Creato da scrittocolpevole il 15/02/2007

LA COLPA DI SCRIVERE

per sviluppare un'idea, ovvero arte e poesia e letteratura e...

 

 

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Il traduttore di Erika Dagnino

Post n°149 pubblicato il 30 Luglio 2007 da scrittocolpevole
 

È la sera di un 30 novembre. Sono impegnato nella traduzione del poema di Edmund Spenser, Faerie Queene. VI libro. Al secondo verso del terzo canto sono inspiegabilmente attraversato dall’incontrollabile sensazione di dover cercare quel verso altrove. Scritto altrove: sull’acqua, sulla pietra, sull’aria, sulla terra… In pochi attimi sono schiacciato da questo tormento, che senza preavviso si è imposto con forza alla mia mente. Non riesco a restare in casa per l’eccessiva irrequietezza. Non posso recarmi in biblioteca poiché sono le dieci di sera. Inoltre, cambiare luogo di studio non risolverebbe la mia insensata, inspiegabile, indefinita inquietudine.
Indosso il cappotto e la sciarpa. Esco. Vago tra i vicoli del centro storico della città, incurvato dal peso delle sillabe che gravano nella mia testa e dal vento freddo che fa rotolare e svolazzare alcune cartacce sulle pietre delle strette vie, illuminate da freddi lampioni.
Attanagliato dalla certezza di doverle cercare altrove prima di tradurle, mi ripeto innumerevoli volte le parole del poeta inglese“The gentle minde by gentle deeds is knowne”.
I fili dell’ostinazione nevrotica dei miei pensieri si impigliano nei lineamenti del volto di J., che incontro in Via XX.
-Che cosa stai bevendo?
-Una birra. Eku 28.
- A quest’ora?
-Metti il naso qui dentro! Senti. Salamoia, salmastro, mimosa. Devo suonare in un locale, il CXI. Amo suonare lì.  È un locale putrido. Ci sei mai stato?
-No. Non metto volentieri piede nei locali. Nessun pregiudizio. Sono semplicemente inadeguato.
-Ah, fai male, ti perdi il piacere di gustarti fumo, alcool e la sensualità che si agita nei corpi della gente. Ma forse tu non mi stai capendo. Non fumi, non bevi, non scopi. Che diavolo fai? Bevi! Ti farà bene.
Bevo dalla bottiglia che J. mi passa, non sento né mimosa né salmastro né altro, semplicemente mi piace e probabilmente, se ne berrò troppa, sconterò l’alcolico piacere con bruciori di stomaco e una sbornia terribilmente triste.
-Hai meditato anche questa notte su Dio, sull’uomo, sull’infinito? È affascinante, ma io sono uno strumentista: non posso concedermi meditazioni su problemi esistenziali e cose simili, devo assolutamente concentrarmi sul suono emesso, sulla singola nota, sulla sua intensità. Voglio far passare quello che sento.
Decido di accompagnarlo; mentre camminiamo J. mi parla dei maestri del jazz, da Charlie Parker a John Coltrane. Purtroppo posso seguire a fatica il suo discorso, a causa di ciò che sta stremando la mia mente e tutto il mio essere. Giunti davanti al locale mi lascio convincere ad entrare.
Molte persone fumano e bevono, sedute o vagando nella confusione delle sale; i tavoli e le sedie in legno trattengono ed emanano un odore stagnante, pungente, penetrante, che potrebbe definirsi odore di marcio. Credo che un discreto numero di persone sia già ubriaco.
Nonostante il chiasso e il baccano, gli strumentisti iniziano a suonare e a rendere partecipi, a modo loro, i presenti. Tra gli scambi di soli qualche mano tenta un applauso.
La barista, dietro un orribile banco in acciaio, muove il corpo al ritmo moderno di un calypso, nell’attillata stoffa del suo abito rosa, mentre prepara cocktail e versa birre.
Il brano musicale successivo mi desta uno strano senso di malinconia. È un blues. Penso alla locuzione inglese da cui deriva la parola: to have the blues: essere malinconico, triste, depresso. È l’unico pensiero che per un attimo mi distoglie da quella che in breve tempo sta diventando una vera e propria fissazione.
Segue una serie di brani molto convincenti: un anathole, un afrocubano, che travolge i presenti nel suo tempo latino piuttosto selvaggio, un fast blues, una sensuale habanera, una ballad profonda e misteriosa, un mambo.
Dopo alcune ore esco spossato dal locale facendo un cenno di saluto a J..Forse ho bevuto troppo. Mi sento irrimediabilmente malinconico, ma nonostante lo stato di malinconica ebbrezza, continuo ad essere assillato dal pensiero di dover camminare, di dover cercare, di dover trovare il verso di Spenser che non ha più abbandonato i miei istanti mortali; non ho ancora compreso per quale ignoto motivo (forse non sarò mai capace di comprenderlo, forse non esiste). Mi domando inoltre perché sono finito in questo posto.
L’aria notturna e fredda dà un po’ di respiro ai miei occhi intrisi di fumo.

È mattino. Percorro la via che porta lungo il fiume: i flutti sono simili a braccia che si agitano e si stracciano prima di affondare nel buio e nel silenzio. Sono simili a corpi che si accartocciano e si sparpagliano nelle fibre del tempo, sfiorandosi in innumerevoli danze, o in un’unica danza, prima di abbracciare l’Ultimo Nemico.  Provo ad abbandonarmi al suono incessante dell’acqua .  
Non ho pace. Il verso del poema soffoca il mio essere. Continuo la mia insensata ricerca. Assillato, tormentato, ottenebrato mi incammino lungo una strada che non ricordo aver percorso prima di questo estenuante giorno: una salita, una lunga discesa, un sentiero silenzioso come l’attesa, il suo snodarsi tra alberi e steli; un muro di cinta, pozzanghere, un cancelletto aperto, rami attorcigliati, petali sottili, croci, catene, lapidi. Il vento fa ondeggiare le vecchie catene, il loro tetro tintinnare sfiora la solitudine delle tombe.
Non so in quale luogo sono giunto, in quale tempo o stagione.
Un rumore, simile a quello di una pietra che raschia una dura superficie, mi costringe verso la direzione da cui l’ostinato suono proviene.

Dorothy Kate Pairros
December 1947
January 1986

L’inclemente iscrizione incide, graffia, scalfisce l’ombra di un uomo piegato sull’oscurità della pietra tombale, soffocata quasi interamente dalle piccole radici avventizie di un’edera polverosa. L’uomo tenta di cancellare, raschiandola con la durezza di una pietra affilata, la data di morte della donna. La cancella, cosparge la pietra sepolcrale di fiori di croco e piange; ma le sue stesse lacrime, scivolando sulla muta pietra riscrivono il mese, l’anno. Non so per quanto tempo resto schiavo di questa scena (un giorno, incalcolabili giorni, un infinito giorno, un’infinita notte). Non so quale terra stia calpestando il corpo triste e disperato dell’uomo. Egli ripete gli stessi gesti sotto la pioggia, nel vento, al chiarore lunare, sotto il cielo azzurro. Cancella, piange. La data ricompare dalle sue lacrime. Nell’orribile ora di infinita disperazione grida. Forse contro la morte (la morte insonne, la morte insonne tra i dormienti, la morte calpestatrice di ghiaie e di ossa quasi inghiottite). Inghiottite dalla terra, inghiottite dalla pioggia, inghiottite dal tempo. Grida le parole dell’iscrizione incisa sulla pietra definitiva:“The gentle minde by gentle deeds is knowne”.

Il verso tocca le labbra dell’uomo, esce dalle sue labbra e si aggrappa al vento, alla pioggia, alla terra, alla vita; il verso si stringe contro il mio corpo, contro il corpo della mia mente.
Resto immobile. Una lacerante commozione mi penetra con forza. Un giorno, incalcolabili giorni, un infinito giorno, forse un’infinita notte.

I miei occhi ora sono fissi sulla pagina. La lampada sulla scrivania è ancora accesa. Provo a tradurre, ad allontanarmi dalla mia lingua per avvicinarmi a quella del poeta, ad avvicinare quella del poeta alla mia. Mi fermo paralizzato dall’immagine dell’uomo. Il ricordo vivo dei suoi gesti disperati mi impedisce quasi di respirare. Mi è impossibile riprendere a leggere, a tradurre, a scrivere l’opera. Comprendo che devo fermarmi, che della disperazione e delle parole dell’uomo trasuderanno i miei giorni terreni.

[Il traduttore di Erika Dagnino è stato pubblicato per l'inserto di arte, cultura e nuove tendenze, L'Assenzio, del periodico mensile L'occhio che., giugno 2006, Roma, interpretato in immagine dall'artista Stefano Gollinelli (Stex) e per la Rivista Letteraria Nugae, Battipaglia (Sa), gennaio-marzo 2007.]

 
 
 
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Un nuovo foglio di letteratura e arte nasce in Calabria, frutto della collaborazione tra Giovanni Spedicati, editore della Mongolfiera, Maria Credidio, responsabile della Biennale di Arte Contemporanea Magna Grecia di San Demetrio Corone, Salvatore La Moglie, scrittore, Gianni Mazzei, narratore, saggista e poeta, Salvatore Genovese, scrittore e poeta, Paolo Pellicano e Alfredo Bruni, de La Colpa di Scrivere.

 

Il comitato dei curatori è composto da: Mimmo Aloise, Alfredo Bruni, Romilda Ciardullo, Salvatore Genovese, Gianni Mazzei, Paolo Pellicano.
 

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