Messaggi del 22/05/2015
L’Anno Santo, il 1950, mi vide superare agevolmente il primo anno della scuola media (ma ho ritrovato tra le mie lettere, tutte gelosamente conservate dalla mamma, solo la comunicazione dell’Istituto riguardante i voti da me riportati nel secondo anno: condotta 10,religione 10, italiano 7, latino 8, storia 7, geografia 7, matematica 7, francese 8). Ero bravo. E finita la scuola, licenza di andare in visita, di trascorrere cioè a casa la prima quindicina d’agosto, allo scopo di rinnovare il corredo: “Ricordatevi che la Regola non prevede vacanze a casa, ma visite: comportatevi in modo da dare il buon esempio e da promuovere altre vocazioni”. Era invero una vacanza diversa, da quelle di Tata Giovanni; e non solo perché allora erano più lunghe e più frequenti. Allora sembrava che i compagni della mia infanzia stessero lì ad aspettarmi, per misurarsi con me nel saggiare il nostro livello di crescita. Potevano essere risse o dialoghi, ma sempre scambi di esperienze. Io parlavo di Roma come se l’avessi conosciuta, tacendo invece le mie esperienze di recluso. Ed essi avevano piacere di sentire il mio accento romanesco; a volte, anzi, mi provocavano al litigio solo per sentire le mie parolacce. Ora mi sentivo un estraneo. “Perché parli a voce così bassa?” mi chiedeva la mamma. E il paese mi sembrava diverso; tutte le cose erano più piccole, dato che io ero cresciuto; ed ero cambiato: incapace di guardare in faccia le persone, camminavo impacciato e a testa bassa, come chi è stato privato a lungo della libertà di muoversi a suo piacere; ero già un fratino, tra la gente che mi additava come il figlio di Maria ’e Pietà. Rividi Emilio e Terzo, non più soddisfatti di prima, ultima prospettiva l’arruolamento. Li avrei voluti interrogare sul problema indotto dalla vita religiosa che avevano sperimentato, la fede. Ma che potevano dirmi? Loro non avevano risolto il problema: l’avevano eluso con la fuga. E forse lo ammiravano, il compagno che portava da solo la sua amarezza nel solito cortile del Sacro Cuore, trattenendo le lacrime e stringendo tenacemente i denti nell’opporsi alla predestinazione o alle circostanze che l’avrebbero voluto paesano analfabeta. Certo, questo significava entrare in un altro ingranaggio ancora più ferreo; ma intanto avevo guastato il gioco del destino, cambiando, nel mio piccolo, l’ordine universale: non ero il carbonaio che avrei dovuto essere, non ero prigioniero di quattro montagne.
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