’acqua salata che ci colava giù attraverso il collo e per la schiena. Mettevamo dei sacchi attorcigliati per protteggerci, ma quella bagassa passava sulle nostre spalle, anche così, facendoci impazzire dal dolore. Tutta la nostra carne era tagliata dalle ceste dure che scorticavano la pelle e il sale faceva il resto. Accadeva talvolta che gli stessi salinari, i curatoli e persino qualche guardia provassero pena per le nostre sofferenze e si offrissero di sostituirci nel  trasporto di qualche cesta, come il cireneo della via crucis. Con alcuni di essi diventammo persino amici; ci sdebitavamo con piccoli lavoretti, come costruire piccole gabbie di fil di ferro, per i passeri che allevavamo in carcere e poi ammaestravamo. Gli davamo gabbia e passeri, per farci giocare i loro bambini crudeli che li avrebbero ammazzati il giorno dopo dandoli al gatto, oppure si divertivano a tagliargli le ali e a legarli con uno spago alle zampette per non farli volare via. I salinari ci regalavano del vino e qualche stretta di mano sincera.

   In catene arrivavamo, uno dietro l'altro come tanti scolaretti troppo cresciuti a passeggio con i loro maestri severi. E passavamo proprio davanti alla scuola, dove io ero cresciuto e avevo combinato i miei primi guai. Ho ancora una foto che tengo in tasca e che non butto mai, è quella dove l'ombra lunga di un pino si stampa su una porta con i gradini, come di un mistero che voglia impadronirsi dell’intero edificio. Mio padre un giorno prese e ci portò qui, lasciando a suo fratello le bestie perché se le custodisse lui, cussas alveghes. Mia madre andò teracca a casa del maestro mio di scuola, ma tornava a casa, ogni volta, sempre più scura e nervosa e non cantava più come era solita fare. Mio padre la sera non aveva occhi e orecchie e non faceva domande, ma l’ombra di quel pino nero si allungava sempre di più e copriva ormai tutta la porta e iniziava a mangiarsi anche i muri di casa nostra. Finché un giorno la mamma se ne andò via da sola. Prese le poche cose necessarie a risolvere il suo impiccio e se ne andò senza dirci una parola. Mio padre non ci diede spiegazioni, nessuno ne chiedeva, tutto era chiaro. A ottobre mi segnò a scuola e lì imparai quel poco di italiano che ancora conosco.

   Una volta il mio maestro mi sorprese a fare il suo ritratto sul banco con un temperino. Se la prese a male, per via delle corna che gli avevo disegnato in testa immagino. Strillò cose senza senso e il risultato di tanto gridare fu che mi fece mettere le dieci dita delle mani sopra il banco. Me le pestò una ad una con una verga di legno d'ulivo che io stesso gli avevo portato. Il decimo dito me lo risparmiò e sorridendo mi concesse la grazia. Trattenni le lacrime e non feci mai il gesto di ritirare la mano. Osservai a lungo le mie dita illividite e doloranti. Nove, nove. Quel numero me lo stampai bene in testa, nove. La santa trinità al quadrato...padre, figlio e spirito santo. Si trattava solo di aspettare e di avere pazienza, prima o poi anche per il maestro il suo momento sarebbe arrivato, arriva per tutti. Feci passare nove anni esatti, uno per ogni dito, poi aspettai sua figlia sotto il portone di casa. I suoi occhi sbarrati su di me, il suo sguardo muto e implorante furono la più bella vendetta che potessi prendermi. Capì in fretta in quale situazione il padre l’aveva cacciata. Tirò indietro la testa e non oppose altra resistenza che il suo corpo teso e duro come la pietra, ma anche così la verga d’ulivo del maestro entrò dentro di lei e la cosa fu fatta. Suo padre la rinchiuse dentro la prigione domestica per altri nove mesi e nessuno si sognò mai più di prenderla in moglie. Ma su quei gradini, anche su quei gradini, amai una donna, la più bella che io ricordi, l'unica che mi abbia guardato nel cuore e non ne abbia avuto paura. Sedevo dietro di lei e l'abbracciavo, mentre sentivo i suoi seni colmi e duri pormi sempre la stessa domanda, te ne andrai? Affondavo il viso nei suoi capelli che erano fatti di carbone dolce, tutto l'opposto di questo sale che è bianco e amaro e brucia la pelle e non le rispondevo. Alle sette precise suonava la sirena e il cancello veniva aperto con un fragoroso cigolio. Le guardie che ci prendevano in consegna ci ricontavano uno ad uno, come bestie al macello, come merce da segnarne il numero su un libro. Ogni giorno le guardie ci ripetevano la stessa solfa di sempre. Una tiritera che conoscevamo a memoria e ripetevamo in coro come il padrenostro: non rubate, non allontanatevi senza permesso, (neppure per pisciare), non organizzate risse, lavorate, lavorate sodo e non avrete altri guai. Per lo stato e per il re. Le guardie si arrabbiavano quando gli rifacevamo il verso, ma perlopiù tolleravano e ci davano gli attrezzi di lavoro con burbera durezza. Un cappello di paglia per ripararci dal sole, vanghe. Ci davano anche mezza forma di pane e del formaggio, che mettevamo insieme dentro la borsa che tenevamo a tracolla.  Alle sette e un quarto suonava la seconda sirena. A piedi andavamo nelle vasche a raschiare quel maledetto sale per tutto il giorno. Ad ammucchiarlo in piccole colline per il re, per lo stato che non conoscevamo, che non avevamo mai visto. Stavamo immersi nell’acqua salsa col fondo rosa per trenta o quaranta centimetri. In superficie era pieno di penne di gabbiani e altri uccelli che venivano lì per svernare o per l’estate. C’erano gli aironi, immobili e gobbi, sembravano malati di tristezza e di malinconia. Noi li scacciavamo con i sassi, e loro se ne volavano via offesi con le loro ali immense e grigie. Se ne stavano per conto loro, lontani da tutti, con il lungo becco infilato sotto l’acqua a raschiare il fondo melmoso, peggio di noi. Strillavano con quel loro rozzo gracchiare e si davano delle grandi beccate, uno addosso all’altro, malaittos, puzones de mala intragna. Cagavano, dappertutto era una poltiglia di escrementi immondi. Il sale veniva ammucchiato nelle aie che creavamo noi e lasciato a scolare e ad asciugare al sole e al vento per un giorno intero. Poi riempivamo dei sacchi con il marchio regio che venivano successivamente pesati, quindi li caricavamo nei carri che venivano a prenderseli. Per il re, per la patria. Qualcuno aveva provato in passato a fuggire da quella galera nascondendosi fra i sacchi, ma era stato ripreso immediatamente e lasciato per una settimana, a pane e acqua, oltre alle frustate pubbliche, con le ferite che venivano curate col sale. Sentivamo le grida di quei disgraziati e questo bastava a scoraggiare tutti. Uno soltanto era riuscito a farla in barba agli sbirri, ma quello era il maestro di tutti noi, Domenichino Tiburzi. Lo arrestarono alla fine del ‘60 credo, ma non lo tennero in gabbia per molto, perché tre anni dopo prese il volo col Curato verso le campagne di Montalto. Anche un’altro provò a darsela, me lo raccontò un salinaro che gliel’aveva raccontato suo padre. Allora, successe un fatto, che fuggì un detenuto, al tempo di Giugno, quando c’era da mietere il grano. Fuggì alla guardia che lo custodiva con altri quattro. Rischiava di andarci di mezzo lui per colpa del detenuto. Allora lo va a cercare per tutta la campagna e lo trovò sotto un ponticello che se ne stava tutto appiattato per non farsi vedere, gobbo dalla paura. Appena se ne accorge quello scappa e la guardia dietro a correre e a dirgli di fermarsi. Cadono tutt’e due dentro una forma col grano e lo sbirro prende il moschetto, con la canna, la cassa e tutto e glielo spacca sulla schiena. Una volta ritornati al carcere gli hanno dato il resto e curato le ferite col sale. Tutti i giorni gli faceva degli impacchi la guardia stessa che gli era fuggito, con quello a strillare basta, per pietà. Non conveniva a nessuno provarci, né a noi né a loro. All’entrata pesavano il carro vuoto col conducente. Caricavano il sale già insaccato, la misura era sempre la stessa. All’uscita ripesavano tutto di nuovo, carro, conducente e sacchi di sale; quello che la pesa segnava in più era un tentativo di evasione finito male. I conti tornavano sempre e i condannati pure. Fuggire non era facile. La sera ripercorrevamo la strada all’incontrario, stremati e sporchi, pronti per il giorno seguente. Il sole colorava tutto di un arancione profondo che metteva tristezza e malinconia. La strada del rientro la percorrevamo in silenzio, legati e incatenati ce ne tornavamo in prigione, sognando solamente il letto. Il nostro aspetto incuteva timore e il rumore dei nostri passi spaventava i bambini, gli stessi che la mattina ci avevano derisi.   Le donne si affacciavano e ci guardavano con occhi scuri di pena.  Tornavamo a casa. In prigione, a casa, in prigione. In galera. Fuggire non era facile. Quel sale bianco, tagliente come la pietra ci levava ogni energia e, stanchi com’eravamo, non saremmo stati capaci neppure di sollevare la gamba per saltare il muro di confine, neanche se le guardie ci avessero obbligato a farlo. Morti eravamo, sfiniti dalla fatica e dal pessimo cibo. Eppure…

 

 
 
 

Fuga dal carcere delle Saline (parte 2)

Post n°93 pubblicato il 08 Agosto 2012 da alex.canu
 

   Capitò improvvisamente, una sera, l’ultima mezz’ora prima di andare via, quando tutti sono nervosi e stanchi e non si riesce più a tirar su neanche un grano di sale. E`il momento in cui anche i carcerieri lasciano i moschetti con la canna a pendere rivolta verso terra. Sbuffano, hanno fame come noi e sono più nervosi, perchè costretti a stare doppiamente attenti, devono contarci sempre almeno due volte e accade spesso che i due conteggi diano risultati diversi. Allora si innervosiscono ancora di più e partono i primi colpi. Ci devono ricontare daccapo, mentre ci spingono con violenza con il calcio dei fucili. Ci ammassano tutt’insieme e alle minacce seguono sempre le botte sulla testa e sui fianchi. Quando ci mettono in fila il loro odio è pari al nostro, sono pagati poco e per il più infame dei lavori, maltrattare fra tutti gli esseri umani, i più simili a loro. Pensano che a quell’ora dovevano essere già di ritorno a casa, dalle loro famiglie, altre carceri, ma con pretese di normalità. Capitò durante l’ultima conta, c’era un po’ di cagnara e le guardie ci avevano già messi in fila altre due volte. Posarono i moschetti a terra, i berretti unti di sudore erano gettati all’indietro, i fazzoletti erano sporchi da fare schifo; capitò durante quell’ultima conta. Io e il Toscano, col quale nessuno aveva legato né parlato mai e che se ne stava sempre alla larga da tutti, ci guardammo negli occhi e disubbidimmo al terzo comandamento, quello che le guardie temevano di più: non organizzare risse. Cominciammo a gridare e a insultarci: fizz’e bagassa, deo ti occo, testa de hazzo, hoglione, burdu chi no ses atteru, t’aberzo sa ula, cane. Cominciammo a darcele e gli altri compagni proseguirono per noi che immediatamente ci acquattammo a terra. Tutti ci coprivano, la confusione era grande. Le guardie intervennero, alzando le canne dei moschetti, urlando: “ Branco di pezzenti schifosi, corros de furcas, animas de s’ifferru”. La cosa finì lì, non ebbero la forza di ricontarci e noi iniziammo a strisciare lentamente come serpenti verso il muretto più basso. Rimanemmo immobili, in silenzio, per almeno due ore. Sentivo il respiro regolare dell’altro. Quando del sole e del giorno non rimase più niente e una grande luna pallida si era fatta largo in mezzo all’oscurità, tingendo d’argento il mare e gli alberi, iniziammo a muoverci. Eravamo ebbri di paura. Il mio compagno mi toccò per primo, sul braccio. Me lo tirò piano e mi indicò laggiù, verso le luci di Civitavecchia che ardevano calme, soffocate dal canto dei grilli e dalle stelle, a migliaia. Le luci di Civitavecchia erano un richiamo fortissimo. Lì avremmo trovato abiti nuovi, avremmo raggiunto il porto e imbarcarci non sarebbe stato difficile, nessuno fa troppe domande di questi tempi. Saremmo potuti fuggire lontano, definitivamente lontano. Cominciammo a correre, in mezzo alla campagna buia che da perfetta gentildonna non ci risparmiava né fossati, né buche o rovi. Ci fermammo a riposare, ansimavamo forte, i polmoni scoppiavano. Saranno state le tre di notte, la luna era già tramontata da un pezzo. Avevamo fatto un lungo percorso, o almeno così ci pareva. Tra corse, alternate a lunghi tratti di camminata veloce, avevamo senz’altro percorso un bel tratto. Dovevamo essere vicini al Mignone, il fiume che separa il territorio di Tarquinia da Civitavecchia. Fermi lì in mezzo alla campagna con la paura di non farcela e l’angoscia di essere ripresi mi resi conto che del mio compagno non sapevo niente.

La mia libertà, la mia stessa vita era appesa alla sua capacità di correre e orientarsi in mezzo alla campagna. Mai avevo sentito il bisogno di conoscere il suo nome, né quello di chiunque altro. In carcere non si sente questa esigenza. La tua vita dipende dagli altri carcerati, meno si parla meno si sa di te e questo è meglio per tutti. Gli altri prigionieri sanno perché ognuno è dentro e cosa ha commesso e quando il suo cervello ha preso fuoco e per chi, questo basta. Le distinzioni non vengono fatte in base a nient’altro che non sia il tuo delitto e la tua pena. Assassinio, rapina, gelosia, furto… trent’anni, vent’anni, cinque anni, si potrebbe continuare all’infinito. Ognuno di noi sa perfettamente che non possono esistere due delitti simili.  Caino uccise Abele, dicono, ma forse Abele non uccideva suo fratello con la perfezione del suo sacrificio? Non costringeva dio a schierarsi con l’agnello perfetto, pulito, senza macchia? Abele uccise Caino ogni giorno, lo costrinse ad una gara, ad una competizione priva di senso. Abele era già primo, suo fratello lo uccise una sola volta e pagò per sempre. Caino era lì accanto a me, oppresso come me, spaventato come me. Sentii il bisogno di conoscere il suo nome e di dirgli il mio, come un bene prezioso da scambiarci, come un testamento lasciato in mezzo alla macchia.

   Veniva da Orbetello, disse. Da un casolare misero nei dintorni di Orbetello. Malaria e fame, erano le costanti della giornata. Aveva ucciso un contadino che gli aveva negato una parte del suo raccolto. L’uomo lo aveva colto in flagrante con due sacchi pieni di grano e lui non aveva saputo spiegargli come mai se li stesse caricando e portando via. Non gli venne altra idea che spiegarglielo con un coltello, glielo infilò fino al manico dentro la pancia. Il contadino capì in un baleno. Il contratto che li unì fu svantaggioso per entrambi, il contadino perse tutto il suo raccolto e il mio amico, con i due sacchi di grano, perse anche la libertà. Raccontò tutto questo come se riguardasse un’altra persona, non lui. Come se tutta la sua esistenza precedente fosse stata cancellata in preparazione dell’unico evento degno di essere vissuto appieno, fuggire via di lì. Per andare dove, non era importante, probabilmente verso altri sacchi pieni di grano e altri cornuti di contadini da sventrare. Lui non era altrettanto curioso nei miei confronti e mi fece cenno di proseguire la marcia. Le luci di Civitavecchia erano sempre lì a farci da faro. Per un buon tratto camminammo stando attenti a fare meno rumore possibile, i cani delle tanche abbaiavano per un niente e avrebbero potuto segnalare la nostra presenza. Camminare piano dovevamo, evitare le case e stare attenti a non romperci le ossa o a non impigliarci nei rovi. Quando entrammo in una macchia alta e profonda priva di abitazioni riprendemmo a correre, eravamo arrivati al Mignone e già le prime canne ci annunciavano il territorio di Civitavecchia. Lì ci fermammo a riposare, le spalle appoggiate l’una all’altra, gli occhi sgranati frugavano ogni segnale nel buio fitto della notte. Rallentammo il ritmo della nostra paura e  respirammo boccate d’aria umida. Misuravamo la distanza che ci rimaneva ancora da percorrere e, per la prima volta, iniziammo a pensare che ce l’avremmo potuta fare. Sotto le camicie avevamo nascosto pezzi di pane e formaggio, li tirammo fuori e cominciammo a mangiare.

     Fu allora che ci si gelò il sangue nelle vene e ci si bloccò il respiro in gola. Il latrare in lontananza dei cani ci raccontò di facce scure che erano state tirate giù dai letti; di baffi duri come l’acciaio puntati verso di noi; di fucili spianati affamati di fuoco. Ci alzammo e con quanta energia e coraggio avevamo in corpo iniziammo a correre come disperati verso il primo guado del fiume. Lui mi indicò a sinistra, “non andare in direzione del mare,” mi disse, “non andare verso il mare” e si allontanò, gettandosi in mezzo al canneto, lasciandomi solo. Sparì nel buio e lo persi di vista, gridai piano, lo chiamai, ma non ebbi nessuna risposta. Era sparito. Proseguii dritto verso le luci accese di Civitavecchia, raggiunsi il fiume e mi fermai dietro un grande masso per riprendere fiato. Sentii in lontananza le prime voci e l’abbaiare dei cani. Corsi ancora, come potevo, cadendo e rialzandomi. Mi immersi nel fiume e per un tratto avanzai strisciando nel fango e nell’acqua, aggrappandomi alle canne ed ai cespugli. Sentivo le mani bruciarmi per le ferite, i piedi erano tagliati dai sassi. Trovai un’apertura tra le canne e mi ci infilai. Il cuore batteva come pazzo e pensavo che le guardie e i cani prima di loro l’avrebbero sentito, coro frimmadi! pensai nella mia lingua, no t’assuconen lunghes, né ischuru ‘e notte, né alloroscare de canes. Frimmadi coro, alloroscare de canes, né ischuru de notte t’assuconen lunghes. Reposa inoghe, mudu e tancadu, senza pasu né boghe, senza ‘oghe né pasu , coro meu inserradu. Né alloroscare de canes, né ischuru’e notte ti tocchen, né lughes attesas, mudu e tancadu, inoghe reposa. Senza pasu né boghe, inserradu meu coro. Il latrare dei cani era vicinissimo e le voci delle guardie ringhiavano a poche decine di metri da me. Improvvisamente, poco più lontano, sentii due detonazioni secche, due brevi lampi che rischiararono il cammino al mio amico, verso il contadino che aveva spanciato e che, da tempo, lo attendeva nell’aldilà, impaziente davanti alla porta dell’inferno, col coltello ancora piantato dritto nel ventre, ché non avesse da inciampare o sbagliare entrata. Deus de misericordia perdonanos a tottu, gridai dentro di me. I cani latravano sempre più forte, sentivano il mio odore e la mia paura. Contrassi forte i muscoli del viso, digrignai i denti e strinsi gli occhi fino a farmeli dolere. Aprii la bocca e allargai la gola preparandola all’urlo. Riempii i polmoni con tutta l’aria di quella notte e risucchiai il fiume, il canneto, le luci lontane e tremule di Civitavecchia, le stelle, il maestro e sua figlia del cazzo, mia madre schifosa e mio padre coglione. Risucchiai tutto il sale che avevamo ammucchiato alle saline, le vasche con tutta la merda di quegli uccellacci; inghiottii il carcere, le guardie fottute e tutte quelle caras de porcos del villaggio, i bambini viziati e crudeli; aspirai per l’ultima volta l’odore acre dei capelli di quell’unica donna e quando rilasciai l’aria tutto uscì fuori in un grido che maledisse ogni cosa, dio, il mondo, l’intero genere umano. Mi preparai questo bel biglietto da visita da dare a belzebù all’entrata del gran ballo in maschera. Aaaaaaaaaaaaaaahhhhhh!

   Quando arrivai davanti al Mignone, vidi Civitavecchia in lontananza brillare quieta. Le sue luci ballonzolavano molli nel buio tutt’intorno. Volpi, cani randagi, gatti selvatici, istrici spinose e tutti gli altri animali della notte che passavano nei paraggi si mettevano al sicuro presentendo odore di rovina. Il fiume scorreva lento com’è costume di un piccolo corso d’acqua nel cuore della notte, ignaro del delitto che stava per compiersi nelle sue acque nere. Il canneto poteva nascondermi ancora per un po’. Alcune bilance di pescatori di anguille erano tese sopra il fiume. Tirai fuori un pezzo di pane dalla camicia, era bagnato e lo divorai in preda al panico. Quando sentii i cani arrivare, con quel loro rincorrere arruffato, avevo ancora l’ultimo boccone in gola. Uno di essi irruppe senza chiedere permesso. Spalancò il canneto con tutta la forza della sua fame. Mi fissò negli occhi e digrignò i denti spaventato, poi mi si avventò sulla camicia e prese a tirarla e a strapparla. I suoi denti volevano arrivare fino alla carne, ma io tiravo e strattonavo forte. Presi a colpirlo con violenza e disperazione, con pugni e calci, gli conficcai i denti nella gola e strinsi forte senza mollare. La bestia ringhiava e guaiva, sentivo la bocca asciutta dal terrore, poi vidi un lampo improvviso e accecante che mi annientò, facendomi volare all’indietro con le gambe per aria. Caddi in acqua e la corrente mi trascinò via. L’impatto con l’acqua fredda lenì per un attimo il dolore della ferita e calmò lo spavento provocatomi dalla fucilata in pieno petto. Sentivo il sangue che usciva e si mescolava con l’acqua fangosa del fiume. Quell’acqua putrida che si mescolava al mio sangue e ne invadeva il posto dentro le vene. Mi svuotavo e mi riempivo nello stesso tempo. La vita fuggiva, cercavo di trattenerla con le mani e con i denti. Chiudevo tutti i miei orifizi, stringevo i pugni e non respiravo. L’acqua di fango, fredda e molle si sostituiva alla mia vita. Le mie membra mutavano, si adattavano al fiume e allo squarcio del tutto nuovo e rosso che avevo nel petto. Mi acquattai come facevo da piccolo, quando mio padre chiamava a gran voce  il mio nome e sentivo lo schioccare della cinta dei suoi pantaloni. Mi rannicchiai, come quando mia madre cantava e io mi fermavo ad ascoltarla. Il fango e l’acqua del fiume continuavano a entrare dentro lo squarcio della ferita, mentre sentivo la vita uscire. Mi stavo trasformando, sarei potuto diventare pesce o anguilla e fuggire dal fiume verso il mare grande. Ce l’avrei fatta, sapevo che potevo cambiare natura e aspetto. Mi sentivo leggero e freddo e forse anche la pelle cominciava a essere già più viscida. Sicuro, mi stavo trasformando in un pesce e il mare era lì a pochi metri.  Nuotavo rapido e veloce adesso che potevo. Sentivo le mani trasformarsi in agili pinne e tra dito e dito una leggera membrana andava formandosi. Il corpo si muoveva agile e tutti i movimenti erano perfettamente sincronizzati.  Scivolavo senza difficoltà e un nuovo istinto, animalesco ed essenziale, si stava formando. Un istinto che mi trascinava verso il sale, verso il mare, verso l’acqua cristallina del grande Mare Nostro, azzurro di acqua profonda e pulita. Nuotare rapido e veloce adesso che potevo, verso il sole che tramonta a ovest, dove si ricongiunge col mare. Tutte le terre che sposano il sole al tramonto col proprio mare sono dolci e facili da amare. Pesce ero, un’agile murena, un sarago argentato, un terribile pesce spada con occhi d’acqua e cuore in tumulto.Tornare a casa, di là del mare, non mi sarebbe stato difficile. L’acqua avrebbe ripreso a lambirmi i piedi. Nuotavo veloce e sicuro, scivolavo rapido nell’acqua salata. Deus de sos pisches e de tottu su mare mannu salidu, agiùami! Mi sentivo leggero, come il falco o l’astòre, che sfrutta le correnti ascensionali dell’aria calda, lassù nel cielo, padrone di tutto. Con lo sguardo abbracciavo terra e mare e nuvole. L’aria frizzante mi faceva dolere il petto e dai margini slabbrati della ferita la vita stessa se ne fuggiva. Come il nibbio volavo alto e attraversavo il mare, mi rituffavo in acqua, ancora pesce e ancora falco, rivolavo nel cielo, oltre le nuvole fatte di schiuma bianca.  Ritrovai terra e la attraversai ancora. Iniziai a sentire i suoni a me familiari di una lingua antica e fiera e grida di bambini che ancora giocavano gioiosamente alla guerra. Sentivo l’odore di erbe selvatiche, di more rugginose impastate di polvere e frutta rubata ai contadini. Uva, ciliegie, fichi maturi e bianchi, spaccati in mezzo come la ferita che mi stava uccidendo. Sentivo il latte aspro dell’albero sotto cui non si deve riposare mai alla sua ombra e il latrare, continuo e terribile, dei cani aizzati dalle bestemmie dei loro padroni. Dall’alto rividi la miniera della mia infanzia e mio padre, bello e sorridente, che ci faceva volare con le sue braccia forti e con le mani e il viso finalmente bianchi e puliti, non ancora offesi dal carbone che chiude la pelle e uccide peggio delle guardie. Mia madre era già affacciata sull’uscio di casa col fazzoletto sciolto lasciato cadere sulle spalle bianche.  Era giovane e innamorata e il suo ventre non aveva conosciuto ancora il peso dei figli. I suoi gesti erano leggeri e femminili e si proteggeva gli occhi mentre guardava il sole che tramontava oltre il mare. Giocava nervosamente con un pettine d’osso che teneva fra i capelli neri e sorrideva a quel giovane uomo che mi faceva volare in alto nel cielo. Cantilenava una filastrocca in italiano che mi faceva sempre paura da bambino. Lei sorrideva e quando alla fine diceva aaahm! gridava forte grattandomi la pancia. Io strillavo e lei cominciava a ridere. Poi con un gesto stanco si portò le mani alla bocca e respirò profondamente. Tossì e la ferita che aveva nel petto le fece ancora più male e da essa uscì fango e acqua e ancora fango, ma pareva non preoccuparsene più, perchè con voce alta e limpida gridò, a tutti i bambini del mondo che mio padre e il mio maestro le avrebbero cacciato nel grembo, ...  Mela cootta e mela cruua, ognuunu a domo suaa... , Pioe pioe, maschera ‘e boe maschera ‘e bentu... , ninna oh, ninna oh...   Dall’alto vidi le guardie che afferravano il mio corpo con un bastone che aveva in cima un gancio, prestito anonimo dei pescatori con la bilancia. Quando mi tirarono a riva bestemmiavano e sbuffavano per la fatica, maledicevano dio, il mondo le loro madri e quel mestiere dell’affanculo che dovevano fare per mandare a scuola i loro figli. Il mio corpo era fradicio. L’acqua salata delle mie lacrime e del sudore si mescolò a quella dolce del fiume. Questo è quell’altro pezzo di merda, dissero le guardie, poco prima che il secondo colpo di fucile, sparato da breve distanza in piena faccia, restituisse gli ultimi brandelli della mia anima al suo antico proprietario.  Ma questo non aveva più alcun potere di ferirmi, perché ero a casa ormai, definitivamente a casa.

Liberami, Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo. Quando cieli e terra saranno sconvolti e tu verrai a giudicare il mondo col fuoco. Tutto tremante io sono, e atterrito, al pensiero del giudizio e della collera imminente. Quando cieli e terra saranno sconvolti. Giorno d'ira quel giorno, di rovina e di miseria, giorno grande e pieno d'amarezza.

 

 
 
 

FRAGILE Volo

Post n°92 pubblicato il 27 Aprile 2012 da alex.canu

 

 

 

   Il mio vicino di casa è sempre uscito in silenzio dal suo appartamento. Se sentiva la nostra porta che si apriva aspettava muto, dietro il suo uscio, tenendo la maniglia, in attesa che noi scendessimo le scale, dopo, con passo di granchio, tenendosi al muro scendeva  anche lui. Tre piani fatti con una mano in tasca, gli occhiali scuri e una tosse che rimbombava secca e cocciuta. Salutava con evidente impaccio, portando leggermente indietro la spalla per non lasciarsi toccare. Guadagnava il portone e sgattaiolava fuori, all'aperto, dove aveva sempre vissuto, in compagnia di ogni sorta di animale selvatico, mimetizzandosi con l'asfalto della strada, con la terra e le foglie secche sotto gli alberi, con le panchine scrostate, coperte di scritte e disegni osceni, nelle quali scompariva, solo. Portava occhiali scuri, troppo grandi per il suo volto affilato, così simile a quello dei poeti stanchi. Non se li toglieva neppure durante le fredde giornate invernali, quando usciva con la pioggia e rimaneva sotto qualche albero in attesa che spiovesse.  Ieri come al solito è uscito, mentre eravamo tutti presi dal pranzo di una pasquetta troppo ventosa per trascorrerla all'aperto. Ma ieri non è uscito dalla porta, come al solito, ha scavalcato la sua finestra a tre metri dal nostro pranzo e si è lasciato cadere, nove metri in silenzio, l'ultimo suo viaggio di appena tre secondi, nel luogo più lontano dalla sua vita, dove non era mai stato. Ha messo in ordine due chiavi sul tavolino, come testamento, come estremo insulto a tutti noi. Immagino la fatica del suo ultimo sguardo, le dita impazzite ancora aggrappate alla finestra, avrà pensato che è solo la mente che si vuole uccidere, ma che i piedi, le gambe o i polmoni sono ancora avidi di vita. Avrà tirato l'ultimo respiro e avrà pensato che non ha mai imparato a tuffarsi con eleganza. Mi dispiace che l'ultima cosa che ha sentito del mondo siano state le nostre risate, i consigli di cucina del nostro televisore lasciato acceso, gli amici ospiti al nostro pranzo che sceglievano una musica e il rumore di posate a lui estranee. Si chiamava Guerriero e per due ore è rimasto buttato per terra a pochi metri dalla nostra piccola festa familiare, nell'unico spazio lasciato vuoto tra le nostre autovetture proprio sotto la sua finestra. La macchina del figlio in campagna a mangiare con gli amici, il sangue coagulato sui suoi capelli bianchi, un filo sulla bocca e altro ancora raggrumato nell'orecchio, come un tappo, nient'altro. Anche il suo sangue si è rifiutato di abbandonarlo. L'abbiamo trovato così, con gli occhi ancora aperti che guardavano verso la ruota del nostro vicino, come se non ne capisse il senso e tutto quanto, come la vita, gli sfuggisse. L'abbiamo coperto con un lenzuolo e qualcuno ha allontanato i nostri bambini, deviando la loro incredulità, con risposte rapide, non richieste. Dopo, le grida, i pianti, i carabinieri con i loro verbali sgrammaticati, la morte, quella vera. Ora una macchia irregolare resiste testarda sotto le ruote delle macchine parcheggiate, un pezzo d'asfalto appena più scuro, una cartina geografica strappata, mio figlio ha detto, guarda sembra l'Australia. Nessuno ha pensato di posarvi un fiore, neppure io, nessuno ha applaudito al suo funerale, alla riunione di condominio nessuno ha proposto un minuto di silenzio. Guerriero, chi?

 
 
 

FRAGILE: Nicole

Post n°91 pubblicato il 29 Marzo 2012 da alex.canu

Nicole

 

 

 

 Ogni anno, il giorno del mio compleanno, mi chiama Nicole, solitamente la sera. A volte mi coglie del tutto impreparato e io dico, Nicole chi?, ma lei non si offende, o perlomeno non lo da a vedere. Mi ha chiamato sempre in questi ultimi dieci anni, ma io non l'ho vista mai, non so proprio che faccia abbia ne come sia fatta, se è alta, magra, coi capelli biondi o scuri. Per quel che ne so potrebbe anche non essere quello che dice, potrebbe non esistere affatto. E`come se fosse morta quindici anni fa, ma la sua voce arrivasse solo ora, come certe stelle che non esistono più la cui luce ci arriva adesso attraversando gli spazi immensi e bui dell'universo. Puntuale ogni anno squilla il telefono e dice, ciao sono Nicole, come se mi avesse telefonato il giorno prima e fossimo rimasti d'accordo che ci saremmo risentiti oggi. Mi è successo che per qualche motivo mi fossi dimenticato del compleanno, ma la sua telefonata suona come una scadenza, ricordati che oggi sei più grande, guardo il calendario e dico, è vero oggi è proprio il mio compleanno! Tre anni fa mi ha tenuto al telefono per oltre un'ora, lei non parla molto, si chiude in lunghi silenzi che provvedo io a riempire con l'imbarazzo della mia unica domanda che stenta a uscire, Nicole, perchè mi chiami una volta all'anno per farmi gli auguri? ma questa domanda forse non gliela farò mai. Avevo appena traslocato in un appartamento di appena cinquanta metri quadri che un amico mi aveva lasciato per qualche mese a disposizione, quando una sera squilla il telefono e sento questa vocina di sagrestia che dice, sei tu? Io chi? rispondo, chi cerchi? Mi ripete il numero di telefono e mi dice, non è tuo questo? Si, le dico è proprio il mio, ma tu chi cerchi? sono Nicole, mi dice, adesso ci stai tu li? Sto quì da qualche giorno finchè non trovo qualche altra sistemazione, trovare un appartamento in affitto non è facile. No, conviene lei dopo un attimo di silenzio, però l'hai trovato. Già, ma lo potrò tenere per qualche mese appena. Scusami se ti ho disturbato, forse stavi facendo qualcosa di importante; non stavo facendo proprio niente di importante, la rassicuro, stavo solo preparando qualcosa da mangiare e aprivo una bottiglia di vino perchè oggi è il mio compleanno. Ah, dice lei con una voce atona, simulando sorpresa per quella coincidenza, allora tanti auguri, grazie rispondo cercando di metterci un po' di entusiasmo. La telefonata andò avanti per almeno un ora, lei mi disse che non faceva nulla di speciale, però le piacevano le navi e il mare, io le dissi che spesso avevo viaggiato in nave e lei rispose che mi invidiava. Poi la sua voce si spense atrofizzandosi nella cornetta e io mi domandai se non mi ero immaginato tutto. Finii di cucinare e di mangiare che era già tardi e per quella notte la cena mi rimase sullo stomaco. 

   Ci siamo dati subito del tu, non so perchè, ma è così che abbiamo iniziato. Quando mi telefona mi parla del padre, delle medicine che gli deve ricordare di prendere, mi dice che è costretta a scrivergli i giorni e gli orari sopra la scatola, ma non mi è sembrata mai arrabbiata o stanca. Lo va a trovare il pomeriggio tardi e si accerta che lui abbia preso tutte le pillole colorate che gli ha messo sopra una mensola dove tiene tutti i medicinali. Dice questo con un tono di voce neutro, come a dire, è così no? Che altro si può fare? Io le ho detto che è meglio se tutte quelle pasticche le conserva in un luogo più asciutto, per il fatto della scadenza, le ho detto. Non sapevo che altro inventarmi, ma le volevo far sentire che il problema del padre lo capivo.

    L'anno scorso stavo in bagno quando è squillato il telefono, ho pensato subito questa è Nicole che mi chiama. Tutti gli altri mi avevano già fatto gli auguri per mail o su uno dei network a cui stiamo aggrappati. Mancava solo lei e ho creduto che almeno per quell'anno si fosse dimenticata di me, oppure che fosse stufa di questa storia della telefonata una volta all'anno. Stavo in bagno dicevo e squilla il telefono, dico ciao Nicole sei tu? Pronto? fa lei con la sua vocina di cartapesta e rimane in attesa che io aggiunga tutto il resto a riempire il niente su cui si basa la sua telefonata. Come va Nicole? ma avrei voluto chiederle, quanti anni hai, come sei fatta? invece le dissi solamente, come stai? Così, disse lei, quest'anno mi hanno proposto d'imbarcarmi per cinque mesi, mi hanno offerto un posto come cameriera alle stanze in una grossa nave da crociera che va nelle filippine, in india, visiterei un sacco di posti strani, ho dovuto guardare sul mappamondo per capire dove si trovano, perchè di molti di essi non ne conoscevo neppure l'esistenza. Bene! Le ho risposto, mi pare un'ottima occasione per viaggiare, conoscere posti nuovi e guadagnare qualcosa. Già, ha risposto lei, però non so se potrò farlo. Perchè no? le ho chiesto, per via del bambino, mi dice lei con un tono piatto da minestrina, privo di ansia, ha solo tre anni e non saprei a chi lasciarlo. Hai un bambino? le ho chiesto, non lo sapevo, non ricordo che me ne avessi parlato. Non credo neanche io di avertene mai parlato, beh sono tre anni che gli sto dietro è un bambino buono non si nota neppure la sua presenza, sta sempre calmo e tranquillo, meglio di così non potevo sperare. Lascialo al padre, le dico, ce l’avrà pure un padre che si prenda cura di lui. La voce opaca-orfanotrofica di Nicole mi annuncia che il padre non ce l’ha mai avuto, non so chi sia, mi dice, in tutta sincerità non so chi possa essere il padre di questo bambino, è per questo che non ne parlo mai volentieri, ho provato a dirlo ad un tizio con cui mi ero vista qualche volta se non poteva essere lui, ma lui mi ha detto che proprio non era possibile. Guardalo, diceva, sembra scemo tuo figlio, ha la faccia da ritardato, non potrei essere io il padre di questa scimmia. Mio figlio, è vero, rimane per ore imbambolato davanti alle apine che gli girano sopra la testa, quando gliele levo si mette subito a piangere e allora gli accendo la televisione e lui la mette ad un volume così alto che farebbe impazzire chiunque, ma è come se non la vedesse affatto. Seduto sulla tazza del water in bagno mi stavo raffreddando, avevo spento la ventola di riscaldamento perché faceva rumore e lei avrebbe capito che stavo telefonando da lì. Avrebbe potuto chiedermelo ed io mi sarei trovato in imbarazzo a doverlo ammettere. Stavo per riaccendere la ventola, magari mettendola al minimo, quando lei con la sua vocetta di carta igienica mi fa, non lo potresti tenere tu il mio bambino finchè non torno? Non ha problemi, ha fatto tutti i vaccini necessari, magari lo porti al nido li da te e lo vai a riprendere il pomeriggio alle quattro. Lui non si accorgerebbe nemmeno che la sua mamma non c’è. No Nicole, le ho detto, non posso prendermi cura del tuo bambino. Sentivo che le avrei dovuto dare delle spiegazioni, detto così mi pareva un rifiuto troppo secco, dettato magari dalla diffidenza o dalla voglia di non avere altre grane, ma lei accennando  una smorfia che voleva essere un sorriso mi disse, non ti preoccupare chiederò a qualcun altro, oppure non partirò affatto per quel lavoro. E invece no, non dovresti rinunciare ad una offerta così importante, potrebbe non ricapitarti mai più, le dissi con un tono da libretto delle istruzioni, sentendomi un vigliacco. In qualche modo andrà, mi disse con la sua vocina polverosa, senza un filo di rimprovero. Allora, ancora buon compleanno, mi disse, con una buffa inflessione della voce, quindi fece partire una canzoncina che poteva essere della suoneria del suo telefonino e che grattava una campionatura metallica di tanti auguri a te. Grazie, le dissi ancora. Ciao, allora ci risentiamo il prossimo anno, infilò nella cornetta, imitando un tono glamour da previsione meteo. Non mi chiedi quanti anni ho compiuto? le domandai, ma già aveva riattaccato e sentii il segnale di occupato del suo telefono.

   Oggi è mio compleanno, sempre meno persone mi fanno gli auguri, ma d’altra parte neanche io lo faccio. Ho appena finito di guardare distrattamente un film in televisione che mi ha trascinato fino alle undici e tre quarti e sto per andare a dormire, quando il telefono squilla, Nicole?, dico. Pensavo che quest'anno l'avresti saltato, guardavo un film in tivù non pensavo di fare così tardi. Non sono Nicole, mi dice una voce da pastiglie di vecchio dall’altra parte del filo, ho trovato questo numero scritto a penna su una delle scatole delle mie medicine, lei è per caso un medico? No, dico io, non sono un medico, ma Nicole non è in casa? Quello finge di non aver sentito e mi dice con una punta di veleno, mi ha lasciato il bambino, adesso ha quattro anni, ma è come se avesse quattro mesi. Sta tutto il giorno con la faccia schiacciata sullo schermo della televisione e lo lecca e cerca di afferrare le figure che ci passano dentro, io sono stato costretto a comprarne un altro e a tenerlo chiuso in camera da letto. Sicuro che lei non è un medico? mi ripete concedendo il bis, perché Nicole mi ha lasciato questo numero sulla scatola delle medicine, con la data di oggi. Lei lo sa perché l'ha scritto quassù? Non saprei proprio cosa dirle, gli rispondo io con tono da impiegato postale, ma oggi se le interessa è il mio compleanno, ho compiuto… 

Dall’altro capo del telefono una voce da 5000 megahertz di bambino grida, poi sento un tonfo, mi arriva il rumore disturbato del filo strappato e la comunicazione si interrompe di colpo. Nicole si è imbarcata, mi dico ad alta voce con tono di risacca marina. 

 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Psycho (Il volto della vita) parte I.

Post n°90 pubblicato il 18 Febbraio 2012 da alex.canu
 

 

Psycho

(Il volto della vita)

Parte I.

 

 

     E`inutile che vi dica il mio nome, quì dove mi trovo ora non serve. Un numero, scritto su un foglio di carta è sufficiente per darci un’identità. La stanza che occupo non ha niente a che vedere con l’ufficio elegante e luminoso, dove mi sedevo comodamente nella poltrona di pelle. Le pareti della cella sono bianche, ma non è la stessa cosa. Lo spioncino sulla porta si apre tre volte al giorno e due occhi azzurri mi osservano. Questa è la mia storia, per chi ha voglia di sentirla. L’agenzia immobiliare, dove ho lavorato per tanti anni, non la troverete certamente sulle pagine gialle o sull’elenco del telefono. Non ha uffici che danno sulla strada, tra un negozio di abbigliamento e una pizzeria al taglio. I nostri uffici si trovano al terzo piano di un elegante palazzo e non c’è nessuna porta in legno massiccio che chiuda le otto stanze che danno direttamente sul corridoio dove un comodo e ampio ascensore va sempre su e giù senza fermarsi mai. Una lastra di cristallo scorrevole vi accoglie, producendosi discretamente in un impercettibile ronzio. Non si tratta di una semplice agenzia immobiliare, la nostra si occupa esclusivamente di intermediazione tra chi vende e chi compra edifici molto particolari. Grandi palazzi adatti ad uffici o per ministeri, oppure di dimore nobiliari d’epoca o grandi strutture alberghiere. Abbiamo acquistato un intero quartiere nel centro storico di una città sul baltico mentre il muro di Berlino crollava. Quando tutti cantavano mano nella mano, noi eravamo già operativi sul posto, conoscendo palmo a palmo le strade giuste e i palazzi che potevamo acquistare a prezzi più che stracciati. Avevamo una visione, per così dire, catastale dei grandi sconvolgimenti che, in quegli anni, ridisegnavano la cartina politica dell’Europa. I meravigliosi palazzi in puro stile liberty, progettati e costruiti dal padre architetto del grande regista russo Eizenstein. Ce li aggiudicammo per niente, dopo trattative frettolose condotte con amministratori locali compiacenti. Sfrattammo la povera gente che ci aveva vissuto dentro rovinando stucchi, vetrate, corrimani in legno di ciliegio, ringhiere di scale in ferro battuto e pavimenti, con ancora i disegni e i mattoni originali. Restaurammo tutto e vendemmo interi quartieri a prestanome di uomini d’affari, sulla cui integrità morale non ci ponemmo eccessive domande. 

   Il mio ufficio si trovava dentro una stanza luminosa, le cui ampie vetrate davano su di un piccolo spazio verde, incassato tra due alti palazzi interamente adibiti ad uffici. Quando aprivo la finestra, nelle belle giornate di sole o quando l’aria era spazzata dal vento freddo di tramontana, si respirava un’aria leggera e frizzante che mi dava gusto. Fissavo i pochi alberi del giardino e respiravo a pieni polmoni, come se mi trovassi in villeggiatura in una stazione di montagna. Poco oltre potevo intravedere la città allargarsi come una enorme macchia fatta di cemento, vetro e luce, spezzata a tratti da sprazzi di verde scuro e dalla lucente sinuosità delle rotaie dei tram cittadini. Occupavo una scrivania in metallo, con un ampio piano fatto di cristallo, perennemente ingombra di carte, atti notarili, rogiti, perizie. Allegati con fotografie di palazzi meravigliosi e lontani, da restaurare o già pronti per essere consegnati a società finanziarie, banche o grandi compagnie assicurative e multinazionali. Dividevo l’ufficio con un collega che occupava una scrivania identica alla mia. Stesse carte ammucchiate sul piano, stesso produttivo disordine, con in più un personal computer su cui memorizzava perizie tecniche e conti complicatissimi. Lui si occupava dei progetti di ristrutturazione degli immobili e io quantificavo i costi e pianificavo la tempistica dei lavori. Lui si interessava, per così dire, dell’involucro esterno ed interno degli immobili e io bandivo le gare d’appalto per le ditte che avrebbero eseguito materialmente i lavori. Il mio collega di lavoro era più alto e robusto di me, si muoveva lentamente e con una indolenza che ne aumentava la capacità di concentrazione sui delicati calcoli che doveva eseguire. Portava degli occhiali da vista con una montatura leggerissima che quasi scomparivano sul suo faccione bonario. Perdeva vistosamente i capelli e gli pendeva un doppio mento che tentava di nascondere lasciandosi crescere una barbetta ispida che gli copriva per metà il nodo della cravatta. Aveva un nome comune, che non vale certo qui la pena di ricordare, era apprezzato per essere un tipo silenzioso ed efficiente. Le lenti degli occhiali riflettevano lo schermo del suo computer, sempre in azione e sul tavolo allineava, secondo un suo disegno imperscrutabile, pile di dischetti numerati con ordine estremo e maniacale. Era sposato e sul tavolo in mezzo a tutta quella montagna di fogli riusciva a guadagnare un angolino anche per un paio di foto in cornice della sua famiglia, tra le quali spiccava una ritratto di sua figlia ancora adolescente.

   Io invece non sono sposato, ma ritengo di essere ugualmente una persona affidabile e moralmente irreprensibile. I miei princìpi sono solidi e ho ricevuto una educazione severa, ma giusta. Tengo molto alla cura della mia forma fisica e frequentavo con regolarità, per due volte alla settimana, una palestra convenzionata con la nostra azienda. La domenica mattina mi concedevo una lunga nuotata in piscina, sciogliendo così le tensioni accumulate nei giorni di lavoro, diluendole nell’acqua che sa di cloro. Posso dire di avere un aspetto gradevole, ma ho una doppia cicatrice sul labbro superiore, risultato di una complessa e articolata serie di operazioni che feci da bambino per una labiopalatoschisi bilaterale. Si tratta di una malformazione congenita causata, pare, dal fatto che mia madre durante la gravidanza non tenne nel dovuto conto la corretta assunzione dell’acido folico. Lei si aspettava un bel bambolotto, visto che tutto era filato liscio, era giovane e io ero il suo primo figlio. Si aspettava grandi cose dalla sua prima esperienza di maternità. Erano tutti eccitati e felici quando lei entrò in ospedale. Mio padre trasportò la piccola valigia che era già pronta da diverse settimane con i suoi effetti personali e il mio primo corredino. Di li a qualche giorno iniziò il travaglio e lei affrontò con determinazione anche questo momento. Si aggrappò ad una maniglia lucida di alluminio e soffiò forte con la bocca e le narici dilatate, strappandosi dei lamenti che voleva contenere mentre guardava giù verso le sue pantofole, soffrendo e gioendo contemporaneamente. Il travaglio sembrava non dover finire più, lei era stremata e io ancora non mi decidevo a mettermi nella giusta posizione per uscire fuori di li. Quando finalmente giunse anche per me l’ora x e si decisero a tirarmi fuori, mia madre udì nettamente la voce dell’infermiera che mi teneva fra le sue mani, dire al ginecologo responsabile del parto: - Guardi dottore, ne abbiamo un altro con la bocca spaccata! Mia madre ebbe la forza di tirarsi su appena un poco e con un filo di voce che le raschiava in gola disse qualcosa all’infermiera. Questa si avvicinò e le disse di non preoccuparsi, che tutto era andato bene, che era stata bravissima e che il bambino stava benone. Era un maschietto, ma... A quel ma mia madre si allarmò aggrappandosi al letto e, con la voce strozzata dalla stanchezza, disse: - Che ha il bambino, non sta bene? -Ma si- disse l’infermiera, -non ti preoccupare, solo che il bambino è nato con una leggera malformazione al palato e al labbro superiore. Cercò di mettere in questa breve informazione quanto più tatto e umanità possibile, ma questo servì ad allarmarla ancora di più. L’infermiera le chiese se voleva vedere il bambino, lei esitò e venne scambiato per un assenso. Quando ebbero tagliato il cordone ombelicale, il dottore stesso mi portò in braccio e mi presentò a lei con uno spacco tale sulla bocca che la povera donna gridò così forte che la sentirono per tutto l’ospedale. Per qualche giorno si rifiutò di guardarmi e mio padre dovette tenersela stretta e carezzarle a lungo i capelli, per convincerla a riaccogliermi. Aggredivo con rabbia impotente i suoi capezzoli che profumavano di latte, ma niente o quasi riuscivo a prenderne perchè rigurgitava fuori dal naso. Il grosso taglio che avevo sul palato non mi permetteva di succhiare il latte, come fanno tutti gli altri bambini e mandarlo giù. Allora strillavo per quella fame disperata che non riuscivo ad appagare. Dovettero prendere l’impronta del mio palato e applicarmi una placca che chiudeva la fessura comunicante con il naso per impedire al latte di uscirne fuori. Era come succhiare da una cannuccia con tanti buchi. Quando compii quattro mesi mi operarono per la prima volta al palato molle e a otto subii il secondo intervento chirurgico per la chiusura totale del labbro superiore. Grazie a questa seconda operazione il mio volto perse il suo aspetto di piccola bestia ferita e divenne più armonioso. Iniziai a nutrirmi con più facilità e iniziai anche a reagire agli stimoli esterni con il sorriso. Rimasero quelle due cicatrici sul labbro però a ricordare a mia madre quel periodo di disperazione, il chirurgo non fu bravissimo. Crebbi, per il resto come qualunque altro bambino e, quando compii un anno e mezzo, il terzo intervento servì a chiudere definitivamente il palato duro e a restituirmi ad una vita normale. Naturalmente di tutto ciò io non conservo memoria alcuna, fu mio padre a raccontarmi tutto, con infinita pazienza e a più riprese, tra l’adolescenza e la mia prima gioventù. Poi pensò bene di morire e mia madre seppellì, con il corpo, anche il suo ricordo, semplicemente non accennando più a niente che potesse riguardarlo in prima persona. Fece sparire perfino le foto che lo ritraevano e si chiuse in un mutismo ostinato e rancoroso. Non gli perdonò mai di essere morto così presto lasciandola sola col mostro. Così mi chiamava. Per scherzo, diceva lei. 

   Sono stato figlio unico, dico sono stato perchè mia madre si rifiutò di mettere al mondo un secondo figlio. L’esperienza del primo fu giudicata sufficiente ad arginare qualsiasi altra ipotesi di maternità. Mio padre non seppe insistere o non volle, chissà, e si arrese con troppa facilità. Davanti alla muta ostinazione femminile gli uomini si sentono impotenti, come davanti ad un mistero di cui non se ne comprende il senso. Il no femminile in questi casi è cupo e categorico. Cercò gli altri figli che desiderava e che la moglie si rifiutava di dargli negli oltre due pacchetti di sigarette al giorno e se ne fumò così tante che finì con l’uccidersi. Le sigarette si fumarono lui e quando lo chiusero dentro la bara di legno laccato si intravedevano le sue dita intrecciate, ancora gialle di nicotina arrugginita. Quando lui morì io avevo appena compiuto diciassette anni. Una età adatta per incominciare a catalogare i propri ricordi o per seppellire quelli che non si desidera conservare. Mio padre apparteneva a questa seconda categoria, dico, a quelli che si desidera eliminare. Ecco come stanno le cose. Se ne andò mangiato da tutte quelle sigarette che si fumava ogni giorno e mi lasciò con quella madre che non seppe mai trovare il modo giusto per avvicinarsi a suo figlio. 

-Non dovette considerare vostro figlio come un bambino diverso dagli altri- diceva lo psicologo che mi aveva seguito fin dalla nascita. Io me ne stavo seduto sulla sedia di ferro smaltata di bianco, con le mani infilate sotto le cosce grassocce. Lasciavo penzolare le gambe agitandole avanti e indietro. Sentivo il cappottino stretto che mi tirava sui fianchi e intanto mi passavo la lingua sul palato e sulle due cicatrici sul labbro e mi dicevo che dalla vita avrei avuto tutto quello che avrei desiderato. Lo volevo fortemente. 

-Dategli la sicurezza di essere protetto, ma non viziatelo mai. Mettetelo subito a contatto con gli altri bambini suoi coetanei-, continuava a dire il dottore, -imparate ad essere pazienti, ma non arrendevoli. Sgridatelo come fareste con qualsiasi altro bambino e sappiategli dire di no. Siate animati da ottimismo e serenità. Immagino la faccia del medico e tutti gli sforzi che doveva sicuramente compiere per dire queste cose ovvie alla mamma e al babbo. Però immagino anche ciò che doveva pensare, dentro di se, nell’accorgersi della dolorosa assenza di amore in quella famiglia e, forse, lo comprendeva meglio dalle dita gialle di nicotina di mio padre. Quando uscivamo fuori dallo studio dello psicologo, la mamma mi prendeva per mano, strappandomi a quella sedia di metallo che nel frattempo avevo ben scaldato. Non diceva una parola, ma diventava più nervosa del solito e scaricava tutto il suo disappunto sulla mia mano che strattonava come un oggetto indesiderato, ma che bisognava recuperare. Il babbo rimaneva sempre leggermente indietro a frugarsi nelle tasche per cercare l’accendino di plastica e accendersi finalmente una sigaretta. Vedevo le scintille e poi la fiammella azzurrina, il primo sbuffo di fumo disperdersi nell’aria e la sua faccia cambiare espressione e rilassarsi lievemente. Ci seguiva rimanendo volutamente indietro di qualche passo, osservando sua moglie trascinarmi per la strada e, allora, tornava di nuovo scuro in volto, di nuovo solo e impotente. Vedevo il profilo duro di mia madre affrontare la strada e intuivo mio padre appena più dietro, li avrei uccisi entrambi in quel preciso momento, sapevo che avrei potuto farlo. 

   La prima volta che pensai seriamente a questa ipotesi fu all’uscita da una visita dallo psicologo. Tutta la famiglia era riunita al completo, mio padre era già in crisi d’astinenza dopo appena cinque minuti e dava segni di irrequietezza che faticava a reprimere. Quando ce ne andammo senza che io avessi aperto bocca, come al solito mia madre mi trascinò tirandomi per la mano. Camminando per strada incrociammo un gruppo di ragazzini che si fermarono a guardarci. Uno di loro diede di gomito agli altri e tutti si misero a ridere. Ridevano di me e sapevo che tutto dipendeva dal problema che avevo, da quelle strane cicatrici sul labbro che non piacevano a mia madre. Comunque sia, quando il babbo morì, lei si ostinò a curare la casa in modo maniacale. Sostituì le tende alle finestre e buttò via quelle vecchie che sapevano di anni e anni di fumo rappreso. Cambiò le federe e il rivestimento del grosso divano che avevamo in sala. Eliminò i tappeti e passò l’aspirapolvere con regolarità su ogni angolo della casa e sotto i grossi mobili sparsi dappertutto. Si ostinò a dare la cera ai pavimenti e mi costrinse ad usare quelle orrende pattine di feltro con le quali ci spostavamo nei corridoi e per le stanze, sembravamo affetti da una strana malattia che ci costringeva a strisciare in quel modo innaturale e goffo dentro casa nostra. Chiamò dei pittori a ritinteggiare le pareti e fece dare ad ogni stanza una tonalità pastello differente. Raramente chiedeva il mio parere sui cambiamenti che operava e decideva senza interpellarmi per qualsiasi questione e, a me tutto sommato, andava bene così. Quando iniziai questo nuovo lavoro trovai comodo che fosse la mamma ad occuparsi della casa e di tutto il resto. Qualsiasi decisione prendesse non opponevo la minima obiezione. La consideravo una bella fortuna, visto come andavano le cose a molti dei miei colleghi sposati. Li vedevo arrivare al lavoro con certe lune per traverso. Fregati, ecco quello che sembravano, dei fregati alla grande. Io me ne stavo al mio posto, non davo confidenza a nessuno e non ne chiedevo da nessuno, uomini o donne che fossero. La mia scrivania era sempre pulita, non dico ordinata, dico semplicemente pulita. Una spruzzatina di disinfettante ogni tanto, un panno morbido, via lo sporco. Dedico grande attenzione alla cura di ogni dettaglio del mio aspetto esteriore. Dobbiamo dare una sensazione di gradevolezza alle persone con cui abbiamo a che fare. Le relazioni di lavoro sono facilitate dall’aspetto piacevole di chi le conduce. La barba deve essere sempre ben rasata. Preferisco la schiuma gel a quella spray tradizionale e mai, mai usare la stessa lama per più di due volte. Attenzione alla lozione dopobarba, meglio neutra, che non contrasti col profumo scelto per il corpo. Adeguata attenzione deve essere prestata al taglio dei capelli che deve essere effettuato almeno una volta al mese e, se possibile, sempre dallo stesso barbiere. I pantaloni devono essere eleganti, ma non vistosi. E`la camicia però il particolare da cui si può veramente capire l’eleganza in un uomo. Deve essere di buona marca e fattura, avere colori tenui e rassicuranti. Meglio evitare camicie scure che mettono in crisi le cravatte. Il taglio del colletto è molto importante, non deve essere un’armatura che costringe il collo ad una rigidità innaturale, ma dovrebbe avvolgerlo discretamente. Se possibile evitarli di colore diverso dal resto della camicia. Le cravatte accompagnano ogni scelta dell’abbigliamento con discrezione, ma anche con quel pizzico di originalità e autoironia che deve sempre essere presente in ognuno di noi. Vanno abbinate con innocenza e vanità. E`dalla cravatta che si riconosce la profondità dell’animo di ogni uomo. Quando mi succede di conoscere persone nuove osservo, come prima cosa, la cravatta che portano e come la indossano. Fatelo anche voi, capirete molte più cose delle persone che avrete di fronte. Agli orologi non dedico eccessiva attenzione. Ritengo che siano un accessorio sopravvalutato, non servono assolutamente per controllare l’ora, sono dei bracciali al polso e, come tali, devono essere alternati, quanto più possibile, al polso e mai, comunque, indossare quelli in oro, suscitano diffidenza. Gli orologi si scelgono come le cravatte, con leggerezza, come un gioco e con un pizzico di ironia. Scarpe e cinture chiudono il percorso e su queste non si deve sbagliare, vale la pena di investire parte del proprio capitale. La scelta deve essere quanto più ampia possibile, diversificata a seconda del momento, della stagione, delle occasioni che la vita ci pone davanti. Per le occasioni di lavoro servono in pelle, sempre, calda e comoda. Non fumo, non ho mai fumato. La mamma non lo permetteva, per via del babbo, brutti ricordi, diceva lei. Fumava anche in camera da letto. Per questo motivo qualche volta rimaneva a dormire in camera con me dopo il bacio della buonanotte. Non amavo quei momenti, perchè con tono lamentoso mi sussurrava frasi all’orecchio del tipo: il mio bambino, il mio bambino sfortunato, convinta che io stessi dormendo. Non capivo ancora a cosa si riferisse, ma creava dentro di me un disagio e una rabbia sorda che ingoiavo dentro come un boccone avvelenato. Quando mi dava il bacio, come tutte le mamme, sarebbe dovuta uscire in silenzio dalla mia camera, lasciando intatta quella sensazione di tepore e protezione che fa scivolare qualsiasi bambino in un sonno profondo e appagatore. Dopo la spettacolarità del bacio mi sembrava più bello separarsi. Starsene li invece, stretti l’uno all’altro nel lettino era una caduta di stile che non apprezzavo. L’incarico che ricoprivo all’interno dell’azienda, mi portava talvolta a compiere dei viaggi in altre città, più spesso all’estero. I titolari avevano fiducia nelle mie capacità nelle intermediazioni più difficili. Ero discreto e pragmatico e portavo sempre indietro un risultato positivo. I dirigenti, due soci non più giovanissimi, piuttosto austeri e gravi d'aspetto, mi convocavano nel loro ufficio e mi mettevano al corrente dei dettagli e delle difficoltà di una particolare operazione che poteva riguardare un edificio il cui acquisto o vendita poneva dei problemi. Mi aggiornavano sulle ultime azioni compiute e, di solito, lasciavano carta bianca sul mio operato. Sceglievo io l’albergo dove alloggiare e, dovendomi trattenere per almeno cinque giorni, sceglievo il meglio che quella città potesse offrire. Si trattava per lo più di discutere le condizioni di acquisto o vendita di un immobile, per il quale i proprietari, o gli eredi, opponevano grane eccessive oppure avanzavano richieste esose. Si trattava di entrare dentro intricate questioni familiari che richiedevano tatto e molto intuito per poterle dipanare. Possedevo una innata capacità nel riconoscere immediatamente il nodo centrale delle dispute familiari fra gli eredi e di appianarle, senza mai perdere la calma e sempre con un sorriso fra le labbra. A proposito delle labbra, una volta uno dei due direttori mi chiese, mentre girava lo zucchero nella tazzina del caffè, se non avessi mai pensato di migliorarne l’aspetto con una operazione di chirurgia estetica. Cercò di metterci quanta più indifferenza possibile nel suo tono di voce, ma questa richiesta mi stupì. -Un leggero ritocco, suvvia, - mi disse. - Oggi con quei ferri in dieci minuti fanno miracoli.

 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Psycho (Il volto della vita) parte II.

Post n°89 pubblicato il 18 Febbraio 2012 da alex.canu
 

 

Psycho  

(Il volto della vita)

parte II.

 

 Risale a quel periodo l’idea di lasciarmi crescere i baffi che porto ancora oggi. Certo non posso dire di aver risolto il problema, però mi pare che il mio aspetto sia migliorato sensibilmente e poi mi danno un’aria più professionale e autorevole. In occasione di questi viaggi godevo di ampia libertà nella scelta dell’albergo che ritenessi più adatto. Potevo noleggiare un’autovettura di mio gradimento e la società non lesinava certo sui ristoranti e sugli inviti a cena o a colazione che potevo estendere a mia discrezione. Era l’occasione per gustare cibi nuovi, conoscere nuovi locali o per confermare la fiducia già accordata a ristoranti già sperimentati in precedenti viaggi. E`bello variare e, qualche volta, lo posso ammettere ormai, mi lasciavo tentare dalla compagnia femminile. Sapevo a chi rivolgermi, avevo sempre un paio di indirizzi giusti nella mia agenda. Il mercato di questo genere è fiorente dappertutto, bastava solo telefonare ed esprimere i propri desideri in fatto di età, sesso, perfino sul colore dei capelli o degli occhi. Bastava solo chiedere e pagare. Io ho gusti raffinati, preferisco le ragazzine tra i tredici e i quindici anni, perchè ti guardano con quegli occhi sgranati, eternamente stupiti e non si ribellano mai a nessuna richiesta per paura dei loro padroni. Mai al di sopra dei quindici, mai al di sotto dei tredici. Chiedevo loro un documento di identità appena entravano in camera, per accertarmi della loro età. Mi piaceva guardarle mentre si spogliavano e si toccavano con le loro mani impacciate e nervose. Talvolta le aiutavo, toccando con finta inavvertenza un seno o una spalla levigata dalla loro acerba giovinezza. Non partecipavo attivamente perchè il mio desiderio si esauriva rapidamente e allora dovevo tenerlo a freno per non dissipare troppo in fretta il piacere misto al dolore di quei corpi vulnerabili. Guardavo e soffrivo, mentre avrei voluto rallentare ogni più piccola percezione del corpo di quelle bambine. Mi masturbavo e al culmine del mio piacere leccavo loro i piedi e le ginocchia. Non crediate però che io sia un pervertito. In occasione di quei soggiorni amavo anche interessarmi delle mostre e dei concerti che la città offriva. Amo in particolare l’arte contemporanea e nutro una grande passione per l’opera lirica. Durante un viaggio di lavoro in una città, per un affare che si concluse molto positivamente, dopo una lunga ed estenuante trattativa, vidi una grande mostra dedicata a Rothko che mi impressionò molto per il senso mistico del suo colore e per la profondità di quelle immense tele cupe, con il rosso bruno i neri e i grigi. Ritrovai qualche tempo dopo a teatro, in un altra città, una atmosfera simile in un allestimento del Tannhauser di Wagner, con una scenografia che suggeriva, attraverso l’uso di pochissimi colori, l’immensità del dolore umano. Andai a vedere quest’opera con gli avvocati dei nostri clienti, per una trattativa che si annunciava difficile e particolarmente lunga nei tempi di risoluzione. Le difficoltà si appianarono la sera successiva a cena, avendoli nostri ospiti in un ristorante, nel comune ricordo di Wagner e dello sfortunato amore tra Elisabeth e Tannhäuser. Ecco com’era la mia vita, tutto normale. Ho la testa sulle spalle,io. Ben piantata e col viso rivolto in avanti. 

   Quella mattina tutto sembrava procedere come al solito. Ero uscito di casa con un po’ di anticipo per passare dal mio barbiere. Mi doveva tagliare i capelli e rasare la barba. Mentre preparava lo shampoo mi volle rivelare un segreto della sua professione: - Sa dottore, - mi disse - un bravo barbiere lo si riconosce dal fatto che nessuno deve capire che un suo cliente si è appena tagliato i capelli. - Giusto.- approvai, non afferrando in pieno il senso di una tale confidenza. I miei baffi crescevano e si infoltivano coprendo bene le due cicatrici sul labbro. Se non fosse stato per quel dente che rimaneva leggermente scoperto si sarebbe detto che nel mio volto fosse tutto normale. Ma c’era quel labbro leggermente sollevato a ricordarmi il rifiuto di mia madre nei miei primi giorni di vita. Un rifiuto che mi tornò alla mente quando, una di quelle troiette che mi portavo in albergo, mi guardò in faccia e rise chiedendomi se fossi normale. Le sibilai un insulto pesante e le assestai uno schiaffo sul volto, facendole sanguinare una gengiva. La vista di quel piccolo rivolo di sangue mi eccitò e presi la ragazza con violenza, fu la prima volta che riuscii a possedere una donna. Quella mattina ero proprio di buonumore. Il lavoro in ufficio non mi aveva creato particolari problemi, solo routine, banale amministrazione, niente di più. Avevamo concluso un contratto vantaggioso e mettevo in ordine tutta la documentazione relativa ad un cascinale del XVIII sec. circondato da 6 ettari di terreno a corpo adibito a vigneto, noccioleto, giardino e parco che avevamo appena venduto. Avevo appena sollevato la cornetta del telefono per prenotare un tavolo per il pranzo in un ristorante vicino, quando il collega architetto che divideva con me l’ufficio spostò il ritratto di sua figlia che teneva sul tavolo, per fare posto ad alcuni rotoli di progetti a cui lavorava. Urtò la cornicetta colorata e la foto della piccola si voltò verso di me. I suoi occhi di verde puro si inchiodarono nei miei e mi guardarono a fondo. Io rimasi con la cornetta sollevata e il dito ancora puntato sulla tastiera del telefono e lo sguardo fisso su quel volto di adolescente. Devo ammettere che la figlia del mio collega era una ragazza molto carina, ma c’era nel suo sorriso qualcosa di triste che mi ricordava le ragazzine che frequentavo negli hotel dei miei viaggi. Questa somiglianza mi stupì. Mi meravigliò trovare a cosi poca distanza quello che cercavo nascostamente in altre città. I capelli lunghi e neri le donavano un aria di sofferta intensità, esaltata dagli occhi di un verde di vetro profondo, circondati da due archi perfetti di sopracciglia ancora intatte. Era voltata di tre quarti, sorrideva e la spalla nuda era offerta in primo piano. La guardai a lungo prima che l’architetto si accorgesse che fissavo l’immagine di sua figlia. La voltò rapidamente rimettendola al suo solito posto e io finii di comporre il mio numero e con un leggero sorriso prenotai il mio tavolo. Mentre pranzavo, ripensai a quella foto, l’avevo già vista tante altre volte, ma non l’avevo mai, guardata. Fu come osservare, per la prima volta, il contrasto dei capelli neri con la pelle così bianca. I suoi occhi di bottiglia scura mi colpirono e mi fecero provare un senso di vergogna e desiderio insieme. Tutto qui, cioè niente. Il taglio sul labbro mi diede un leggero dolore che accolsi con sottile piacere.

   Quando ritornai a casa, quella sera stessa, trovai apparecchiato per due, come al solito. Mia madre non cenava mai con me, ma lasciava un altro coperto per mio padre, che pure non c’era più. Quel piatto vuoto, con le posate perfettamente allineate, il tovagliolo intonso con il suo anello di plastica colorata, il bicchiere, mi ferirono. Quello specchio nel quale non mi riconoscevo mancava solo del portacenere, per il resto era speculare al mio mondo. Non avevo mai sopportato la figura meschina di mio padre, nè il senso della muta accettazione di una vita priva di alcun interesse che non fosse il procurarsi le sue sigarette. Mia madre come sempre guardava i programmi della televisione voltandomi le spalle. Mangiava sempre prima di me e preparava una cena leggera a base di verdure, pane, affettati e frutta. La televisione era il suo unico passatempo e vi si dedicava con ingordigia, al punto da rimanere davanti allo schermo anche con programmi di televendite e cartoni animati. Usciva al mattino per fare una spesa leggera e rientrava subito a casa. La donna delle pulizie che veniva due volte a settimana sbrigava le sue faccende rispettando quell’isola formata dalla sua poltrona e dal televisore di fronte. Durante la cena non mi rivolgeva mai la parola e al mio rientro non rispondeva al mio saluto se non con un movimento della testa. Non rispondeva più al telefono e io le facevo uno squillo tutti i pomeriggi alla stessa ora dall’ufficio. Dall’altro capo del telefono sentivo il ronzare della televisione mentre le facevo un elenco dettagliato del mio programma di lavoro, delle vendite e degli acquisti di quella giornata. Lei non rispondeva e quando la salutavo riattaccava senza una parola. Non cenava mai con me, diceva che le facevo andare le cose per traverso, fin da piccolo, quando facevo lo schizzinoso ogni volta che mi dava da mangiare. Si era spazientita allora, diceva. Non aveva dimenticato il suo latte rigurgitato da quel bambino con le labbra spaccate. Diceva che non sopportava quel mio modo impacciato di articolare le parole. Dopo l’operazione che mi ricostruì le labbra avrei dovuto andare da un logopedista, ma nessuno seppe consigliarci correttamente e così crescendo ebbi difficoltà di fonazione che cercai di correggere in età ormai adulta.Da bambino non acquisivo correttamente suoni e lettere e questo aveva delle ripercussioni sul linguaggio e quindi sulla comprensione delle parole e sulla corretta capacità di produrre frasi articolate. Avevo difficoltà ad attivare il movimento di elevazione del palato molle e questo mi causava dei seri problemi nel deglutire e nel parlare. Avrei avuto bisogno di un logopedista e mia madre non lo sapeva. Le mie difficoltà nel mangiare correttamente erano causate anche da questo, ma lei non lo capiva e mi trattava male. Mi derideva e mi umiliava apertamente, esasperata. Da adulto qualcuno mi consigliò un logopedista e dovetti fare un duro lavoro di rieducazione della muscolatura facciale, ma riuscii a riguadagnare un uso corretto della parola, della deglutizione e imparai a gustare i cibi e il piacere della buona tavola. 

   Quella sera, come tutte le sere, mentre mangiavo, lei mi dava le spalle e, io dal tavolo, lei dalla sua poltrona, seguivamo i programmi della televisione. In silenzio in cucina, separati dal tavolo apparecchiato per due, dove mangiavo sempre da solo. In totale silenzio, lei davanti allo schermo illuminato, seguiva quello che la televisione trasmetteva per le persone come noi. Non si voltava mai, non rispondeva alle mie domande se non con un si o con un no, pronunciati seccamente. Guardavo la crocchia dei suoi capelli diventati grigi col tempo, tenuta su da una testa immobile, paralizzata in un unica direzione. La si sarebbe potuta dire addormentata davanti allo schermo, ma la sua attenzione era vigile. Non faceva alcuna osservazione o commento sui programmi che seguiva e si rifiutava di usare il telecomando costringendosi a vedere un programma dall’inizio alla fine. Poco prima delle undici spegneva bruscamente il televisore. Come un gesto imperioso, un “basta”, pronunciato con un tocco nervoso del dito sul tasto. Non mi chiedeva il permesso, non si curava se io volevo proseguire nella visione, spegneva e basta. Si alzava lentamente dalla sua poltrona e preparava la caffettiera per il mattino successivo. Quindi se ne andava a dormire dopo avermi augurato meccanicamente la buonanotte. Così tutti i giorni, tutti da che io ricordavo, Tranne quella sera.

   Quella sera accadde quello che aspettavo, da anni mi ero preparato ad una evenienza simile. Inconsapevolmente, senza premeditazione alcuna del gesto che di li a qualche istante avrei compiuto. Nella mente mi erano scorse per anni, nitidamente, le immagini del film del delitto che stavo per compiere. Se premeditazione poteva esserci stata era contenuta nei racconti legati al rifiuto di mia madre di prendersi cura di me nei primi momenti dalla nascita. Se premeditazione poteva esserci stata era nelle migliaia di sigarette che mio padre si era ostinato a fumare, soffiando la sua sporca nicotina sulle tende di casa. Dovevo aver preparato con cura questo delitto orrendo, ogni volta che mi ero tappato le orecchie con le mani per non sentire l’urlo soffocato di mia madre appena un infermiera, con scarso giudizio, mi presentò a lei, sudata e stravolta dal parto. A lei, che si aspettava il giusto premio per tutte quelle sofferenze, venne presentato un bambino con un ghigno mostruoso, che la insultava davanti a tutti e le gridava col suo pianto disperato: - tu mi hai fatto tu così.

 

   Quella sera seguivamo in televisione un programma di canzonette, quando lei si voltò e per un attimo i nostri sguardi si incontrarono. Accadde come per la foto della figlia del mio collega, in ufficio. Lui la voltò e i nostri occhi si incontrarono. Mia madre mi osservò freddamente trattenendo a lungo il suo muto rimprovero sui miei occhi. Sono convinto, ora che ci penso, che calcolò il peso dei miei pensieri, comprese in un attimo l’intenzione che era già maturata dentro di me. Le tornarono alla mente le parole di sua madre che tentò di minimizzare la malformazione del bambino appena nato. Le disse con falsa esuberanza che la chirurgia estetica avrebbe fatto miracoli. Le sovvenne l’espressione di muto rimprovero della suocera, che era già di per sè un accusa nei suoi confronti, di non essere riuscita a mettere al mondo un bambino decente. Non si mosse affatto quando mi vide afferrare il coltello del pane e non staccò mai il suo sguardo dal mio. Il televisore continuava a inondare la stanza con le sue chiacchiere e con le sue canzonette nostalgiche. Vecchi cantanti esibivano ancora i loro capelli ritinti, nel fallimentare tentativo di tenere coi denti un frammento della loro antica giovinezza. Insieme al nero indecente dei loro ciuffi ribelli, riproponevano i passi e quelle mossettine studiate, che li avevano resi celebri per una stagione estiva, molti anni prima. Lei era voltata e il collo faceva una piega innaturale per seguirmi. Mi ricordò di un piccolo rapace che presi una volta e che ruotava il collo alla stessa maniera, nel tentativo disperato di tenermi sotto controllo. Col coltello fra le mani mi avvicinai alle sue spalle e le presi dolcemente la testa fra le mani. Le sollevai il mento e vidi il pomo di adamo che si muoveva in su e in giù. Si lasciò prendere senza opporre alcuna resistenza, senza mai smettere di fissarmi con quei suoi occhi terrorizzati. Fu la prima volta che la chiamai mamma, mamma. Il presentatore sorrideva mentre intervistava una donna e si tirava indietro i capelli del colore dell’ ambra. Il pubblico applaudiva e le luci giravano impazzite. Le sollevai ancora di più il mento e tesi la pelle sotto la sua gola. Fu la prima volta che mi chiamò figlio, figlio. Le serrai la bocca con la mano e affondai la lama. Si accasciò sulla poltrona con lentezza, rilassando le braccia che lasciò cadere lungo il corpo inerte. Mentre il sangue sgorgava i suoi occhi si chiusero senza alcun rimprovero e mi accorsi che quella scena mi era familiare. Quel gesto non mi era costato nessuna fatica, era già stato preparato e provato tante volte, l’azione in sè era solamente il compimento di un progetto comune. Notai con stupore che il programma di canzoni proseguiva con gli stessi personaggi e gli stessi sorrisi, come se non fosse accaduto niente in quella stanza. Eppure tutti dovevano aver visto. Il pubblico in sala batteva le mani al nuovo cantante, che ora veniva preso sottobraccio dal presentatore, che lo accompagnava al centro dello studio. Veniva mostrato un vecchio filmato in bianco e nero dove, un giovane cantante si agitava con dei pantaloni stretti a tubo, impugnando una chitarra che fingeva di suonare. Altri applausi altre luci che giravano. Scostai mia madre dalla poltrona, dove giaceva appoggiata al bracciolo e pensai che si fosse addormentata. La chiamai, ma non mi rispose. La presi per le ascelle e la trasportai sulla sedia del tavolo dove ero seduto poco prima. La spogliai e indossai i suoi vestiti intrisi di sangue. Mi sedetti sulla poltrona, al suo posto e dondolai ritmicamente il corpo in avanti e indietro seguendo la canzone che veniva trasmessa in quel momento. Dopo altri applausi e un breve stacchetto di ballerine che alzavano le gambe tenendosi abbracciate per le spalle, una nuova cantante venne invitata al centro del palcoscenico. Il presentatore la accolse con un sorriso smagliante e un finto baciamano. Le luci si abbassarono e la cantante si aggiustò il filo del microfono mentre, con gli occhi rivolti in basso, cercava una concentrazione adatta al motivo che stava per eseguire. Un organo introdusse enfaticamente il brano, creando un atmosfera carica di tensione che si sciolse in alcuni colpi secchi della batteria. Il basso si inventò un ritmo sincopato e la chitarra acustica invitò la voce della cantante ad entrare: - Con il corpo sono qui, ma la mente mia non c’è, sta volando dietro te e ti raggiungerà...

Notai che il motivetto era semplice e orecchiabile. Provai a canticchiarlo, non era male - I miei occhi sono chiusi, ma ti vedo molto bene. Stai uscendo da una casa e corri verso me-

Mi voltai e vidi mia madre riversa sul tavolo, pensai alla fatica che avrei dovuto fare per portarla a letto. Certo stava invecchiando e adesso si addormentava così davanti alla televisione.

- Il volto della vita, il volto dell’amore- cantava la canzone e il pubblico la accompagnava battendo a tempo le mani.

Quando anche quella musica finì il presentatore parlò tenendosi appoggiato ad un pianoforte a coda. Era simpatico e le sue battute erano spiritose e strappavano risate al pubblico in sala.

- Tesoro c’è della torta di mele, lì nella dispensa, - mi sentii dire, con una voce del tutto identica a quella di mia madre. Mi voltai di scatto e la vidi che stava ancora li, distesa sul tavolo, che dormiva. Pensai di essermelo immaginato. Mi alzai e dalla dispensa presi un dolce confezionato, lo scartai e iniziai a mangiarlo, quindi mi risiedetti davanti al televisore. Le luci della sala si abbassarono e una nuova canzone diffuse le sue note nell’appartamento, ma non ne sentii la fine perchè mi addormentai, di un sonno profondo. 

 

 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Caffè italiano

Post n°88 pubblicato il 14 Febbraio 2012 da alex.canu
 

 

Caffè italiano

 

 

     Si pronuncia “samoubìistva” e vuol dire “suicidio”. Colui che tenta il suicidio é detto invece “samoubìiza”, con l’accento su una delle due i. Kirill Aleksandrovich, un uomo sulla quarantina, leggermente stempiato, è seduto al tavolo da pranzo della sua cucina e ha una pistola perfettamente  puntata alla tempia sinistra. “Suicidio” é un termine vago, il Suicida è, invece, un personaggio reale, in carne e ossa, vivo, (ancora per poco); quasi sempre tiene un revolver, puntato alla testa, spesso carico. Il Suicida è un personaggio romantico, può essere un uomo d’affari, un poeta solitario, un innamorato respinto, un maestro elementare scoperto a ...  "Da, nu horosciò". Il nostro Kirill non è niente di tutto questo. Kirill è un semplice impiegato della compagnia telefonica di stato. Occupa una sedia, dietro il vetro che lo separa dai clienti che gli si rivolgono per chiedergli la linea. “Servizio interurbane e internazionali”, dice una targhetta gialla, che gli taglia tutta la fronte dietro il vetro. Kirill annota diligentemente il nominativo del cliente, il nome e il numero completo dell’abbonato oggetto della chiamata. Poi annuncia il numero in linea, entrare nella cabina e attendere, "pojàlui’sta". Kirill ama il suo lavoro. Arriva con l’autobus, tutte le mattine, dal quartiere periferico dove vive. Scende due fermate prima, per sgranchire le gambe e già a trenta metri  dal grosso edificio staliniano, sente venirgli incontro il puzzo dell’orina che lo accompagna per tutto il giorno.  Riassumiamo: Kirill Aleksandrovich, attualmente seduto al tavolo da pranzo della sua modesta abitazione, ha la canna di una pistola, puntata alla tempia e guarda con indifferenza a tutto ciò che lo circonda. L’arma è vera, essendo appartenuta a suo padre, Sasha Kirillovich, un uomo profondamente triste, con un taglio sul labbro superiore che gli lasciava scoperto un dente. Era come se un’altro essere più cattivo si fosse impadronito della sua bocca, costringendolo ad un sorriso immondo che lui non poteva avere. Sasha Kirillovich, per questo motivo non si lasciava mai andare al riso aperto e stese all’interno della sua piccola famiglia un velo di dolore che non si sciolse mai. Regolarmente, una volta ogni settimana, Kirill svolge la pistola dal panno di feltro in cui la conserva e dopo averla smontata, immerge ogni componente in un bagno rigenerante di olio. A lungo rimane incantato a osservare il suo viso riflettersi nel liquido denso e confondersi con i pezzi dell’arma. Con un cacciavite smuove e rimesta, per poi contemplare il suo volto riflettersi dentro il petrolio calmo della bacinella. Così la pistola ha un fascino quieto e settembrino, misterioso e lugubre. Kirill  ha sempre dei pensieri profondi, quando osserva i pezzi smontati affogati nell’olio. Questo lavoro richiede almeno un paio d’ore per essere portato correttamente a termine e Kirill lo svolge con la massima cura. Ne ricava un profondo rilassamento. Quindi, religiosamente, piano, rimonta tutti i pezzi. L’ultima operazione consiste nel ricollocare al proprio posto il proiettile nel tamburo. Un unico, lucido, freddo proiettile che, diversi anni prima, sarebbe dovuto entrare dritto nella bocca di suo padre. Dritto, perché così lui l’aveva visto una sera dalla porta accostata. Stava seduto sul bordo del letto, la giacca posata sulla sedia, le maniche bianche della camicia erano sollevate fino all’altezza della bocca. Buio tutt’intorno. Tre volte aveva sentito il cane  della pistola abbassarsi inutilmente. Poi la bocca del padre si era richiusa e la cicatrice che gli tagliava in due il labbro superiore, si era distesa in una smorfia di disgusto. Le maniche si erano abbassate, vide la mano dell’uomo posare piano la pistola sul comodino e riabbottonarsi i polsini. Si accorse tardi di sua madre dietro di lui. Con un sorriso gli si avvicinò e dolcemente gli toccò la spalla. Accostò la porta della stanza e lui, docilmente si lasciò guidare a letto. Anche quella notte i sogni non arrivarono a disorientarlo. "Spakoinoi-nochi Kirill!". Quando suo padre morì, alcuni anni dopo, aveva desiderato fortemente possedere quell’arma e si era affezionato a quell’unico proiettile che ancora stava li dentro.  A volte lo mette in tasca la mattina e per tutto il giorno se lo rigira scaldandolo con la mano e quel contatto, chissà perchè, gli da sicurezza. Quello stesso proiettile è, ora, ad appena dieci centimetri di distanza dal suo futuro, che gli appare alquanto incerto. "Konéchna".

   Dopo cena ha sparecchiato e sgombrato il tavolo, per effettuare la settimanale pulizia dell’arma. Ha lavato piatti e posate e ha preparato tutto l’occorrente per la colazione del mattino. Sul tavolo è rimasto un depliant che ha trovato nella buca delle lettere e che ha spostato già diverse volte senza averlo neppure guardato. Dopo avere pulito e rimontato pezzo a pezzo la pistola, Kirill se l’è puntata alla testa e, solo in quel momento, ha capito che quella sarebbe stata la sua fine. Lo sguardo ora vaga sopra il tavolo alla ricerca dell’attimo giusto per premere il grilletto. Vorrebbe far coincidere lo sparo con un suono o con un rumore che provenga dalla strada o dall’ appartamento vicino. Aspetta un segno: ecco una mosca che ronza e che fra poco si poserà, zzzzzzzzzzzzzzzzzzzz... Pchh! La mosca si è posata sopra il depliant abbandonato sul tavolo. Kirill con la pistola alla tempia ne aveva seguito il volo e adesso, automaticamente, legge le strane lettere che stanno sotto le zampette dell’insetto: NEC-SX-280. 

   NEC-SX-dva-sto-vòsiem’-desiàt. L’oggetto pubblicizzato è un telefonino cellulare, colorato e vivace. Delle cromature lo rendono più attraente e  i tasti, di un elegante color madreperla, si illuminano di verde. E’ così piccolo che Kirill se ne stupisce e con la mano libera  dall’arma ne percorre il contorno. Sfiora il display che mostra l’immagine a colori di una vela sul mare. Kirill sposta le dita sui tasti di perla e compone il suo numero di telefono che, dopo qualche secondo appena, inizia a squillare... o così gli sembra.

   NEC-SX-280. Compatto, ma con tutte le funzioni più utilizzate. Fotocamera digitale integrata, e-mail, messaggi multimediali. Il tutto accessibile grazie alla comoda tastiera touch screen, al grande display a colori e all’interfaccia NEC, così familiare. Nuovo telefonino NEC-SX-280, non provatelo, perché... trovarlo è facile, rinunciarvi sarà impossibile.

   ...Impossibile...rinunciarvi sarà impossibile... Trovarlo è facile, rinunciarvi impossibile, impossibile. Nivozmòsnij.

   Kirill  afferra il depliant. NEC-SX 280. Pronuncia quel nome come fosse quello di una galassia nuova, appena scoperta. Una galassia lontana milioni di anni luce dalla sua orbita e adesso così vicina che rinunciarvi è impossibile. NEC-SX-280. Pronunziarlo è facile, è studiato perché sia così facile, come nei film di fantascienza che vedeva con suo padre da bambino. 

   NEC, la lingua tocca dolcemente sul palato, il suono è una promessa d’amore. 

   Kirill abbassa la pistola puntata alla tempia. Suo padre appartiene ai confusi ricordi dell’infanzia. Sua madre non è più dietro di lui a toccargli dolcemente la spalla e a richiudere con un sorriso le brutte porte lasciate aperte.

   NEC-SX - 280, (nec-sx-dva-sto-vòsiem’desiàt). La pistola sul tavolo forma una macchia scura, la lampada abbassata schiaccia l’ombra sul tavolo e di colpo diventa quello che è: un povero oggetto abbandonato. Il proiettile ha spento il suo misterioso bagliore e dorme dentro il tamburo. Kirill afferra il piccolo depliant e se lo ficca nella tasca sinistra dove mette le cose importanti. Accende la tivu. Nelle immagini del telegiornale il nuovo presidente appare piccolo e impacciato. Si muove a scatti, mentre tende la mano verso il suo ospite italiano, altrettanto piccolo come lui, ma con l’espressione del volto più sorridente e intraprendente della sua. Le giacche che indossa hanno un taglio elegante, incompatibile con il suo temperamento ed è costretto a tenersi le maniche con la punta delle dita. I capelli incollati non si muovono, mentre firma un documento che il suo collega italiano gli porge, accompagnandolo con una battuta di spirito che nessuno comprende. Kirill sorride della battuta, mentre si lascia sprofondare nella poltrona che lo inghiotte come un fiore carnivoro. Pensa che per loro sarebbe più adatto un presidente come quello italiano, meno formale e più spiritoso. Gli pare che abbia anche i capelli più folti rispetto alla volta precedente.  Dopo un po’ si addormenta e come sempre il suo sonno è pesante, privo di sogni. E’ come se la sua testa avesse le maglie troppo larghe, non vi rimane impigliato niente, nè sogni, nè idee, nè desideri, nishtò. Al suo risveglio, trova la pistola ancora sul tavolo. La raccoglie e la osserva a lungo, fa scattare la levetta del tamburo e ne estrae il proiettile. Lo appoggia e dopo aver ripiegato l’arma nel panno, la rimette a posto. Nella tasca della giacca trova il depliant. Il proiettile, finisce nella tasca destra.

   Ed ora, abbiamo una immensa città, con un grande quartiere, con una via alberata, su cui c’è un palazzone, con un appartamento al primo piano. Un uomo sta per recarsi al lavoro, indossa una giacca e ha un depliant colorato dentro la tasca sinistra e un proiettile di pistola, mai esploso, sulla tasca destra.   Nel depliant é segnato l’indirizzo dei grandi magazzini dove è in vendita il telefonino cellulare, Ulitza Pervomajskaia,1308. La fermata del tram è appena a 200 metri. Il posto telefonico pubblico dove Kirill lavora è a tre isolati di distanza. Kirill esce di casa e prende il suo solito autobus. In piedi, attaccato al mancorrente, Kirill tormenta il suo proiettile, mentre guarda distrattamente fuori dal finestrino. A poca distanza da lui, una donna si tiene a fatica sullo stesso suo mancorrente. E` voltata e non riesce a scorgerne il viso, ma lo colpisce la sua grazia. La donna non è alta e fatica a tenersi in equilibrio, con  due dita  riesce ad agganciarsi al sostegno. I suoi sforzi per mantenersi dritta, sono continuamente messi in pericolo dai nuovi passeggeri che ad ogni fermata entrano, dando degli spintoni per guadagnarsi un posto centrale. Una nuova ondata di viaggiatori sospinge la donna quasi addosso a Kirill, che è costretto ad indietreggiare. Ora la donna è vicina a lui, ne sente il contatto attraverso il cappotto. La osserva con curiosità perchè, pur essendo di corporatura minuta, ha una sua strana e discreta eleganza che lo sorprende. La donna muove indietro la testa e nel farlo lascia ondeggiare i suoi lunghi capelli biondi, che scosta nervosamente con la mano. Questo gesto lo affascina e lo spinge ad osservare la donna con più attenzione. Ne cerca il volto, ma non riesce a scorgerlo pienamente. Gli appare per un attimo, di profilo, per poi voltarsi bruscamente dall’altra parte. Nota una borsetta di pelle, di taglio moderno e occidentale, da cui emerge il manico di un minuscolo ombrello pieghevole. Indossa un cappotto rosso, col bavero appena sollevato, chiuso in vita da una cinta che la stringe elegantemente. Ai piedi indossa un paio di scarpe col tacco alto color avorio, non comuni a quell’ora del mattino. L’autobus fa delle fermate e alcune persone si alzano liberando due posti proprio vicino a loro. Kirill si siede occupando il sedile dalla parte del finestrino e, contemporaneamente, la donna si volta alla ricerca di un posto dove sedersi. Per un attimo i loro sguardi si incontrano e lui scorge  la ferita che la donna porta sul labbro superiore. Le sorride istintivamente, ma sente una delusione profonda e inspiegabile. La donna si rivolge a lui, chiedendogli cortesemente se può sedersi. Kirill le fa cenno di si con la testa, mentre si stringe di più verso il finestrino per lasciarle spazio. La donna gli dice qualcosa a proposito della gente maleducata che si incontra negli autobus. Lui annuisce e le risponde con una smorfia di assenso. Osserva il taglio sul labbro della sua vicina e vede il dente che le rimane leggermente scoperto, stamparle in faccia un sorriso innaturale. E` il labbro leporino, pensa. Anche suo padre ce l’aveva. Quella donna, fino ad un attimo prima, gli appariva affascinante e desiderabile e lui se l’era immaginata bellissima e ora, dopo averla vista in volto, pensa che basta un niente per avvelenare l’armonia dei lineamenti. Prova un po’ di compassione per lei, perchè immagina la fatica per guadagnarsi l’amore degli uomini. Immagina le umiliazioni mute e silenziose, la sua bellezza deturpata da quell’osceno, ghigno perenne. La donna sentendosi osservata aggrotta le sopracciglia e Kirill si accorge che quella espressione la rende più graziosa, mettendole in evidenza il grigio-azzurro degli occhi. Le sorride ancora quando, due fermate dopo, nel chiederle di lasciarlo passare, nota le sue ginocchia nude lasciate scoperte dalla gonna leggermente sollevata. Lei gli restituisce un sorriso. Kirill Aleksandrovich rimane fermo sul marciapiede e cerca la donna attraverso il finestrino sporco. Quando l’autobus richiude le porte e si avvia, la scorge appoggiata con la testa al finestrino. Alza la mano e le indirizza un saluto. Lei si volta e lo segue con lo sguardo, mentre ricambia con un movimento appena accennato della mano. Quando l’autobus è lontano, Kirill rimette le mani in tasca ritrovando il proiettile del padre, lo sente freddo. Negli occhi ha ancora il sorriso della donna e irrazionalmente le rivolge un pensiero osceno. Una involontaria similitudine, tra quel leggero taglio sulle labbra rosse, che ne inquina la bellezza e il taglio del suo sesso che immagina desiderabile. Kirill Aleksandrovich si avvia a piedi verso il suo posto di lavoro. Pensa che avrà quasi due ore di intervallo per il pranzo, per raggiungere il grande centro commerciale, sulla Pervomajskaia. Oggi chiederà un anticipo sullo stipendio al suo direttore. Non sarà difficile, Kirill non ne ha mai chiesti prima e non potrà negarglielo. Il centro commerciale “Nòvaja Moskvà” dovrebbe trovarsi, più o meno, dove un tempo stava il negozio che vendeva vodka e che tutti gli alcolizzati conoscevano bene. Compravano una bottiglia e poi percorrevano tutta la strada alla ricerca di compagni con cui dividere alcol e spesa. 

    Quando è l’ora esce, va di corsa e stringe forte il proiettile nella mano. Con un autobus raggiunge velocemente la Pervomajskaia. Il grande magazzino ha come simbolo un globo che è la terra, mentre un orso lo abbraccia con le zampe anteriori. Entra, le luci, brillanti e accese lo accolgono disorientandolo un po’ e non è sicuro che possa pagare in rubli. La musica lo segue dappertutto, vede facce allegre e pavimenti lucidi e sente un buon odore di nuovo e moderno. Non riesce a trovare subito il negozio di elettronica ed é costretto a chiedere ad una guardia giurata, che lo indirizza con un sorriso al primo piano. - Può prendere l’ascensore, signore - gli dice, mentre lo osserva allontanarsi. Sale di corsa le scale. Sono tante, non se n’era accorto. Appena arriva su vede l’insegna luminosa del negozio, ha il fiato grosso e respira a fatica. Si avvicina alla vetrina e con le mani sporche vi si appoggia, l’alito disegna un alone opaco sul vetro. Estrae il depliant e osserva il telefonino esposto, sono identici: NEC-SX-280. Kirill lo osserva. I tasti di madreperla, il display ampio, il design moderno e raffinato, tutto è uguale a come è raffigurato sul depliant, ma dal vivo gli sembra ancora più bello. Le luci della vetrina lo fanno apparire ancora più desiderabile e scintillante.  D’improvviso sente toccarsi bruscamente sulla spalla, quanto basta per farlo voltare di scatto spaventato. Una guardia, poco convinta della sua autorità, gli chiede di scostarsi dalla vetrina, ma evidentemente il suo tono di voce tradisce l’imbarazzo del primo intervento della giornata.  Kirill non reagisce, non comprende esattamente che cosa voglia da lui. La guardia gli intima di spostarsi dalla vetrina e qualcuno si volta a guardarli. Il proprietario del negozio sta per uscire per vedere che cosa succede. Kirill punta gli occhi sulla guardia e, stupidamente, mima il gesto di una telefonata. La guardia, sentendosi osservato dal padrone del negozio e dai clienti, crede di dover fare qualcosa e allora lo afferra per il braccio, trascinandolo via. Kirill estrae dalla tasca il suo proiettile e colpisce l’uomo ferendolo alla fronte e facendolo sanguinare. Approfittando della sorpresa generale, Kirill fugge precipitandosi giù per le scale. Si volta e vede il proiettile a terra, accanto alla guardia che si tiene la testa. Vorrebbe tornare indietro e spiegare che non aveva intenzione di ferirlo. Vorrebbe riprendersi il proiettile, ma vede la gente indicarlo ad altre guardie  accorse per il trambusto. Riesce a guadagnare l’uscita. Il  suo tram passa proprio in quel momento e Kirill lo prende al volo. Respira forte, a fatica, con boccate piene d’aria, è spaventato. Istintivamente cerca nella tasca il proiettile, trova invece il depliant. Lo sente liscio. Il tram  sferraglia veloce e si ferma a raccogliere altri passeggeri, arriverà sicuramente tardi. Il capo non gli farà nessun rimprovero. Una signora gli chiede il posto, toccandolo sul braccio e facendolo trasalire. Kirill le  cede il passo, la signora gli sorride con lieve imbarazzo. Si rimette la mano in tasca ritrovando il depliant. Non si aspettava che sarebbe stato capace di colpire la guardia col suo proiettile. Il tram fa una fermata davanti all’ufficio dei telefoni. Sta per entrare, quando fa improvvisamente dietrofront, come scosso da una forza improvvisa che lo strappa al dovere del lavoro. Guarda verso la porta del nuovo caffè italiano. Alcune persone escono sorridenti, soffiandosi alito caldo sulle mani. L’ha sempre guardato da lontano, attraverso il vetro del suo sportello ai telefoni. Per un attimo prova invidia per quei clienti che ne stanno uscendo e gli viene la voglia irresistibile di entrare e sedersi ad un tavolino. Respirare forte l’aria calda del caffè, è convinto che gli farà bene. Si dirige verso la porta ed entra. La luce è tenue e delicata, i rumori e le voci del locale gli arrivano attutiti.  

Cammina e si muove come se si trovasse all’interno di un acquario. Tutti i suoi gesti sono rallentati e rivolge un sorriso teso  al cameriere che si avvicina per salutarlo: 

"Buongiorno, signore". Kirill gli fa un cenno col capo, ha l’impressione di conoscerlo da sempre. La testa gli si riempie di un ronzio delicato di macchina del caffè. Si sparge per il locale l’odore pungente e invitante dei chicchi appena macinati. I suoi sensi eccitati si calmano.

   "Buongiorno", - risponde in italiano al cameriere sorridente. Il locale ondeggia, sollevato da ondate di fragranza a cui Kirill non sa resistere. Come dentro una nave allagata, l’acqua si sposta da una parete all’altra, lasciando intatti i tavolini, le sedie e i bicchieri. L’odore del caffè appena tostato è buono: "Un caffè", dice ancora in italiano e sorridendo pensa alle icone della pentecoste, con quelle fiammelle sul capo degli apostoli e il miracolo di parlare tutte le lingue del mondo. 

"Subito signore", risponde gentilmente il cameriere, accennando un movimento del capo. Kirill si accomoda sul cuscino della sedia in vimini ed appoggia i gomiti sul tavolino, respira profondamente mentre si guarda intorno. Sincronizza il battito del suo cuore in tumulto, con la calma tranquillità del locale che ha appena scoperto. Per quel ritardo inventerà una scusa al lavoro, oppure non ci tornerà affatto. Osserva il cameriere di spalle che prepara il caffè. Ha messo una tazzina di ceramica su un piattino e gli ha accostato, delicatamente, un cucchiaino d’argento. I rumori che sente sono come i battiti di un orologio che, progressivamente, rallenta il suo moto. Il cuore si calma. Il cameriere avvicina una zuccheriera e la mette su un vassoio di vetro.  Kirill lo osserva e sempre più si convince della sua familiarità e, come tutti i buoni camerieri del mondo sa, esattamente, quello di cui abbiamo bisogno in quel momento. Kirill avrebbe voglia di abbracciarlo e di raccontargli in italiano del suo proiettile perduto, del padre, della penombra della sua stanza, del depliant e di tutto quello che, in quel momento, gli passa per la testa. Il profumo di caffè che si spande tutto intorno lo inebria e lo riscalda. La luce del locale è discreta e avvolgente e ha i colori terrosi dei chicchi di caffè. I marroni, il rosso bruno, il color oro e tutte le tonalità delle ocre. Si sforza di disciplinare la regolarità del suo respiro e osserva il nuovo ambiente, nel quale si trova, con tutti i sensi allertati. Lo percorre da un tavolino all’altro e, improvvisamente, la sua attenzione viene catturata da due occhi grigio-azzurri che lo fissano, qualche tavolo più in la.  Una donna con i capelli biondi e un cappotto rosso sorseggia un tè. Quando poggia la tazza sul tavolino, Kirill nota il suo sorriso sghembo, mentre lei si porta un fazzoletto alle labbra. Estrae uno specchietto dalla borsetta e rimette i capelli in ordine. Con un rossetto ravviva il colore delle  labbra, ma per contrasto fa emergere il taglio che lo spacca, lasciando intravedere il bianco del dente scoperto. Kirill la guarda a lungo prima di metterla a fuoco realmente e capire di chi si tratti. La donna gli sorride indecisa e Kirill la fissa assente, col pensiero ancora rivolto alla guardia giurata del centro commerciale Nòvaja Moskvà. Avrebbe bisogno del suo proiettile adesso, lo vorrebbe stringere e riscaldarlo a contatto con la mano. La donna laggiù beve ancora una sorsata del suo tè e intanto inizia a rimettere gli oggetti dentro la borsetta elegante. Ha tutta l’aria di prepararsi ad andare via. Kirill si riscuote dai suoi pensieri e notando i preparativi della donna è contrariato all’idea che se ne vada. Le sorride debolmente e spera che lei si avvicini. Dopo che tutti gli oggetti, il rossetto e l’ombrellino pieghevole, sono stati sistemati nella borsetta, la donna si dirige verso il tavolo di Kirill e allora, lui si accorge che lei barcolla. Vede nel suo tavolino, oltre alla tazza del tè, anche altri bicchieri vuoti. Quando la donna arriva in prossimità del tavolo, cerca l’appoggio dello schienale della sedia di fronte a lui e vi si aggrappa. Vorrebbe dirgli qualcosa, ringraziarlo per la sua gentilezza e per il saluto che le ha rivolto la mattina appena sceso dall’ autobus, ma dalla sua bocca escono fuori dei suoni disarticolati e nel suo labbro spezzato si disegna una smorfia di disgusto per se stessa. Kirill posa una mano sopra quella della signora bionda e con una dolcezza di cui non si sapeva capace, le dice piano: " Ia ti’bià liubliu' ". Non l’aveva mai detto a nessuna donna e il suono dolce di quella dichiarazione d’amore, non gli sembra falso o fuori luogo. Lei gli risponde con un mezzo sorriso e un movimento impacciato dei fianchi che ruotano su se stessi, facendole quasi perdere l’equilibrio. Kirill la tiene ben salda per aiutarla a mantenersi in piedi e lei, dopo un tempo infinito, solleva la mano all’altezza della bocca, si posa il dito sulle labbra e con un soffio di voce gli fa: "Sscchh". Con eccessiva lentezza si abbottona il cappotto rosso e con voce impastata, prima di voltarsi e andare via, gli dice: "Do zavtra, liubimoi".  

   Il cameriere ha asssistito discretamente a tutta la scena e attende qualche istante, prima di lasciare il suo bancone con tutti i caffè buoni del mondo. Poi quando Kirill è rimasto solo, gli porta il vassoio su cui ha messo due biscotti, un cioccolatino di puro fondente e un piccolo bicchiere di vodka che brilla leggero, accanto alla tazzina del caffè fumante. "Il suo caffè, signore". Posa delicatamente il vassoio sul tavolino e lascia il bigliettino del prezzo li accanto. Kirill lo osserva senza toccarlo. Si fruga nella tasca  e trova il depliant. Appallottola strettamente il foglio di carta patinata e piano, dolcemente, lo riscalda a contatto con la mano. Afferra il cucchiaino dello zucchero e ne mette due volte. Gira con delicatezza il caffè e batte due tocchi sull’orlo della tazzina, come ha visto fare nei film italiani. Sorride di questi gesti a cui nessun essere umano sa sottrarsi. "Caffè italiano", pensa, mentre lo avvicina alle labbra e una sicurezza nuova lo pervade. Il bar si muove un po’, beccheggia forse. Oppure è solo la sua immaginazione. Si aggrappa al tavolino per non cadere e ora gli sembra che il fragore dell’acqua sulle pareti del bar sia fortissimo. La tazzina del caffè è piccola e straordinariamente calda, liscia come il proiettile che ha appena perduto. La afferra saldamente con le mani, come un oggetto prezioso da proteggere. Assaggia un biscotto e la pallina di cioccolato. Sorseggia piano il caffè, scottandosi leggermente il labbro superiore. 

   Lentamente la vita riprende a scorrere, il mare si placa. La grande stanza illuminata non si muove più.

 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Uomo allo specchio

Post n°87 pubblicato il 14 Febbraio 2012 da alex.canu
 

UOMO ALLO SPECCHIO

 

 

    Un uomo allo specchio osserva la sua immagine riflessa. Da diversi minuti è lì, bloccato, a osservare ogni minimo dettaglio del suo viso, come non aveva mai fatto prima in tutta la sua vita. Davanti allo specchio un uomo osserva sé stesso che si osserva, guarda sé stesso che si guarda. Gli occhi, le rughe sottili che rendono affascinanti le persone. Davanti allo specchio del bagno una vita intera si sta osservando. Le spalle nude, le mani che accarezzano le guance, che sfiorano i capelli. Le mani che corrono da una parte all’altra del corpo e portano messaggi. Un uomo stà in piedi davanti allo specchio del bagno e osserva il suo viso, la forma strana del naso che si stacca prepotentemente in avanti, come un masso, che si erge tra i laghi degli occhi e le valli ossute delle guance. Un uomo osserva sé stesso allo specchio e muove il braccio sinistro che diventa il braccio destro. La sottile cicatrice rossa sul suo labbro a destra, che diventa la sottile cicatrice color porpora, sul suo labbro a sinistra. Un uomo osserva per la prima volta, con attenzione, il contrario di sé stesso che si guarda. Vorrebbe provare a parlare a quell’uomo e vedere se anche le parole si riflettono allo specchio, oggi potrebbe accadere. Potrebbe recitare un’antica poesia e osservare se stesso che recita, la sua bocca che si muove leggera sulla parole. La sua bocca che si muove leggera all’incontrario sulle parole della poesia.

 

     .inàreg iòus ied ocòuf loc

     aicùrb ol e, osìv out la

     elàs erbbèf anù emòc

     asòisna etàtsE. atnèm id

     arùtiroif ni àig itrò ilgèd

     iròloc izzèrg iad, osòira

     enòclab out led avìr A

 

   Le poesie recitate all’incontrario hanno un loro sottile e misterioso fascino. Perdono la loro natura dolorosa e sembrano esperimenti di musica una volta tanto riusciti. L’uomo allo specchio osserva sé stesso che sorride e si accorge che il suo sorriso é dolce anche all’incontrario. Lo specchio non mente agli uomini che sorridono con dolcezza. L’uomo che si guarda allo specchio guarda gli oggetti che entrano dentro lo specchio. Gli oggetti che si guardano nello specchio fingono indifferenza, ma sono invidiosi del sorriso dell’uomo. Per una volta, sono invidiosi dell’uomo. Attaccapanni, mensole, asciugamani, flaconi profumati, spazzolini, saponi. Perfino le pinzette, create per il dolore, rosicano d’invidia per quel sorriso rovesciato. Un uomo osserva sé stesso che si guarda davanti allo specchio. Vede le sue labbra scostarsi quando aziona i muscoli delle guance. Quei piccoli, infiniti muscoli, che ci rendono riconoscibili e che spesso ci tradiscono. Le sue labbra si tendono come potenti elastici, ma il suo sorriso lascia un leggero vuoto, come una mancanza, che si posa sul dente lasciato scoperto. Un uomo osserva proprio quel leggero ghigno involontario che forma la sua bocca e ne rimane ancora affascinato. La cesura antica del suo taglio, conferma di una estetica che avrebbe dovuto annientarlo. La cicatrice che lo decora, col suo filo di rosso, che corre dal labbro al naso. Il sorriso dell’uomo ha conservato qualcosa dell’animale, del lupo o del cane che ancora convivono in lui. L’uomo si guarda allo specchio e ritrova le linee del volto di sua madre e ne riconosce l’ansia dello sguardo, quando si posava sul suo sorriso spezzato. L’uomo disprezzava il suo stesso sorriso. Il volto, smarrito e dubbioso della madre, ora prende il suo posto nello specchio. E`una apparizione momentanea e dolorosa, che ancora gli ripete: "ti metterò un cerottino sul labbro, così nessuno se ne accorgerà. Che ti ho fatto piccolo mio?".

   L’uomo che si guarda allo specchio osserva le sue labbra che si sollevano piano scoprendo denti d’avorio. Inizia un doloroso conteggio. Una memoria, scandita dai volti con gli occhiali dei dentisti, chini sulla sua bocca. Il suo volto, riflesso sugli occhiali grandi dei dentisti. La sua enorme bocca spalancata, indifesa. Il dolore non si riflette all’incontrario sulle lenti violette dei dentisti. Il trapano che smette di vibrare e si spegne con un sibilo lento. Il respiro che torna regolare e la bocca che si richiude grata. L’uomo allo specchio apre e chiude la sua bocca. Ora sa dominarla. Le vocali si allargano, "aaaaaaaaaaaaa", si chiudono, "uuuuuuuuuuuuu", si restringono, "eeeeeeeeee". L’uomo ritrova nella ginnastica delle sue labbra i difficili esercizi del logopedista. Un uomo osserva i suoi occhi allo specchio e cerca la sua immagine riflessa nella pupilla. Il compito è difficile. Le pupille non si lasciano vincere con facilità. Una donna osserva sé stessa dentro gli occhi dell’uomo. Gli occhi sono troppo piccoli, ma accolgono tutta l’immagine della donna e la accarezzano. Le mani si muovono sulla sua schiena nuda e si fermano. Ascoltano il calore della sua pelle e muoiono lì, accanto al suo cuore. Un uomo osserva e osserva ancora la sua bella immagine davanti allo specchio. I rumori nell’appartamento crescono. Si sentono i clacson delle auto che escono dai parcheggi. Le radio che ronzano. La vita riempie lo specchio dei suoi frammenti. L’uomo si asciuga il viso con un asciugamano pulito. Mette una crema che ne distende la durezza dei tratti. Osserva il rasoio che brilla alla luce della lampada. Lo sciacqua e lo ripone sulla mensola. 

   L’uomo osserva con attenzione la sua immagine profumata, rasata e abbronzata che esce dallo specchio. Fa appena in tempo a scorgersi di profilo e il suo profilo è inafferrabile. L’uomo esce dallo specchio, ma un pezzo della sua spalla vi indugia ancora un poco, il viso é nascosto, mostra solo l’ultimo lembo del suo sorriso rotto. Fra poco, definitivamente, uscirà anche la sua spalla. Prova solo un po’ di vergogna, per quello che dovrà fare fra qualche istante. 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Parkeggi (lui-lei, lui-lei)

Post n°86 pubblicato il 14 Febbraio 2012 da alex.canu
 

PARKEGGI

(lui-lei, lui-lei)

 

 

     "Non avevi un altro posto dove parkeggiare? Proprio qui, sulla piazza principale, a duecento metri da casa sua!".

Gli dice queste parole mentre guarda fuori dal finestrino, con un sibilo di voce, ma avvelenate quel tanto che basta per fargli intendere quanto è arrabbiata. Vedendo il silenzio imbarazzato di lui prova un moto di rabbia e con un soffio di voce, inacidito dal tono beffardo, prosegue:

   "Scusami tanto, sai, se me ne sto comodamente seduta in macchina col tuo migliore amico. Se ti affacci un attimo ci vedi e magari ci fai pure una foto". "Anzi...", - rivolgendosi a lui "se ti sposti e parkeggi la macchina sotto casa sua, ci vede meglio e ci fa pure un saluto".

Lui la guarda sorpreso per quel tono di voce che non le aveva mai sentito prima e rimane muto ad osservarla e a non saper decidere che cosa fare.

"Io me ne vado, fammi scendere, faammi scenderee!"

Fa per aprire la portiera, ma lui si sporge e le tiene la mano, bloccandogliela dolcemente sulla levetta della portiera. 

"No aspetta, ti prego. Le dice".

Richiude la portiera appena aperta da lei e cerca di trovare le parole giuste per parlarle.

" Aspetta, calmati, non andare via. Ecco, adesso mi sposto e ce ne andiamo da qualche altra parte".

   Lei si accomoda sul sedile e sbuffa forte, mentre lo osserva con la coda dell’occhio. Ha messo una maglietta carina stasera, molto aderente e molto scollata. Ha abbinato dei sandali nuovi, argentati, che ha trovato in centro e ha lavato i capelli aggiungendovi un riflesso che ogni tanto li fa apparire leggermente rossi. Non può aver sprecato tutto quel tempo per niente. Lui gira la chiavetta e mette in moto, ma non accende subito i fari. Compie una inversione a U e rivia. Solo poche centinaia di metri li separano dalla strada che esce dalla piazza e che li porta verso la discesa al lago a qualche chilometro dal paese.

"Ma che fai, vai pure contromano?", gli dice lei, "e se arriva qualcuno?"

" Ma chi vuoi che arrivi a quest’ora della notte". Dice lui spazientito.

   Escono fuori dal paese e imboccano la provinciale a tornanti che li porterà giù al lago. E`una notte serena, la luna piena si rispecchia grassa nelle acque nere del lago. Le luci dei paesi che vi si affacciano creano un contrasto che mette in evidenza le due isole che galleggiano in mezzo a quel mare in miniatura. Durante la discesa lui le vede apparire dopo ogni tornante che supera e si ricorda della storia di una regina dei barbari che il suo crudele fratello fece confinare in una di esse e poi uccidere brutalmente. Apre il finestrino e lascia entrare uno spiffero di aria fresca, poi lo richiude e di nuovo il silenzio li riavvolge risucchiandoseli dentro l’automobile. E`notte, il traffico è scarso, pochi fari incrociano in senso inverso. Il silenzio è atroce, lei se ne sta rannicchiata sul suo sedile e guarda distratta fuori dal finestrino. Lui guida nervosamente, strattona la leva del cambio e leva i fari abbaglianti quando incrociano un’altra macchina. Dopo il primo tornante mette la leva del cambio in folle e lascia che l’auto scivoli silenziosa lungo la strada, ora solo il rumore dei pneumatici che grattano l’asfalto e il motore al minimo entrano dentro l’abitacolo.

"Perchè hai messo in folle"? - dice lei.

"Perchè così risparmio benzina e inquino di meno".

"Ah! - replica lei colpita", "ma se poi i freni non ti reggono?"

"Reggono, reggono, non avere paura!"

   Di nuovo il silenzio scende fra i due, ora solo i fari dell’auto bucano il nero della notte. Lui si tocca il labbro superiore con la punta della lingua e sente il segno della cicatrice che si porta addosso fin da quando ha memoria di sè. Fa sempre così nei momenti di nervosismo, o quando è combattuto e non sa che atteggiamento assumere. E`il segnale del suo disagio. Con la punta della lingua cerca quel filetto sul labbro e lo tormenta, oppure se lo pizzica con gli incisivi inferiori, mordendolo come se lo volesse tirare giù e metterlo in pari, per coprire quella lieve fessura che gli lascia leggermente scoperto un dente. E`quella impercettibile fessura, quel leggero ghigno, che non può controllare, che non ha mai potuto accettare di sè stesso e che gli ha procurato molti dei problemi che si trascina fin da quando era un bambino. Quando si guardava stupito quel taglio in mezzo alla bocca, che non aveva suo fratello, nè nessun altro che conoscesse. Allora digrignava forte le labbra per spianarle, ma quelle non si spianavano e la fessura rimaneva sempre li, di un rosa leggermente più scuro della pelle.

   Lei era la ragazza del suo migliore amico, lo sa che non ci si dovrebbe comportare così, ma da qualche giorno si ronzavano intorno. Uno girava intorno all’altra, chissà per quale motivo. Forse per curiosità o per noia o per nessuna ragione affatto. E adesso eccoli li al buio, dentro una macchina presa in prestito, in lenta discesa verso il lago, con il vago presentimento di non fare nessuno dei due la cosa giusta. Con la lingua si fruga nel palato alla ricerca di quella lieve frattura che lo taglia in due e che gli impediva, appena nato, di succhiare il latte dalla madre. Sente un blocco in gola, dovrebbe parlarle, dirle qualcosa, qualsiasi cosa. Per esempio dell’amicizia che lo ha sempre legato al suo ex fidanzato, che non si aspetterebbe una cosa così da lui, con la ragazza con la quale stava fino a pochi giorni fa. Le parole però non riescono ad uscire e tutto rimane avvolto in una confusione che non riesce a dominare. Lui non è mai stato capace di mettere due parole sensate una in fila all’altra. Per lui le parole hanno un mistero e un fascino che non è mai riuscito a comprendere e ad afferrare. Lui sa lavorare bene con le mani e usa il cervello solo quando è necessario. Lei, invece, con le parole è bravissima. Le sa toccare, le sa manovrare bene, se le rigira come vuole. Gli ha detto che fra loro due era finita da un pezzo e che non stavano più insieme, anche se continuavano a vedersi e a far credere agli altri che la loro relazione proseguisse senza problemi. Tutta la discesa verso il lago è scandita dal muso lungo di lei e dalle mani dure di lui aggrappate al volante. Sembra che lo voglia strozzare e lei osserva quelle mani forti che stringono quel povero oggetto come se dovesse morire soffocato da un momento all’altro. Ha la netta sensazione che quel volante sia il suo collo saldamente chiuso fra le mani di lui. Cosa gli dirà fra poco?

   Dopo aver disceso i tornanti imboccano la strada panoramica che costeggia il lago e che d'estate è piena di turisti e di bagnanti. Vi si affacciano dei ristoranti che hanno le sale esterne quasi sulla spiaggia, fatta di sabbia nera. Ora è tutto chiuso e gli edifici, cosi vivaci nella stagione estiva, sono delle sagome scure che si confondono con la vegetazione che li avvolge. Lui vorrebbe fermarsi li, trovare un parcheggio in uno dei tanti viottoli che entrano fin quasi sull’acqua, spegnere il motore e i fari e godersi le mille luci che si riflettono sulla quella calma superficie liquida. Tira dritto, invece e arriva ai primi lampioni che annunciano il piccolo paese sul lago che sembra immerso in un silenzio senza fine. Dopo qualche secondo sentono il trillo di un fischietto e notano che giocano una partita di calcetto in un campetto illuminato li vicino. Il lago è agitato da una leggera brezza che si alza improvvisamente e il vento inizia a muovere le chiome degli eucalipti e delle betulle del piccolo parco, ricavato a ridosso del porto turistico. La ragazza avverte un leggero brivido di freddo sulle braccia nude e si tira su il golfino corto che si è portata tenendoselo sulle spalle scoperte. Costeggiano il campetto e assistono ad un fallo punito dall’arbitro con un calcio di rigore. Lui rallenta per vedere il tiro in porta, dopodiché riparte infilandosi in una stradina buia. Sbaglia ancora una volta, entrando contromano in un parcheggio, dove le auto in sosta sono disposte a spina di pesce. Lui impreca in silenzio e quando trova due posti liberi azzarda una complessa manovra. Porta l’automobile avanti di due lunghezze e poi torna indietro a retromarcia, parcheggiando di culo, in uno spazio stretto che però ha il vantaggio di permettergli di vedere il lago sulla propria destra. Lei lo osserva con curiosità. Alla fine della lunga manovra spegne il motore e le luci e dentro l’auto scende un silenzio interrotto solo dal rumore del vento sugli alberi e dalla risacca del lago che nel frattempo inizia a mostrare qualche cresta bianca.

"Se facevi altri duecento metri trovavi l’altra entrata e non andavi contromano. Parcheggiare bene non è il tuo forte, vedo".

Lo prende in giro, la fa ridere vederlo in difficoltà. Le donne hanno la ferma convinzione che un uomo imbranato è più facile da dominare. Vede il suo profilo illuminato da una luce radente e nota il suo gesto di mordersi il labbro superiore e a bruciapelo gli chiede:

"Cos’è quella cicatrice che hai sulla bocca?"

Lui ha un soprassalto, come se l’avesse colpito con uno schiaffo e per un attimo non sa cosa risponderle.

"Allora?", dice lei, "è una cosa che si può raccontare?"

"Si chiama labiopalatoschisi, ma tutti lo chiamano labbro leporino". - Dice lui sospettoso.

"Come te lo sei fatto?", replica lei incuriosita.

"Non me lo sono fatto, ci sono nato. Avevo il labbro superiore tagliato in due e me l’hanno ricucito quando avevo quattro mesi. Mia madre dice che non riuscivo neppure a succhiare il suo latte".

"Ti fa male?" , dice lei.

"No, sento solo questo leggero taglio qui sul labbro, me lo mordo quando sono nervoso".

"Come ora?", dice lei con un sorriso malizioso.

"Si, come ora", risponde lui.

"A me piace, ti da un’aria da... duro.", dice lei avvicinandosi per guardarlo meglio. 

   La strada sembra precipitata nel buio più pesto, silenzio. Lei apre il finestrino, anche se adesso fa decisamente più freddo e scruta fuori mentre accende una sigaretta che la fa tossire. La spegne dopo due boccate e fruga nella piccola borsetta che poggia sulle ginocchia. Ne estrae un piccolo pacchetto avvolto in una elegante carta nera e lucida e glielo mette sulle ginocchia, con una smorfia di finta indifferenza.

"Ecco", gli dice, "l'avevo preso per te. Non è il tuo compleanno oggi?" 

Lui è sorpreso, accende la luce, non si aspettava il regalo e neppure che lei si ricordasse del suo compleanno. Dice le prime parole che gli vengono in mente, del tipo, non dovevi, non era importante, cose del genere, ma i suoi occhi si illuminano. Lei finge di riprendersi il regalo e per un istante le loro mani lottano insieme. Si incontrano sulla carta e sul nastro argentato che lo chiude. Sorridono imbarazzati e per un istante anche i loro sguardi si incontrano. Lei osserva il taglio sul suo labbro con più attenzione, sta per dirgli qualcosa, ma proprio in quel momento dalla sua borsetta si sente un inopportuno we will rock you dei Queen. Lei sorride come per chiedergli scusa, ma apre la borsetta e ne estrae il telefonino, guarda chi la chiama e osserva lui per sapere cosa deve fare. Lui le fa un cenno col capo e apre la portiera, ma prima di scendere fa in tempo a sentire lei che dice: "Pronto... si scusa... dimmi... no, no affatto... sono a casa...". Lei gli lancia un occhiata complice e gli sorride. 

   Lui scende e richiude delicatamente la portiera dell'auto. Cammina in mezzo al piccolo parco che li separa dal lago e sente il vento, fattosi gelido, penetrargli nelle ossa. Digrigna i denti e stringe le labbra mentre tenta di mordersi la sua piccola ferita. Non ha pensato di prendere la giacca, l'ha lasciata in macchina e, a parte la sua camicia bianca nuova, non ha nient'altro indosso. Se la abbottona, tira giù le maniche e alza il colletto. Infila le mani nelle tasche dei pantaloni e sente il freddo penetrargli tra la camicia e il collo e prova un brivido che gli gela la pelle. Guarda verso l'auto e la vede ridere mentre parla al telefono, intuisce la luce verde dei tasti che rischiarano il suo profilo.

"Quanto dura ancora quel cazzo di telefonata?", dice a se stesso, mentre si dirige verso un casotto di legno che sta in mezzo al parco. Si scopre geloso e la cosa lo infastidisce. Raggiunto il casotto trova un riparo dal vento che sta soffiando e vi si appoggia sentendo la superficie ruvida delle tavole. Pensa che non è li che dovrebbe trovarsi ora, non con lei, non con la ragazza del suo migliore amico. Avrebbe dovuto capirlo subito e già pensa ai problemi che ne nasceranno e alla sua maledetta incapacità di spiegarsi. Se lo mangeranno, lo sa. Pensa al regalo che lei gli ha appena fatto, è rimasto sul sedile, non aveva fatto in tempo ad aprirlo, ma ne immagina il contenuto. Sarà un profumo da uomo pensa, secco e asciutto. Gli piacciono i profumi, rinchiusi in quelle bottigliette opache, dentro quel vetro prezioso. Sente di non averla capita, di non aver capito niente di lei. Pensa a quella domanda a bruciapelo sulla sua cicatrice, sul labbro leporino, ricorda con quale curiosità lei l'aveva osservata prima. 

   Il freddo gli penetra sottopelle e gli gela i capelli in testa. Lancia una rapida occhiata da dietro il casotto di legno e vede buio dentro la macchina, nota solo una piccola luce che si ravviva a intervalli e che rischiara il suo volto. 

"Ha finito di parlare al telefono", pensa, può finalmente decidere di rientrare in auto e mettersi la giacca. Si stringe nelle spalle e affonda maggiormente i pugni in tasca. Quando arriva davanti alla portiera si ferma un istante e la guarda: "L'ho delusa", pensa. Apre la portiera e si mette seduto al suo posto di guida. Lei lo accoglie con un sorriso, mentre finisce di spegnere la sigaretta. Lui si trova il regalo fra le mani e lo scarta. E` un profumo e nota con sollievo che non è lo stesso che usa il suo migliore amico. "Grazie", le dice.

Lei ha finito la telefonata da un bel pezzo, poi l'ha visto scomparire dietro un casotto di legno e ha pensato che era sceso dall'auto perché gli scappava da pisciare. I maschi pisciano dappertutto, tirano fuori il pisello e la fanno in qualsiasi posto si trovino. Che stronzi! Lo osserva con compatimento come se fosse un bambino piccolo. Lui notando il suo sguardo sente di doversi giustificare e allora le dice:"Sono stato dietro quel casotto di legno laggiù per ripararmi dal freddo. Avevo lasciato la giacca in macchina, ma non mi andava di disturbarti mentre telefonavi".

"Potevi prenderla tranquillamente", dice lei sorpresa, addolcendo il suo tono di voce e accompagnandolo con un gesto della mano ad indicare la giacca sul sedile posteriore.

"Ma no, adesso sto bene", dice lui.

   Lei lo vorrebbe abbracciare, ora. Abbracciare perché non era andato dietro il casotto per pisciare. Lo vorrebbe stringere a sé, perché è rimasto li fuori al freddo per lasciarla parlare liberamente al telefono.

"Non è come gli altri", pensa. Lo vede impacciato, non ha azzeccato un parcheggio, ma proprio per questo vorrebbe che lui la abbracciasse e la tenesse stretta. Vorrebbe che lui, ora, la guardasse ancora negli occhi, dove non la guarda mai. Lui invece rimette in moto e compie le sue laboriose manovre per uscire da quel parcheggio. Quando infine ce l'ha fatta, si infila nelle stradine del centro e sembra procedere senza una meta precisa. Improvvisamente prende per una stradina stretta e volta verso lo spiaggione dove i piccoli pescatori lasciano i loro gozzi tirati in secca e dove riparano le reti lasciandole aperte lungo tutta la spiaggia. 

   Passano davanti ad una bella casa, con la facciata ridipinta di fresco che fa risaltare il bel terrazzo in pietra e ferro battuto. Le persiane verdi alle finestre aggiungono un tocco di classica e austera eleganza. Lui pensa che la porterebbe li a vivere se avesse la possibilità. Si lascerebbe crescere un paio di quei cazzo di baffetti da malavitoso per coprire quella cicatrice sul labbro e lei vestirebbe sempre con una vestaglia di raso nero con le spalline sottili, come quelle che lo fanno impazzire quando guarda le vetrine dell'intimo femminile e vede quei manichini che sembrano donne vere girare su sé stessi. Proseguono verso il porticciolo dei pescatori e quando vi giungono parcheggia a ridosso delle barche e scendono insieme dall'auto. Camminano per un tratto a piedi, poi lui improvvisamente le prende la mano e la trascina in una corsa che la fa gridare e ridere. Quando finalmente si fermano batte forte il cuore ad entrambi e ridono, mentre respirano forte con la bocca.

"Basta, basta, ti prego", dice lei con la voce spezzata, mettendosi una mano sul petto per calmare il respiro fattosi affannoso. Lui si volta a guardarla e pensa che è bellissima così, rossa in volto per la fatica della corsa. Qualche ciocca dei capelli si è liberata dal rigore che gli aveva imposto con le forcine e ora le ricade sul viso impigliandosi in bocca, lei lo prende e lo scosta delicatamente con la mano.

"Forse dovrei baciarla ora", si dice lui. Questo gli pare proprio il momento buono. E`una delle poche iniziative che le donne lasciano ancora, completamente, in mano all’uomo. Sta a lui capire quando è il momento giusto, se è bravo. Loro lasciano delle tracce, mandano dei segnali che, ne sono convinte, sono chiari e inequivocabili. Se non li sa comprendere, beh, già da quello si capisce che tipo è. Lui tentenna e non sa decidersi, gli manca il coraggio, pensa che l’amore è come una guerra di posizione. Conquisti una postazione, ma non puoi rimanere bloccato in trincea, devi agire, prendere l’iniziativa, darti da fare. Forse è per questo stress da conquista che molti uomini, dopo sposati, sentono una grande stanchezza e passano il resto della loro vita sdraiati sul divano con un telecomando. Pensa questo e ride, il labbro gli si solleva e lei lo guarda stupita.

"Perchè ridi?", gli chiede.

"Pensavo a noi due dopo il matrimonio".

"Quale matrimonio?", dice lei allarmata.

"Ma no, nessun matrimonio", dice lui.

Rimane voltato a guardarla e lei con due dita accarezza la sua bocca e gli tocca la cicatrice sul labbro superiore. E`leggermente arrossata e percepisce il solco, mentre lo sfiora coi due polpastrelli.

"Ti fa male?", gli chiede, con il tono di voce fattosi improvvisamente serio.

"No", dice lui. "Non è contagiosa, se hai paura di questo e non si trasmette per via ereditaria. E`una malformazione dei geni durante la gravidanza e capita ad un bimbo su ottocento circa, a me è toccato questo piccolo dono". Lei gli da uno schiocco con le dita sul labbro e ride.

"Ahi!", dice lui e ride. "Avevo appena quattro mesi quando mi fecero operare, non ricordo niente".

"E prima dell’operazione com’eri?"

"I miei genitori hanno conservato delle foto, ma io le ho viste per la prima volta solo qualche anno fa. Ce n’è una dove sto sdraiato nudo sopra il lettone, come tutti i bambini del mondo; in un altra allungo le mani per afferrare qualcosa. In una che mi piace tanto, sto morendo di freddo e ho un cappello di lana gialla con una pallina in testa. Ho gli occhi chiusi e mia madre dice che dopo quella foto ho pianto. In ognuna di quelle immagini si vede un bambino con un taglio orrendo sul labbro superiore che entra e si perde nel naso. E`causato da una malformazione del palato che durante la gestazione non si è saldato e che interessa anche le due metà delle ossa dei denti superiori, lasciando una frattura che separa anche le due metà del labbro. Si nasce così ed è uno shock anche per i genitori che si aspettavano il loro bel bambolotto". 

"Ma tu parlavi di un operazione, vero?", dice lei scossa.

"Si, tra il terzo e il quarto mese di vita, quando si raggiungono almeno i sei chili di peso per sopportare una anestesia totale. Allora ti saldano le ossa del palato e poi ti chiudono il taglio che hai sul labbro. Da quel momento in poi assumi un aspetto “umano” e anche i tuoi genitori hanno più facilità ad accettarti. Ti da fastidio se ti racconto queste cose? Sai, è la prima volta che lo faccio e non so perchè ora lo racconto proprio a te e proprio il giorno del mio compleanno".

"Oggi fai una cosa nuova", dice lei, "é come se tu rinascessi, ma non so se vorrei vedere quelle fotografie, almeno non subito".

   Camminano insieme, mentre parlano e non si sono resi conto di tenersi per mano. Quando lo capiscono ridono entrambi, ma l’imbarazzo dei primi momenti è svanito. Camminano lungo la spiaggia sfiorando le reti e le barche rovesciate. Una barca più grande e pretenziosa delle altre è colorata interamente di rosso con una fascia azzurra, sta ritta sulla sabbia. Ha dei terribili denti aguzzi sulla prua dipinti di bianco, dentro una bocca spalancata come quella di un pericoloso pescecane. Lei gliela indica e ridono. Sopra la bocca spalancata una terribile scritta nera indica: Lucifero!

"Forse è per spaventare i poveri pesci del lago e farsi prendere più facilmente", dice lui. Ridono.

"Vediamo se prende anche me", dice lei, appoggiandosi con le spalle alla barca e fingendo di essere un pesciolino. Lui si avvicina e le passa le mani sotto il maglioncino prendendola alla vita. Col suo corpo fa una leggera pressione sul corpo di lei. Li appoggiati su quella misteriosa barca tutto sembra più facile, anche il vento pare essersi calmato. La luna se ne va a zonzo senza meta nel cielo nero. Passa improvviso un motorino con due ragazzi a bordo che spezza col suo faro il buio che li protegge avvolgendoli. Gridano qualcosa di osceno e ridono, mentre si allontanano. E ora il buio è proprio vero, è silenzio ed è notte.

"Pare che funzioni", sussurra lei, "i pesci abboccano".

  La sua maglietta scollata, la sua gonna leggera, le sue gambe forti e abbronzate, i sandali d’argento eleganti, il golfino leggero e corto, il sorriso, ora dolce, nei suoi denti, le sue dita lunghe e affusolate, i suoi capelli, così simili al bosco, la sua pelle, così vicina alla sua.

"Non hai freddo?", le dice.

"No, sto bene qui", gli risponde con un filo di voce. Poi l’attira più forte a sé e sente le sue labbra per la prima volta. Il suo corpo è elastico, la corporatura è robusta e piena, adatta per i figli, ma è straordinariamente morbida e leggera. Il suo profumo delicato lo inebria. Sente la punta della sua lingua cercarlo li dove ha la sua ferita e rabbrividisce. 

"Lucifero!", pensa.

Poi si abbandona e sente il lago. Tutto quel mare di acqua entrare dentro di lui.

 
 
 

FRAGILE: Ballerina

Post n°85 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da alex.canu
 

 

 

 

   Devo stare molto attento a come raccontare questa cosa, non è una storia come tutte le altre. Voglio dire che quello che mi è accaduto tanto tempo fa ha ancora il potere di tenere in sospeso le mie emozioni. E’ come se, ogni volta che ne parlo, succedesse di nuovo, ma ogni volta un pezzo della storia si distacca, perdendosi come un relitto stanco per non ritrovarlo più la volta successiva. Non aggiungo mai niente al racconto, anzi ne tolgo sempre qualche pezzo, vorrei arrivare a definire con due semplici parole, quello che provo. Non voglio aggiungere niente neanche stavolta, ma come sempre una parte della storia verrà dimenticata. Voglio limitarmi ai fatti, al racconto nudo di quello che mi accadde, una notte di novembre, nella sala d'aspetto della stazione Termini a Roma.

 

   Viaggiavo con un mio amico, un tipo sveglio, che sapeva come ci deve comportare. Eravamo partiti da Firenze intorno alle dieci di sera alla volta di Roma, con un treno che avrebbe impiegato almeno tre ore. Prevedevamo di arrivare alla stazione termini intorno all'una e li attorno cercarci un posto economico dove passare la notte. Contavamo l’indomani di girare la città e visitare qualche museo. Il mio amico aveva la piantina di Roma e non ci saremmo certamente persi, mi fidavo ciecamente di lui.

 

   Il treno arrivò puntuale e silenziosamente scivolò all'interno della stazione quasi deserta, fece uno sbuffo di vapore e si fermò definitivamente. Prendemmo i nostri pochi bagagli e scendemmo a terra. La polizia ferroviaria ci guardò distrattamente senza darci grande peso. Arrivati all'uscita, quella che immette verso piazza dei cinquecento, il mio compagno di viaggio mi trattenne per il braccio dicendomi, "non ci conviene uscire per strada a quest'ora di notte, potremmo fare dei brutti incontri", "chi vuoi che ci sia per strada a quest'ora?", gli dissi. "Roma è pericolosa di notte, ci conviene rimanere all'interno della stazione e dormire qui. Per quel poco che manca a far giorno ci risparmiamo i soldi dell'albergo, ci infiliamo nella sala d'aspetto, ci sdraiamo sulle panche, facciamo i turni e ci addormentiamo li". Non mi sembrò una cattiva idea, il mio amico era furbo, l'ho detto. L'idea di uscire e camminare per le strade buie di Roma non piaceva neppure a me. Camminammo sul marciapiede lungo i binari e arrivammo quasi all'uscita. Sulla sinistra, trovammo la sala d'aspetto che di notte era lasciata aperta per dare rifugio ai senza tetto e ai barboni. Era riscaldata e il gelo che ci eravamo trascinati lungo i binari iniziò rapidamente a sciogliersi.

 

    Il mio amico, con scarsa convinzione, disse che era comoda e accogliente e ci guardammo attorno persi nell'immensità del grande ambiente. La volta a botte era altissima, i muri erano sporchi e grigi di polvere. Dall'alto pendevano dei fili lunghissimi a cui erano attaccati enormi lampadari che avevano metà delle lampadine rotte e fuori uso. Le panche in legno scuro, addossate ai muri erano occupate da persone che già vi dormivano. Altri erano seduti e parlavano bevendo da bottiglie di vino. Notammo che gli occupanti della sala d'attesa non erano passeggeri come noi, ma misera gente, abituata da chissà quanto tempo a dormire li dentro. Il mio amico si guardò intorno con aria sospettosa e disse che saremmo dovuti stare molto attenti ai nostri bagagli, perchè qualcuno di quelli che stavano li dentro avrebbe potuto rubarceli. Trovammo un posticino libero a metà del salone e ficcammo i bagagli sotto le panche, il mio amico sbadigliò e si allungò sul sedile di legno, io mi spostai e gli dissi che poteva dormire tranquillo, il primo turno l'avrei fatto io. Mi pregò di svegliarlo verso le cinque, dopodichè si girò verso il muro e neanche cinque secondi dopo si addormentò profondamente. 

 

    I rumori della stazione arrivavano attutiti e lontani, qualcuno ogni tanto faceva capolino, aprendo la pesante porta vetrata e lasciando entrare una corrente d’aria gelida. Il grande orologio appeso alla parete della sala, sembrava non avere alcun interesse a contare le ore e i minuti. Lo squallore di quel luogo pareva bloccare persino lo scorrere del tempo, avvolgendolo in una invisibile ragnatela che impediva alle grosse lancette di muoversi liberamente. Eppure se non lo si guardava per qualche tempo, te lo ritrovavi avanti di dieci minuti, come se avesse riguadagnato i suoi giri per il fatto stesso di essere ignorato.

 

   La sala d'aspetto si andava riempiendo di gente di tutte le specie, donne e uomini dall'età indefinibile, accomunati soltanto dalla sporcizia e dalla vaghezza degli sguardi che apparivano fissi e ottusi. Alcuni trascinavano enormi buste di plastica, altri fumavano sigarette e bevevano birra o vino. I capelli erano induriti e sporchi e la pelle appariva grigia e carica di croste. Camminavano trascinando i piedi dentro scarpe fuori stagione ridotte a brandelli. Concentrai l’attenzione su un uomo con un gran cappotto militare, seduto di fronte a me, ma dall'altra parte della sala. Se ne stava immobile con un'aria imbronciata, come certi animali allo zoo. Sembrava che mi stesse osservando. Lo guardai a lungo, ma questi improvvisamente saltò in piedi e si mise a gridare, "Cèrcala nel paese suo, se la trovi ancora! Che vuoi da me?". Io mi spaventai e distolsi lo sguardo, ma lui mi veniva incontro rapidamente, urlando ancora la sua folle domanda. L'uomo arrivato a pochi metri da me si fermò di colpo, come se una forza misteriosa l'avesse bloccato, ma continuò a guardarmi in silenzio senza più gridare o dire nient’altro. Rimase li in attesa di una mia reazione e vedendo che me ne stavo immobile, tornò indietro al suo posto, borbottando ancora qualcosa di incomprensibile, voltandosi ancora a minacciarmi. Questo fatto mi scosse e non riuscii più a pensare minimamente all'idea di dormire in quel luogo di matti.

 

   Nella sala d'aspetto scese un silenzio angosciante,  rotto ogni tanto da colpi di tosse e rapidi brontolii, e fu allora che una donna, coperta appena da un vecchio vestito grigio che le lasciava scoperte braccia e  gambe, si alzò in piedi, e scalza, si mise a danzare. Era piccola e magra, ma stranamente elegante, come se sporcizia e  degrado mentale nel quale viveva, non potessero nulla contro l’elegante distacco che emanava dalla sua persona. Gli occhi erano profondi e neri e portava capelli lunghi, sporchi e grigi, sciolti sulle spalle.

 

   Non avevo notato la sua presenza, si era tenuta in disparte, in un angolo della gigantesca sala d'aspetto, buttata su dei cartoni che si trascinava appresso, come fossero una sua personale suite d'albergo. Si alzò in piedi, tese collo e busto, rovesciò all'indietro la testa e diede una violenta scrollata ai capelli. Gonfiò il petto e pose le braccia ad anello, come una ballerina davanti ad un invisibile specchio. Le gambe si tesero forti portando in avanti la destra e sollevandola, tendendo la punta del piede in avanti. Fece una rapida corsa e si portò al centro della sala, fra le grida e le risate degli altri barboni che la chiamavano ehi bocca di rosa, vieni qui da noi! Lei si fermò e piegò la spalla verso sinistra, accompagnandola da un lieve movimento della testa che ne seguiva la direzione con lo sguardo. Si lasciò andare ad una camminata sghemba, come se zoppicasse. Sembrava un manichino a cui avessero tagliato alcuni fili, lasciandone altri saldamente attaccati. La sua danza era disarmonica, eppure straordinariamente espressiva. Riprese una rapida corsa verso il fondo che si concluse davanti ad un uomo che fumava e rideva di lei toccandosi i genitali, la donna portò indietro le spalle e lo fissò dritto negli occhi. Esplose in una risata soffocata e tornò indietro, rinculando lentamente, senza staccargli mai gli occhi di dosso. Pensai che la donna dovesse essere uno di quei tanti matti che stavano li dentro. Eppure la sua improvvisa e inaspettata danza aveva portato un soffio di inquietudine e di strana grazia mescolate insieme, come un piccolo regalo, prezioso e sporco di follia. La ballerina, tornò a distendersi sopra il suo letto di cartoni e non si mosse più, la sua esibizione non durò più di tre minuti. Nella sala d'attesa le voci e le risate di scherno si spensero e anch'io dopo un po' cedetti a qualche momento di sonno. Mi svegliò il mio amico dicendomi che, se ci fossimo sbrigati, avremmo trovato i bagni ancora liberi, li ci saremmo potuti lavare e darci una sistemata. Lui sapeva sempre cosa bisognava fare, era un tipo pratico. Dopo lavati e fatta un’abbondante colazione, prendemmo giù per via Cavour e raggiungemmo il colosseo e i fori imperiali, da li risalimmo verso il campidoglio e crollammo, stanchi morti, sui sedili in pietra del palazzo senatorio. Mi fece notare il disegno della piazza, disse che era opera di Michelangelo, "la vedi quella stella? l'ha disegnata proprio lui, ma non è mai riuscito a vederla, perchè l'hanno realizzata solo durante il  fascismo". Io avevo un paio di scarpe strette che mi facevano un gran male e non m’importava niente di Michelangelo, del fascismo e neppure della sua stella, di stelle ne vedevo già abbastanza per conto mio. La nostra giornata romana finì ancora alla stazione termini, dove ritornammo per prendere il treno che ci avrebbe riportato a casa, e della ballerina scalza e sporca mi dimenticai completamente.

 

   Il racconto si sarebbe potuto concludere anche qui e forse, di bocca di rosa, non mi sarei ricordato più per il resto della vita. Non credo neppure di averne mai fatto parola col mio vecchio compagno di viaggio che ho, nel frattempo, perso di vista.

 

   Una sera di molti anni dopo avevo degli ospiti a cena, era inverno e bevevamo qualcosa davanti al camino che era incredibilmente caldo e scoppiettante. Fuori soffiava un vento gelido di tramontana e dalle finestre potevamo vedere in mezzo al buio i bianchi rami degli alberi, che sembrava stessero per schiantarsi a terra. Avevamo appena finito di cenare e, lo ricordo perfettamente, per terra, disteso, avevo un bellissimo tappeto di lana, dai colori caldi e brillanti. Bevevamo il nostro liquore davanti al camino, in piedi sul bellissimo tappeto e l'atmosfera era calda e rilassata. Sentimmo improvvisamente suonare al campanello, ci guardammo stupiti, chi mai poteva essere a quell'ora della notte? Andammo tutti verso la porta, ma nessuno pareva avere il coraggio di aprirla. Il campanello squillò ancora e fu come un tuffo al cuore, perchè era stato così forte e inaspettato. Ci guardammo a lungo, stranamente preoccupati, quindi allungai la mano verso la maniglia e feci scattare lentamente la serratura, la porta si aprì.

 

   Davanti a noi apparve un enorme blocco di ghiaccio, ritto proprio davanti alla porta. Dentro questo grande parallelepipedo gelato si intravvedeva, come imprigionata al suo interno, una vaga figura di cui non potevamo dire se era di bestia oppure umana. Decidemmo quindi di trascinarlo dentro casa. L'impresa non fu facile, perché il blocco di ghiaccio scivolava continuamente dalle mani e spesso dovemmo adagiarlo sul pavimento, dove lasciava una scia di acqua, come  bava di lumaca. Arrivati nella sala riscaldata dal camino ve lo ponemmo davanti e aspettammo che il grande cubo di ghiaccio iniziasse a sciogliersi.  Eravamo tutti raccolti intorno ad esso, ansiosi di sapere a chi appartenesse la figura prigioniera al suo interno. Il ghiaccio si scioglieva lentamente, lasciando sul pavimento una pozza d'acqua che però evaporava con rapidità sorprendente, non lasciando sul prezioso tappeto nessun alone di umidità. Quando il calore del camino sciolse completamente il ghiaccio, apparve una figura di donna, quella donna. La stessa che tanti anni prima danzò scalza, con i piedi sporchi, nella sala d'aspetto alla stazione termini. Naturalmente nessuno la riconobbe, perchè nessuno ne sapeva l'esistenza, solo io ricordai i suoi profondi occhi neri, le sue spalle ossute, i lunghi, sporchi capelli grigi. Portava ancora quel suo vestito scuro, con la chiusura lampo dietro, vecchio  e logoro. Il viso, le mani, le gambe nude, i piedi, tutto era come allora, identico. Le donne fecero una smorfia di disgusto e gli uomini si allontanarono di qualche passo per l'odore acre che emanava. Solo io rimasi impietrito davanti a lei, sbalordito e incredulo. La donna liberò la chiusura lampo e lasciò cadere il leggero vestito di cotone che le si raccolse ai piedi. Con grande stupore constatammo che la parte del corpo protetta dal vestito, era incredibilmente bianca e pulita, mentre braccia, gambe e collo erano pieni di croste di sporcizia. Il suo corpo era dolce e desiderabile e istintivamente, senza intenzionalità alcuna, alzai la mia mano aperta verso il suo seno bianco. Solo allora lei si voltò verso di me, e lo fece lentamente, come in un rallenty cinematografico, inchiodando i suoi occhi profondamente dentro i miei, come a dire "non farlo". Trattenni la mano, a pochi centimetri dal suo seno, ne sentivo appena il calore che ne emanava, quindi la ritrassi piano. 

 

   La donna si sedette su una poltrona incurante della sua nudità. Ci facemmo tutti intorno a lei, invitandola con il nostro silenzio ad iniziare il suo racconto. Distese le mani lungo i braccioli della poltrona, come a saggiarne la consistenza del tessuto, come chi si riappropria, dopo un lungo periodo di tempo, di una cosa che le appartenga. Quindi con una leggera smorfia di fastidio cominciò il suo racconto: “Mi chiamo Roxanne, disse, ma nessuno ha mai saputo di questo mio nome. Qui mi conoscono tutti con quello di una vecchia canzone che preferisco dimenticare e che è legata al modo in cui mi sono sempre guadagnata da vivere…”

 

   La voce della ballerina si fece via via sempre più profonda e rilassata, il suo racconto si perdeva nello scoppiettare del fuoco del camino. Del ghiaccio ormai sciolto da cui proveniva non rimase nessuna traccia sul tappeto di lana. In quel momento non me ne seppi dare una ragione plausibile, ma ora, a distanza di tanti anni, le cose mi appaiono nella loro  disarmante verità.

 

   Ma questa evidentemente è un’altra storia.   

 

 

 

 
 
 

STORIA DEL DECIMO FIGLIO (personaggi del racconto)

Post n°84 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da alex.canu

Personaggi del racconto

 

I genitori dei dieci figli:

Aisentha Isphra  e Anzichu Chnua-Munchoni  

 

I dieci figli, in ordine di nascita:

primo figlio:     Nughàvi Chnua

secondo figlio:  Ghelànu Chnua

terzo figlio:      Mihlùsa Chnua

quarto figlio:    Benìah Chnua

quinto figlio:     Epihnèa Chnua

sesto figlio:      Miràha Chnua

settimo figlio:   Jàhnua Chnua

ottavo figlio:    Tothòi Chnua

nono figlio:      Itthòriu Chnua

decimo figlio:   Agàhniu Chnua

 

I nonni materni:

Benìah IsphraMihlùsa Nanhas

 

altri personaggi:

Tia Lehàna.................................. la levatrice

Babài Esòhle............................... il vecchio prete

Sihlùe.......................................... fidanzato di Miràha

Don Simàha................................. il vecchio medico di famiglia

 
 
 

STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio primo

Post n°83 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio primo

Nughàvi Chnua   

 

 

   Aisentha non si accorse del suo primo figlio fino a quando non sentì una fitta forte all'addome. Pensava che fosse quell'erba che aveva colto la sera prima e che non aveva fatto star bene neppure suo marito per tutta la notte. Ma le fitte continuarono e fu lui a dirglielo: "aspetti un figlio da me", le disse e fu tutto. Il bambino dava calci nella pancia e non la lasciava riposare e quando lei si lamentava il marito alzava le spalle e diceva che presto le sarebbe passato tutto. La pancia cresceva e quando fu l'ora di sgravarsi arrivò la vecchia levatrice del paese e le cavò fuori un maschio di tre chili con due occhi lividi dalla rabbia. Del primo figlio ebbe subito paura e lo chiamò Nughavi. Lo allattò col suo latte, ma non lo faceva volentieri perchè il bambino si avventava sul seno mordendole i capezzoli con voracità. Sembrava che volesse nutrirsi della sua carne piuttosto che del suo latte. Anzichu diceva che era un torello e che così fanno i maschi. Non era vero, ma non sapeva che altro dirle. Aveva intenzione di paragonarlo al Mascelluto nazionale, ma rinunciò quando si rese conto che l’olio di ricino era stato un gioco, in confronto alla follia collettiva che si andava preparando, con l’idea di sbarcare in Abissinia, per civilizzare i pochi selvaggi che la abitavano e prendersi le poche ricchezze che sarebbero riusciti ad arraffare. Lui di abbandonare il suo lavoro, il suo paese e, ora, anche il suo primo figlio, proprio non ne voleva sentire parlare.

   Quando anche Nughavi ebbe compiuto i sei anni, Anzichu lo portò in campagna con sè. Lo vestì con un vecchio cappotto che Aisentha ebbe adattato e gli fece confezionare un paio di scarponi da masthru Filippu, il calzolaio di Issòghene. Gli raccomandò di rinforzarli forte, con i chiodi ben piantati sulla suola perchè, gli disse con orgoglio, "è un torello, saltella e corre e queste scarpe le distruggerà in meno di un anno". Quando fu l'ora Anzichu lo svegliò che non era l'alba e lo caricò mezzo addormentato in groppa all'asino, dietro di lui. In campagna Anzichu diventava un'altra persona, era felice di stare solo con gli alberi e la terra da coltivare. Insegnò a Nughavi a potare l'ulivo,  a riconoscere il vento che agitava la loro vallata e dargli il nome. Gli insegnò a capire il momento esatto in cui i primi, timidi fili di grano, bucavano la terra e, simili a erba comune, si affacciavano al cielo. Gli insegnò a valutarne, fin da quel primo momento, la qualità e la consistenza e a prevedere gli esiti della mietitura. Nughavi faceva domande che stupivano il padre, gli chiese se era possibile alternare le coltivazioni e Anzichu gli rispose felice che questo era normale, che lui stesso alternava il grano con le fave, "due anni grano e un anno fave", gli disse e Nughavi ripeteva contento: "due anni grano e un anno fave". Anzichu lo amava, lo vedeva simile a lui, gli era facile insegnare al figlio e Nughavi apprendeva con facilità. Anzichu lo lasciava spesso libero di correre per la campagna e quando, una volta tornò spaventato,  gli insegnò a non aver paura dell'avvoltoio; gli disse che il suo aspetto non corrispondeva alla sua indole; gli disse che l'avvoltoio non attacca i vivi, ma li lascia tranquilli, aspetta la loro morte e poi pulisce la terra. Disse al figlio di diffidare dell'aquila e della poiana, che sono animali belli, ma infidi. Anzichu fece costruire una piccola roncola per il figlio e, quando venne giugno, lo mise in mezzo agli altri uomini a mietere il grano. La sera, quando  tornavano a casa, Nughavi si addormentava sulle grandi spalle del padre, il dondolio dell' andatura dell'asino, accoglieva la stanchezza del bambino che era. 

   Nughavi però, nascondeva in sè un doppio aspetto della personalità che si andava formando, la vicinanza col padre, che ammirava come un eroe, lo inorgogliva. Gli piaceva osservarlo mentre lavorava, come buttava le olive dentro i sacchi di juta neri di terra. Gli piaceva vederlo contrattare col padrone del frantoio e poi fare la guardia, perchè non lo truffassero con il ricavato di olio. Nughavi amava immensamente il padre e forse, o proprio per questo, disprezzava la madre, a cui dava impunemente del "tu", cosa che non avrebbe mai fatto col padre a cui dava correttamente del "voi". La sua doppia indole lo portava a violenze gratuite, che perpetrava contro piccoli animali innocenti a cui infliggeva i supplizi più crudeli e questo era l'unico aspetto che Anzichu non riusciva a correggere del proprio figlio. Lo lasciava fare, convinto che col crescere sarebbe cambiato, ma quando vedeva Nughavi strappare le zampette agli insetti che teneva prigionieri tra  due dita, non ci vedeva dalla rabbia e gli scaricava addosso tanti schiaffi da lasciarlo per terra come morto. Aisentha lo raccoglieva e gli sussurrava piano "ssh, non è niente, ma lascia in pace quei poveri animaletti". Nughavi non piangeva, ma capiva che nel padre c'era una doppia indole, esattamente come in lui e la cosa pareva, stranamente, dargli piacere. Tutto questo si manifestò già all'età di due anni. Nughavi vide la pancia della mamma crescere tesa e rotonda come quella di un cocomero, gli piaceva toccarla con la mano. La mamma lo carezzava e lui tornava contento ai suoi giochi. Uccideva lucertole e cadelanas e acchiappava cavallette che le portava in dono. Si divertì meno quando, un giorno, al posto della pancia gonfia, sentì uno strillo forte, che non era il suo, provenire dalla camera dei genitori. Il padre gli mostrò un topo bagnato con gli occhietti chiusi, come quelli che uccideva a sassate, e quello fu il suo primo istinto nel vederlo. La voce del padre gli disse che il topo si chiamava Ghelanu e che ora aveva un fratellino con cui giocare al posto dei piccoli animali che torturava nelle maniere più fantasiose prima di ucciderli. Aveva da poco compiuto i tre anni e comprese in un lampo che era appena sceso di un gradino. Nughavi se ne stette immobile ad osservare la bestiolina che agitava le sue gambette e la sua bocca si increspò in un sorriso aspro quando si ricordò dove il padre aveva nascosto la fionda, che gli aveva sequestrato qualche giorno prima. 

 
 
 

STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio secondo

Post n°82 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da alex.canu

 Figlio secondo

Ghelànu Chnua  

 

 

     Ghelanu era rotondo e sano, venne al mondo sette giorni dopo che il tempo del parto era finito e nessuno sapeva spiegarsi perchè questo secondo figlio non si decidesse a nascere. La levatrice che veniva tutti i giorni a vedere a che punto stava la puerpera diceva che era normale, che si poteva aspettare altri sette giorni. Aveva assistito una donna alla sua 42esima settimana e tutto era andato bene. Il padre però era costretto a non andare al lavoro e questo lo rimproverava mutamente alla moglie. Quando finalmente nacque strillò così forte che Nughavi, suo fratello, lo sentì in strada, dove il padre lo aveva cacciato. Quando lo richiamò non volle entrare a vederlo e allora il padre lo prese per il braccio e lo portò dentro. Vide la madre sul letto che gli sorrise debolmente e gli accarezzò i capelli prima di addormentarsi esausta. Quando tia Lehana gli mostrò il fratellino lui disse che sembrava un topo, il padre gli assestò un ceffone sul viso e lui giurò che si sarebbe vendicato. Ghelanu era un bimbo allegro e sorrideva a tutti, Nughavi questo non lo sopportava e gli dava dei pizzichi nelle gambe che lo facevano strillare e gli lasciavano dei lividi scuri. Quando Ghelanu aveva due anni Nughavi piegò i due denti centrali di una forchetta e la diede al fratellino indicandogli l'unica presa di corrente della casa. Ghelanu si incuriosi per quel gioco e infilò i due denti dritti nei buchi della corrente, la scossa che prese lo scaraventò lontano. Quando la madre accorse lo trovò a terra paralizzato. Vide la forchetta ancora infilata nella presa e capì che non poteva averlo fatto da solo, ma di Nughavi non c'era traccia. La sera ne parlò col marito.    

 
 
 

STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio terzo

Post n°79 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio terzo

Mihlusa Chnua

(la bella) 

 

 

     Con una tempestivita sorprendente in due sposi provvisti della sola licenza elementare, Anzichu e Aisentha, allo scadere preciso dei due anni dalla nascita di Ghelanu, misero al mondo il terzo figlio. Per la precisione si trattava di una figlia, la prima femmina dopo due maschi. La madre tirò un sospiro di sollievo e pagò con un supplemento la levatrice nuova, tia Lehana che, da appena un anno, era venuta a lavorare a Issòghene, dopo che l'altra se n'era andata in pensione.- Sarà una femmina, vedrai Aisè, - le ripeteva spesso. E una femmina venne e nacque nello stesso letto dei due figli precedenti. La chiamarono Mihlusa, come la nonna materna che rimandò indietro tutti gli uomini, che il padre suo le voleva far sposare, finchè non le diedero quello che voleva lei, Benìah, un cavallaro che le aprì uno zilleri eternamente pieno di gente. Una sera che Benìah rientrò e vide il locale pieno di uomini, realizzò che non poteva andare così e cacciati fuori tutti, chiuse e non riaprirono più, Mihlusa Nanhas era sua e tale doveva rimanere. Nughavi e Ghelanu, incuriositi, andarono a vedere la nuova sorellina e si accorsero che era diversa da loro. Sgranarono gli occhi sul taglio che aveva in mezzo alle gambette e pensarono che fosse malata. Chiesero mute spiegazioni al padre, ma questi non capì e li rimandò fuori dalla stanza. Nughavi aveva già compiuto quattro anni e mezzo e Ghelanu aveva passato da poco i due. Mihlusa si presentò con una massa di capelli neri che avrebbe poi curato per tutta la vita con dedizione maniacale. Succhiava il latte materno con voracità da maschio, per poi addormentarsi di colpo sul seno di Aisentha. La mamma la metteva nel suo letto e Mihlusa si risvegliava allo scadere preciso delle tre ore per la poppata successiva. Non piangeva, nè si svegliava mai durante la notte. Per Aisentha era il paradiso dopo i due maschi e si affezionò subito a quella figlia serena. Quando stavano con la sorellina, Nughavi e Ghelanu non litigavano mai e le tenevano la mano, mentre le agitavano davanti agli occhi mazzi di mollette del bucato legate insieme. Anzichu, in un giorno particolare, arrivò a scrivere persino una poesia per quella figlia che sembrava una benedizione del cielo. Mihlusa portò la gioia senza saperlo, senza volerlo, tutti le volevano bene. Quando aveva quasi tre anni Nughavi convinse Ghelanu a metterla in groppa all'asino col quale il padre conduceva i lavori in campagna. Disse al fratello di reggerla forte, quindi punse l'animale con un coltellino che lo fece saltare per aria dando calci a vuoto. Ghelanu non riuscì a tenere Mihlusa che cadde a terra ferendosi alla testa. Alle grida della bambina accorse Anzichu e Nughavi accusò il fratello. Ghelanu non ebbe la prontezza di difendersi e si buscò le cinghiate sulle gambe nude. A Mihlusa rimase un segno, una piccola cicatrice sulla fronte, all'altezza del sopracciglio destro, che le impedì per tutta la vita di inarcarlo correttamente. All'età di tre anni la bambina somigliava ad una bambola, con due graziose fossette sulle guance e le trecce nerissime che le arrivavano alle ginocchia. Un giorno la madre le disse che avrebbe avuto una bambola vera con cui giocare. Le prese dolcemente la manina e se la posò sul ventre che iniziava già a mostrarsi. Mihlusa sorrise e subito iniziò a fantasticare sui nomi che avrebbe potuto dare al suo nuovo giocattolo. Poco più in là Nughavi scartò col piede un pesciolino d'argento che aveva scovato e lo schiacciò sul pavimento, mentre osservava la madre, di nuovo con la pancia gonfia, con un muto sguardo di rimprovero.

 
 
 

STORIA DEL DECIMO FIGLIO i due genitori

Post n°78 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

I genitori

Anzichu Chnua-Munchoni e Aisentha Isphra  

 

 

     Anzichu era l'ultimo di quattro figli, tre maschi e una femmina, ma la sua famiglia durò poco. La madre morì che aveva cinque anni appena, senza nessuna spiegazione apparente. I due fratelli maggiori si sposarono presto e si dimenticarono di lui e la sua unica sorella morì di talassemia. La composero su un letto e le aprirono gli occhi per farla sembrare viva, le scattarono una foto, le richiusero gli occhi e la seppellirono. Anzichu conservava gelosamente fra le cose più care quella immagine e la teneva dentro un bauletto di legno, chiuso da un lucchetto che nascondeva sotto il letto. Quando la madre morì il padre lo diede come "figlio d'anima" a sua zia, che figli non ne aveva e lei lo allevò come se fosse suo, dandogli anche il suo secondo cognome, Munchoni.

   Aisentha era la seconda di ben sette figlie femmine e un solo maschio, detto Dindhia come il tacchino, di cui non si trovarono mai tracce di giocattoli degni del suo sesso. Aisentha non era bella, era taciturna e modesta e ubbidiva agli ordini di suo padre, Benìah Isphra, con docilità sorprendente, ma sapeva cantare con una voce così calda e profonda che la gente si fermava per la strada quando lei infilava la spoletta tra i fili tesi di lana e intonava i suoi gosos. Già a sette anni venne avviata al lavoro del telaio che svolse con regolarità fino alla vecchiaia, tirando colpi di pettine sui fili che intrecciava uno dopo l'altro, accompagnandoli con quelle canzoni che tutto il vicinato ascoltava.

   Anzichu, quando compì sette anni, e li compì a Giugno in tempo per la trebbiatura, venne portato da suo padre in campagna a far la guardia al raccolto e ve lo lasciò anche per la notte, da solo. Prima di andare via gli accese un fuoco sull'aia, intimandogli di non lasciarlo spegnere mai, perchè sarebbero arrivati i ladri e s'untuzhu. Anzichu vegliò sul fuoco per tutta la notte e non permise che si spegnesse e nè i ladri, nè s'untuzhu, per quella notte vennero a spaventarlo. durante l'estate Benìah, il padre di Aisentha, portava le sue sette figlie, Mihlusa sua moglie e l'unico maschio ai bagni al mare. Caricava tutto su un carro tirato da due robusti cavalli da soma e alle tre di notte partivano. Il viaggio era lungo e alle otto del mattino iniziavano a sentire il profumo delle alghe marce tipico di Salighèra. Alle nove avevano i piedi in acqua e camminavano scalze, sulla sabbia bianca dura e compatta del lido. Benìah, liberati i cavalli, tirava su le stanghe del carro e vi issava un grande telone a righe che fungeva da riparo contro il sole. All'età di sedici anni anche il padre di Anzichu morì, ma lui finse di non accorgersene, lo pianse molti anni più tardi, quando gli venne la velleità di scrivere poesie. Ne compose una in rima, arenandosi alla terza strofa. Non aveva la più pallida idea di come concluderla, ma lui sosteneva sempre che era stata l'emozione del ricordo ad averlo vinto. Partì soldato in guerra e quando ritornò era cambiato, aveva adesso un paio di baffi corti e duri. Parlava poco e si irritava facilmente. Continuò il suo lavoro di agricoltore e quando sua zia morì fu solo per davvero.

    Una sera si fece coraggio e andò a bussare alla porta di babbo Benìah. Gli chiese Manthoi, la quarta figlia, la più carina di tutte, ma Benìah gli spiegò che non poteva dargliela perchè era troppo piccola per lui. Allora gli propose Aisentha, ma Anzichu la rifiutò. Dopo qualche giorno bussò ancora alla porta di Benìah e accettò la secondogenita, aveva trentatre anni, disse e gli serviva una donna. Una settimana dopo venne invitato a prendere il caffè e fu così che Aisentha conobbe il suo futuro sposo, ci rimase male però, perchè se lo aspettava più giovane. Lui le regalò degli amaretti e il fidanzamento fu reso ufficiale. Aisentha aveva allora ventun'anni. Tre mesi dopo si sposarono. Era consuetudine che, come viaggio di nozze, lo sposo portasse la sposa in città per mangiare le paste con la crema, ma Anzichu non lo fece. Il giorno dopo la celebrazione del matrimonio era giorno di trebbiatura e lo sposo si dimenticò del suo primo dovere di marito. Aisentha tornò al suo telaio e per quel giorno picchiò così forte col pettine che pensarono che volesse spiantare la casa. Non cantò i gosos, ma strillò forte una corsicana che inquietò non poco il vicinato. Fra i due sposi si capì subito che le cose non sarebbero andate bene.

   Anzichu interpretava la modestia e la docilità di Aisentha come segni di scarsa intelligenza e presto prese a maltrattarla. Avrebbe voluto Manthoi, più prosperosa e allegra, questa che babbo Benìah gli aveva dato sembrava stupida. La prima volta che la picchiò lo fece quasi per gioco, era incinta di Ghelanu e Nughavi vide la mano del padre arrestarsi sul volto della madre. Lei non si difese e da allora prese a disprezzare anche la madre. Si convinse che aveva ragione il padre e che faceva bene ogni tanto a dargliele. Quella volta non disse niente, sgranò gli occhi e fu tutto. Aisentha si pulì il sangue dal labbro inferiore, sorrise al figlio e se lo tirò su in braccio. Ogni volta che Anzichu la prendeva ne aveva paura, voltava la faccia dall'altra parte e si irrigidiva in un canto silenzioso che mandava in bestia il marito. Aisentha non conosceva ancora un'altra maniera per vendicarsi di lui, non aveva ancora intuito la forza del suo canto.

 
 
 

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