Creato da aliasnove il 10/01/2013

IL LAVORO

Nell'era della globalizzazione

 

 

IL NUOVO POPULISMO RESPONSABILE DELLE STRAGI IN MARE

Post n°377 pubblicato il 12 Marzo 2023 da aliasnove

La tragedia delle 73 persone lasciate affogare in mare senza aiuti e le penose giustificazioni del governo ripropongono con forza la questione dei migranti. Al di là delle colpe specifiche delle nostre autorità per le omissioni di soccorso, sono le nostre leggi e il clima politico e culturale da esse generato le vere responsabili di queste catastrofi. Giorgia Meloni tenta di scaricare queste responsabilità sugli scafisti, predisponendo per loro pene fino a 30 anni e, soprattutto, sostenendo che occorre fermare i migranti, impedendo loro di partire.Ignora, evidentemente, che migrare è un diritto fondamentale, stabilito dagli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’articolo 12 del Patto internazionale del 16 dicembre 1966 e perfino dall’articolo 35 della nostra Costituzione, e sarebbe perciò un illecito ostacolarne l’esercizio. Non solo. È anche il più antico dei diritti fondamentali, essendo stato proclamato fin dal 1539 da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del «nuovo mondo», quando erano solo gli europei a «emigrare» per colonizzare e depredare il resto del pianeta. Allora questo diritto fu accompagnato dal diritto di muovere guerra contro chiunque si fosse opposto al suo legittimo esercizio: cosa che fu fatta, con la distruzione delle civiltà precolombiane e il massacro di decine di milioni di indigeni.Oggi che l’asimmetria si è capovolta e l’esercizio del diritto di emigrare è diven tato la sola alternativa di vita per milioni di disperati che fuggono dai loro paesi, dapprima depredati dalle nostre conquiste e oggi sconvolti dalle guerre, dalla miseria e dallo sfruttamento determinati dalle nostre politiche, non solo se ne è dimenticato il fondamento nella nostra stessa tradizione, ma lo si reprime con la stessa ferocia con cui lo si brandì alle origini della ci viltà moderna a scopo di rapina e colonizzazione.C’è d’altro canto un altro aspetto della politica migratoria di questo governo che ne segnala l’ostilità ai salvataggi in mare. Esso si è manifestato con il cosiddetto «decreto ong» dello scorso febbraio, che riprendendo la linea Salvini, condiziona l’abilitazione delle navi a salvare le persone in mare a una serie di insensati requisiti burocratici, introduce ostacoli ai salvataggi, come il divieto dei cosiddetti salvataggi multipli, e prevede, per i comandanti che violino queste assurde prescrizioni, sanzioni da 10 a 50.000 euro, il fermo per due mesi e, nei casi di reiterazione delle violazioni, la confisca della nave utilizzata per i salvataggi.È un salto di qualità nelle forme stesse del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fenomeni enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso con misure inutili e demagogiche, ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti sicurezza. Il nuovo populismo, al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla penalizzazione di condotte non solo lecite ma eroiche, come i soccorsi in mare, al fine di ottenere consenso a misure esse stesse illegali, criminose e criminogene, come la chiusura dei porti più accessibili e la procurata omissione di soccorso.Questo nuovo populismo sta producendo danni enormi al tessuto della nostra democrazia. Per la demagogia populista, che sempre ha bisogno di un nemico, il migrante impersona infatti il nemico ideale, a causa del latente razzismo che induce a percepirlo come persona inferiore e ontologicamente illegale. Si capisce così come il razzismo sia l’effetto, più che la causa, delle stragi in mare: è la «condizione», scrisse lucidamente Michel Foucault, che rende accettabile «la messa a morte» di una parte dell’umanità. Giacché solo il razzismo rende tollerabile che migliaia di persone affoghino ogni anno nel Mediterraneo.Il risultato di queste pratiche spietate è l’abbassamento dello spirito pubblico. Il consenso da esse ottenuto è in realtà il segno del crollo del senso morale a livello di massa. Quando la disumanità, l’immoralità e l’indifferenza per le sofferenze sono ostentate dalle pubbliche istituzioni, esse non solo sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di massa di cui godettero il nazismo e il fascismo. Queste politiche inique, seminando la paura e l’odio per i diversi, svalutando i sentimenti elementari di uguaglianza e solidarietà, screditando la pratica del soccorso di chi è in pericolo di vita, stanno avvelenando le nostre società e deformando pesantemente l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa. Luigi Ferrajoli  il manifesto

 
 
 

LA VALANGA ASTENSIONISTA E' IL DELITTO PERFETTO DEI PARTITI

Post n°376 pubblicato il 16 Febbraio 2023 da aliasnove

Alla loro prima prova elettorale nel 1970, Lombardia e Lazio portarono al voto rispettivamente il 95,5% e il 91,7% degli aventi diritto. Nello spazio di cinque decenni, l’affluenza ai seggi per le Regionali è passata al 41,7% per la Lombardia e al 37,2% per il Lazio. A Roma ha votato circa un elettore su tre (35,17%). Come ormai accade da anni a questa parte, l’astensionismo è correlato alla classe sociale, all’istruzione, al reddito e alla zona di residenza. La “voice” è diventata un esercizio per pochi, mentre i molti preferiscono “l’exit”. Per alcuni questo non è un problema da affrontare, anzi è considerata una tendenza “naturale” dei sistemi liberal-democratici. La post-democrazia è ineluttabile, inutile combatterla. Un realismo cinico che, legittimando l’inazione, avvera la profezia a cui si riferisce e non vede l’enorme portata del disastro che le elezioni regionali appena trascorse ci consegna.

Ancora più grave è la mancata elaborazione pubblica di quanto accaduto, le pseudo-spiegazioni fornite da un ceto politico che è il principale responsabile del non voto. Le prime reazioni all’esito elettorale, infatti, sono sconfortanti. Si parla di tattiche, di alleanze fatte e non fatte, di errori (degli altri) e di meriti (dei vincitori). Una gara tra perdenti, dove ci si accontenta di essere “il primo partito dell’opposizione”, di alleanze estemporanee o di candidature popolari senza un popolo a cui parlare. Nessuno sguardo lungo, nessuna capacità di scavare alla vera base del disastro: la crisi di rappresentanza. Una crisi che ha radici profonde e cause lontane dal tatticismo elettorale.

Perché sempre più astensione? Due ragioni sono – o dovrebbero essere – al centro dell’analisi di chi abbia ancora a cuore l’idea di democrazia rappresentativa e la funzione costituzionale dei partiti politici. Ne scriveva, già nel 2016, Luigi Ferrajoli in un formidabile articolo dove proponeva di “separare i partiti dallo Stato per riportare i partiti nella società (in “Lo Stato. Rivista semestrale di Scienza costituzionale e teoria del diritto”, anno IV, n. 6, gennaio-giugno 2016, pp. 11-33). In questa lettura, la crisi di legittimità dei partiti coincide con la crisi del rapporto di rappresentanza, l’essenza più intima della democrazia rappresentativa. Praticamente un suo sinonimo. Le forme di democrazia diretta sono certo importanti, ma mai sostitutive della democrazia rappresentativa. La possono e devono rafforzare, nutrire, accompagnare e sostenere. Ma nessuna società complessa e stratificata può basarsi solo sulla democrazia diretta.

Se il rapporto di rappresentanza è debole, tutta l’architettura democratica entra in profonda crisi. Così, non stupisce che i partiti siano all’ultimo posto della graduatoria della fiducia istituzionale degli italiani, come segnala l’Istat: poco meno di una persona di 14 anni e più su quattro è completamente sfiduciata mentre almeno una su due assegna scarsi livelli di fiducia. Il paradosso di cui non sentiremo parlare nei prossimi giorni è che i partiti sono sempre (e giustamente) invocati come co-essenziali alla democrazia, “senza partiti non c’è democrazia” come si sente spesso affermare, senza però mettere a tema il nodo della loro la scarsa democrazia interna, l’incapacità di rappresentare gli interessi dei gruppi più deboli, la maggiore trasparenza e il pluralismo dei processi decisionali che dovrebbero caratterizzarli.

I partiti non svolgono più, e da tempo, le funzioni loro assegnate dalla Costituzione. Anzi, ne sono i principali traditori, proprio perché proprio ai partiti e ai rappresentanti eletti era assegnato il compito di attuare la Costituzione. A ciò si aggiunga che i rapporti tra società, economia e Stato si sono completamente ribaltati. Oggi il ceto politico non solo manca di un’adeguata selezione e formazione, non solo i partiti non sono considerati degni di fiducia e sono organizzazioni a bassissima democrazia interna, ma siamo di fronte alle conseguenze di un cambiamento “sistemico”.

Da tempo, non è più la politica a governare l’economia in nome di interessi sociali da proteggere, ma sono sempre più i poteri economico-finanziari che – spesso su scala globale – impongono la loro agenda alla politica. Non stupisce quindi che i partiti abbiano abdicato al loro ruolo costituzionale, trascinando la politica nel Maelström. Per questo, continua Ferrajoli, è urgente una riforma democratica dei partiti sulla base dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Ciò agevolerebbe sia la separazione e l’autonomia dei partiti dallo Stato, sia l’efficacia dei diritti politici dei cittadini e, quindi, la loro fiducia verso il sistema politico.

Sono però proprio i partiti attuali il maggiore ostacolo a tale riforma, essendo ormai assimilati a comitati d’affari che presidiano i rapporti di scambio tra politica ed economia. A fronte di questo quadro, la domanda corretta che non sentiremo a commento del disastro sotto i nostri occhi non è “perché astenersi”, ma “perché votare”  Filippo Barbera il manifesto

 
 
 

PIAZZA FONTANA, VERITA' E GIUSTIZIA SECONDO MELONI

Post n°375 pubblicato il 12 Dicembre 2022 da aliasnove

Il 12 dicembre 2019, cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, l’allora deputata Giorgia Meloni postò sul proprio profilo twitter un messaggio in cui (pur non indicando chi e perché avesse compiuto il massacro) invitava a «non dimenticare le vittime innocenti di quella barbarie» esortando tutti a «non smettere di cercare verità e giustizia».

Diventata Presidente del Consiglio nel 2022, Meloni ha portato al governo figli diretti, eredi ed estimatori politici dei protagonisti di quegli «anni bui» rispetto ai quali dichiarò il suo impegno onde «impedirne il ritorno».

Sottosegretaria alla Difesa oggi è Isabella Rauti, figlia di Giuseppe (Pino) Rauti, ex collaborazionista di Salò, dirigente del Msi e fondatore del gruppo eversivo filo-nazista Ordine Nuovo responsabile della strage di Piazza Fontana e sciolto per decreto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani nel 1973.

Quello di Isabella al ministero della Difesa è un ritorno, per la famiglia Rauti.

Pino Rauti, infatti, lavorò per il generale Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Aloja pubblicando nel 1966 (sotto falso nome) insieme a Guido Giannettini (agente Zeta del Sid processato e assolto per la strage di Piazza Fontana) un noto pamphlet provocatorio titolato Le mani rosse sulle Forze Armate di cui Aloja si sarebbe dovuto servire nello scontro con il generale Giovanni De Lorenzo (l’uomo del Piano Solo del 1964).

Nel 1965 Rauti aveva già organizzato, sempre finanziato dal ministero della Difesa, il convegno dell’Istituto di studi militari «Alberto Pollio» sulla «guerra rivoluzionaria» dove si disegnò la strategia stragista che dal 1969 insanguinò l’Italia.

Il 21 novembre 1969 Il Secolo d’Italia, organo ufficiale del Msi, annunciava entusiasta: «I camerati di Ordine Nuovo entrano e rientrano a far parte del Movimento Sociale Italiano. Tutto il partito li saluta con gioia».

Un rientro in attesa della pioggia. Infatti, come raccontato alla magistratura dall’ex ordinovista Martino Siciliano, era giunta l’ora della «politica dell’ombrello» ovvero «della necessità di rientrare nel Msi nel senso di trovare riparo sotto l’ala del partito in previsione della piega che avrebbero potuto prendere le indagini sugli attentati che erano avvenuti o che dovevano avvenire». È la vigilia del 12 dicembre.

Una settimana dopo la strage fu il segretario missino Giorgio Almirante a parlare di una «ora di ansiosa vigilia» durante un cosiddetto «appuntamento con la nazione» a Roma. Appuntamento spostato dalla data iniziale (prevista per il 14 dicembre, due giorni dopo le bombe) a seguito della richiesta di annullamento presentata dal segretario repubblicano Ugo La Malfa per evitare ciò che il deputato socialista Eugenio Scalfari aveva già definito, il 9 dicembre, «un appuntamento molto pericoloso. Perché ci si ritrova con qualche banda di bastonatori di professione, e questa certo non è la nazione».

Nel racconto di Vincenzo Vinciguerra, ex dirigente di Ordine Nuovo a Udine e autore della strage di Peteano del 1972, quella manifestazione del Msi (e i gravi scontri che ne sarebbero derivati con l’assalto alla sede nazionale del Pci di via delle Botteghe Oscure) avrebbe funto da definitivo innesco per la proclamazione dello stato d’emergenza nel Paese ovvero la sospensione della Costituzione.

L’adunata si aprì con «i saluti deferenti» di Almirante rivolti a Junio Valerio Borghese (presente al comizio e nel frattempo impegnato a preparare il tentativo di golpe del 7-8 dicembre 1970) e ai militanti ordinovisti appena rientrati nel Msi.

Su tutte queste vicende la Presidente del Consiglio dovrebbe dar seguito alle sue parole. Invece i fatti raccontano di un convegno del 14 aprile 2022 organizzato da Fratelli d’Italia in Senato dedicato al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D dei servizi segreti condannato per favoreggiamento dell’ordinovista Marco Pozzan, coinvolto nell’inchiesta su Piazza Fontana e fatto fuggire all’estero. Maletti, morto latitante in Sudafrica, secondo l’allora deputato Federico Mollicone fu «un uomo dello Stato che ha sempre osservato l’appartenenza alla divisa». Su di lui quindi «il giudizio va sospeso». Mollicone intervenne già nell’ottobre 2020 alla Camera, sostenendo un falso ovvero che la strage di Bologna del 2 agosto 1980 fosse legata «alla sinistra internazionale terrorista». Oggi Mollicone è stato promosso da Meloni Presidente della Commissione Cultura della Camera.

Nel frattempo a Brescia, città colpita dalla strage ordinovista del 28 maggio 1974, è stata intitolata a Pino Rauti (che per quel massacro fu ritenuto dalla pubblica accusa responsabile morale ma non penale) la nuova sezione di Fratelli d’Italia.

L’intento è chiaro e ricalcherà senza dubbio la linea dettata da Meloni nel 2019: verità e giustizia sulle stragi.

Davide Conti  il manifesto

 
 
 

UNA VITTORIA CHE INSIDIA L'EUROPA

Post n°374 pubblicato il 30 Settembre 2022 da aliasnove

Una stagione di disfatta a sinistra, insieme così nuova e tetra in Italia non c’è mai stata dal dopoguerra a oggi, con l’affermazione netta, a man bassa – alla fine grazie al ’iniquo Rosatellum,-non democratica, se si vedono i voti reali – e con risultati che sconvolgono non solo il quadro partitico italiano ma le stesse istituzioni democratiche sostenute dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. Perché la formazione vittoriosa a guida Meloni si ispira al neofascismo – ci ostiniamo a dire post-fascista, sbagliando perché non si richiama al ventennio mussoliniana irriproducibile, ma a settanta anni di insidia della democrazia rappresentata dal Msi e dalle sue evoluzioni partitiche, in una litania di strategie della tensione, spesso interne agli apparati dello Stato e con legami internazionali, che ha disseminato di stragi la storia repubblicana.

Attenzione però a vedere questo stravolgimento solo come riguardante l’Italia. Il terremoto infatti riguarda la stessa Europa unita fin qui realizzata che non vuole vederla perché c’è la guerra ucraìna nel pieno di una devastante escalation, con le pipeline colpite e le promesse russe che arrivano di guerra atomica e reazioni Usa «consequenziali».
Dei tre commenti che a caldo sono arrivati sulla vittoria di Fd’I, tre colpiscono in modo particolare: quello del premier polacco Morawiecki, con cui Meloni condivide tutto.

Dio, patria e famiglia, autoritarismo e filoatlantismo rilanciato alla luce del conflitto russo-ucraino; poi il portavoce della formazione Vox, filo-franchista, questa sì e apertamente nostalgica e perfino filo-mussoliniana, Santiago Abascal che vede nella vittoria dell’estrema destra di Fd’I «quelli che indicano la strada»; ma soprattutto il primo, semplice titolo del New York Times: «È uno spostamento a destra dell’Europa intera». Che fa il paio con la consapevolezza diffusa e l’evidenza che il traino dell’Europa è ormai diventato proprio l’est delle democrazie illiberali di Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, con i Baltici tutti impegnati nella ricostruzione di una forte rilegittimazione delle rispettive sovranità nazionali, alimentando nazionalismo, xenofobia, razzismo e limitazioni dello stato di diritto. E che come ogni buon nazionalismo è ostile e si proclama superiore e antagonista a quello degli altri.

L’affermazione della destra estrema in Italia mette a nudo la condizione di estrema fragilità dell’Unione europea residua. Che fine ha fatto l’Unione europea voluta dai padri fondatori come Altiero Spinelli, sovranazionale e solidale, in economia, istituzioni, diritti, welfare, frontiere aperte, politica estera? O vacilla o non c’è, sotto il peso della crisi economica, pandemica e della guerra. Sforna montagne di denaro, che non olet e che può gestire con vantaggio anche ogni regime di «democratura» come direbbe Predrag Matvejevic.

Ma la percezione dei cittadini europei qual è? Se aumenta la povertà per tutti e la ricchezza per pochi, se la crisi energetica e le sanzioni tagliano i bilanci familiari, se il riarmo è la condizione primaria di spesa di paesi centrali nella tenuta delle fondamenta e della storia dell’Unione, come la Germania che con 200 miliardi impegnati nella Bundeshwer trapassa nella zona buia che cancella i tabù della sua storia troppo spesso infausta?

È dunque uno spostamento a destra dell’intera Europa, certo già in itinere ma che ora si radicalizza con l’avvento della destra estrema italiana arrivata al governo. Nessuno si faccia illudere dalle schermaglie iniziali «controlleremo il rispetto dei diritti», controproducenti, di Ursua von der Leyen sulla vittoria di Meloni, o le preoccupazioni veritiere della prima ministra francese. L’Unione europea che abbiamo conosciuto non esiste più. Traballa in vita solo grazie al sostegno di due grandi nazioni, Germania e Francia dove la leadership di Macron è in grave difficoltà, si può dire in netta minoranza politica nel Paese, anche per l’emergere a destra del fenomeno Marine Le Pen «fratello francese» di quello di Giorgia Meloni.

Fratelli d’Italia, nel solco delle «ragioni» neofasciste di questi settanta anni, altro non è adesso in chiave internazionale che la rappresentazione forte del sovranismo nazionalista italiano, erede rivisitato del populismo, e su basi ideologiche di estrema destra, che fa e farà subito dell’obiettivo di «fermare i migranti ad ogni costo» – del resto aiutata non poco dalla scelta di esternalizzazione delle frontiere della stessa Unione europea e dalla disparità vergognosa di trattamento tra profughi ucraini e quelli del disperato resto del mondo – una abile quanto violenta ragione di governo. Un sovranismo nazionale estremo in una forma forte e desueta che mai avevamo conosciuto, perché Salvini da questo punto di vista è un impostore con provenienza da una formazione separatista.

All’irruzione di questo nuovo nazionalismo, in una deriva della storia politica europea che vede in Svezia l’affermazione di una forza di estrema destra razzista, l’Ue non reggerà. Perché metterà in discussione, di fatto, i contenuti della Costituzione italiana che legano il Paese fondante come l’Italia all’Unione: l’articolo 11 che bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, potrebbe essere in pericolo, denunciava in questi giorni il costituzionalista Andrea Manzella sulle pagine del Corriere della Sera. Soprattutto grazie a Putin che con l’aggressione all’Ucraina alimenta la preparazione dell’Europa alla guerra. Giorgia Meloni cavalca questo disastro, tantopiù che la crisi economica pesante che si affaccia aiuterà la rivendicazione nazionalista in Europa, con la riapertura populista delle richieste sul Pnrr fino alla «revisione dei Trattati», da apparire lei come la «vera europeista» di fronte alla divisiva crisi energetica in atto.

E soprattutto sotto l’ombrello protettivo degli Stati uniti, perché dice Blinken: «L’Italia è preziosa alleata…siamo ansiosi di lavorare con il nuovo governo» a guida Meloni. In virtù della sua reiterata fedeltà alla Nato, e dove c’è l’Alleanza atlantica non c’è politica estera europea. È questo un portato politico costitutivo – l’atlantismo nella guerra fredda era anticomunista – del Msi nella sua molteplice storia antidemocratica, cuore e anima del «pensiero» che infiamma Giorgia Meloni. Tommaso Di Francesco  il manifesto

 
 
 

VOTATE, VOTATE, VOTATE

Post n°373 pubblicato il 20 Settembre 2022 da aliasnove

Manca poco al 25 settembre, giorno in cui si svolgeranno elezioni politiche tra le più importanti della storia repubblicana. Eppure, nonostante il rilevante significato di questo appuntamento, il partito dell’astensione sembra quello davvero vincente, capace di raccogliere molti sostenitori nell’area democratica e di sinistra.

Questa sensazione di profonda depressione verso l’esercizio del voto sta producendo una serie di appelli nel tentativo di contrastarla. Il segretario della Cgil Landini lo ha fatto parlando ai 5000 delegati riuniti a Bologna: «L’unico appello elettorale che mi sento di fare da questo palco è quello di andare a votare». Ricordando che non solo senza votanti la democrazia entra in crisi, ma soprattutto che, in ogni caso, «decidono quelli che votano». Lo ha fatto l’Anpi, in nome della difesa della Costituzione, cercando di arginare la vulgata del «sono tutti uguali perché anche Renzi ha cercato di stravolgerla».

Figuriamoci se non ci sono motivi ragionevoli per non sentirsi rappresentati da questo o quel partito, motivi alimentati da una grande confusione sotto il cielo della politica italiana, in una situazione purtroppo tutt’altro che eccellente. Oltretutto, come è accaduto alle ultime elezioni comunali, quando oltre la metà degli aventi diritto ha disertato le urne, c’è un rapporto stretto e diretto tra astensionismo e diseguaglianze.

Solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito si è recato alle urne per eleggere il proprio sindaco, mentre laddove diventa medio si sale al 63, fino al 79 per cento per i redditi alti. L’aumento della miseria, raddoppiata in pochi anni, certamente la vedremo agire nelle percentuali dell’astensionismo.

L’articolo 48 della Costituzione ci dice che il voto è un diritto e un «dovere civico», anche se non è obbligatorio. Riconoscendo implicitamente che l’astensionismo ha pari dignità con il voto. Secondo tutti i sondaggi, il 26 settembre è assai probabile che la grande fuga raggiunga livelli record se è vero che oltre il 40 per cento degli italiani sarebbe determinato a voltare le spalle al seggio. Le motivazioni sono le più diverse, tutte legittime, comprese quelle estreme di chi non riconosce un ruolo alle istituzioni democratiche, e quindi le ignora non votando. Altri invece scelgono una strada più consapevole, più ragionata, più critica.

Con la caduta verticale della partecipazione civica dei cittadini, non c’è dubbio che oggi, soprattutto nell’area di sinistra, in tanti ritengono le elezioni soltanto un rituale per tenere vivo e vegeto il sistema di potere dei partiti. Hanno ragione, in linea di massima, perché la spinta propulsiva per rendere protagonisti i cittadini si è fortemente indebolita nel corso del tempo (governi tecnici e governi di unità nazionale hanno alimentato la crisi), e ha bisogno di nuova linfa. Non a caso Norberto Bobbio, difficilmente annoverabile tra gli astensionisti, in un preveggente saggio del 1984, intitolato Il futuro della democrazia, osservava come nella società di massa «il voto di opinione sta diventando sempre più raro: oserei dire che l’unica opinione è quella di coloro che non votano perché hanno capito che le elezioni sono un rito cui ci si può sottrarre senza grave danno».

Di fronte ad un rifiuto così radicale e motivato, diventa alquanto complicato cercare di convincere compagne, compagni, amiche e amici di sinistra, a votare. E capisco che chi ha qualche anno in più, sia scettico, amareggiato, disilluso. E stanco, perché nonostante le tante battaglie di progresso sociale e civile, alcune vinte, altre perse, oggi il mondo democratico si trova in presenza di una quasi certa vittoria delle forze più retrive, illiberali, reazionarie dell’Italia Repubblicana. Ma è proprio qui l’unico vero, grande motivo per recarsi alle urne.

Se è vero, come continuano a rilevare gli istituti demoscopici, che la coalizione di destra-centro ha la vittoria in tasca, ogni cittadino democratico, di sinistra deve rendergli la vita difficile. E il primo passo è questo: domenica prossima andiamo a votare. Naturalmente per chi si oppone radicalmente al trio Meloni-Salvini-Berlusconi. Qualcuno ha detto che c’è un’azione peggiore di quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare. Norma Rangeri  il manifesto

 
 
 

 

 

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