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Messaggi di Novembre 2016

Puzzo

Post n°1413 pubblicato il 23 Novembre 2016 da non.sono.io

Non so se ti sei mai accorto che, quando puzziamo, noi siamo sempre gli ultimi a sentirlo. E’ come se il nostro olfatto, per qualche motivo di quelli che hanno a che vedere con l’evoluzione, in un primo momento classificasse quell’odore come un’estensione naturale del nostro corpo. Un po’ come il cervello considera le braccia parte di se stesso, ed è per questo che non badiamo al fatto di camminare con due strisce di carne e muscoli che ci penzolano sui fianchi. Non conosciamo l’odore dei nostri capelli, se non li inquiniamo con qualcosa, né avvertiamo quello delle unghie. Per quei motivi che attengono l’evoluzione, il naso dice che non serve, che sono cose nostre e non gli interessa. O almeno questo sembra.
Così non so dire con precisione quando è iniziata questa storia. Una mattina, in metropolitana, leggevo un libro con la musica nelle orecchie e gli occhiali da sole, intento nella solita occupazione di allontanare il concetto di mondo dai miei pensieri. Stavo seduto all’ultimo posto della fila di sedili, accanto alla sbarra, quando con la coda dell’occhio intravidi il passeggero a fianco a me portarsi una mano al naso, voltarsi lentamente con la testa a destra e sinistra come cercasse qualcosa tra la gente, e poi alzarsi di scatto per sparire in fondo al vagone. Ecco, lì avrei dovuto insospettirmi, e invece nulla, io non sentivo niente, e se mi ricordo di questo episodio, è solo perché nei drammi la cosa che ci riesce più facile fare è rivangare il passato in cerca dell’origine del problema che ha generato la tragedia. Ci piace immaginare quel momento come un bivio nel quale noi, agendo in un certo modo, avremo potuto evitare la catastrofe, e mentalmente rivivere un’esistenza parallela dove si è fatta la scelta giusta. Usare la fantasia come ciambella di salvataggio, per qualche ragione che attiene l’evoluzione, ci allevia le pene. O almeno questo sembra.
Dunque passarono diversi giorni durante i quali le persone iniziarono sempre più a prendere le distanze da me, ma io non ci badavo. Al principio lo facevano in maniera discreta, poi sempre più sfacciatamente. I ragazzini che incrociavo per strada ridevano, e io mi controllavo la giacca in cerca di una macchia, o della patta dei pantaloni abbassata, mi aggiustavo i capelli, mi pulivo il naso, ma non capivo. E’ difficile pensarsi come un problema. Nei mezzi pubblici ormai si formavano dei veri capannelli intorno a me, tanto che non potevo più non accorgermi che avevo qualcosa che repelleva le persone. Ma ancora non avevo capito cosa di preciso.
Poi un giorno in cui stavo particolarmente abbattuto, decisi di confidarmi con un amico. Gli spiegai tutta la storia, i miei dubbi, la mia incapacità di comprendere il problema. “Ma perché? Che ho fatto di male? Dimmelo tu, perché io non ci capisco niente, sto impazzendo”. Il mio amico non si scompose, finì di bere il suo bicchiere di vino bianco leggermente frizzante, e disse: “Puzzi”. Rimasi per un attimo interdetto, lui colse questo mio stupore. “Puzzi di pesce marcio. Non lo senti? Un puzzo assurdo”. E rise. Ridere nelle situazioni dove non c’è niente da ridere, per qualche regola arcana dell’evoluzione, aiuta ad affrontare le difficoltà. O almeno così sembra.
Da quella volta lo sentii anch’io. Aveva ragione lui: la mia pelle emanava un odore di pesce andato a male, una cosa tipo reflusso di fogna dalle tubature, o busta della spazzatura lasciata a scaldare al sole. Lo potevo avvertire solo se mi stringevo un gomito al naso, ma per gli altri dovevo essere un flagello. Consultai un dermatologo che mi visitò con una mascherina. Mi diete delle creme, delle pasticche e un bagnoschiuma medico che secondo lui avrebbe dovuto a contribuire a spurgarmi i pori, ma che invece mi procurò solo un’allergia cutanea. Cercavo di sciacquarmi o farmi la doccia più volte possibile durante il giorno. Quando mi lavavo lo facevo fino a procurarmi delle escoriazioni per quanto grattavo, ma nonostante tutto il mio corpo continuava a puzzare di carne di pesce putrefatta. Ricorsi inutilmente alla medicina olistica, mi riempii di estratti di erbe ed alghe, polveri di rocce rosa di non so dove, sali provenienti da mari più esotici del mondo.
In un momento di disperazione consultai persino un mago. Con aria concentrata tirò fuori da un cassetto della scrivania una specie di cerchio di legno, ricoperto di parole scritte in una lingua secondo me inventata, un miscuglio di egizio e celtico, e, in una stanza ricavata da un garage alle porte di Roma, prese a consultare il pezzo di legno. Dopo qualche minuto, scosse la testa come se si fosse risvegliato da una trance. Mi disse che qualcuno mi voleva male, che mi aveva fatto una fattura, che sono cose che capitano, ma che lui aveva la soluzione al problema. Mi ritrovai a girare intorno a una candela rossa, tutte le sere, prima di dormire, per allontanare il malocchio, per colpa di queste ragioni che attengono all’evoluzione, e che ci fanno pensare esistano soluzioni incomprensibili per i problemi causati da motivi che non comprendiamo. Inutile dire che non funzionò nemmeno questo espediente.
Non mi restò altra scelta che arrendermi.
Qualsiasi fosse stato il motivo di questo mio emanare puzzo, sembrava non esistesse scienza o disciplina in grado di capirne l’origine e quindi di curarmi. Come non si può guarire dal colore dei propri occhi, o dalla propria statura, dalla natura del proprio carattere o delle proprie inclinazioni. C’è sempre un momento nella vita di ognuno, in cui lo stupore diventa rassegnazione, la rassegnazione accettazione, l’accettazione abitudine. E per quelle strane ragioni che riguardano l’evoluzione, in certi casi si può sopravvivere solo così. O almeno questo sembra.

 
 
 

“Presto torneranno i giorni belli, e io ricomincerò a occuparmi di frutteti in fiore”

Post n°1412 pubblicato il 04 Novembre 2016 da non.sono.io

C’è un ragazzino nel sedile accanto al mio. Non è nemmeno un ragazzino, è un moccioso, un poppante, avrà due anni o che cazzo ne so che a quell’età sembrano tutti uguali. E’ da quando è partito il treno che non fa che agitarsi, piangere, lamentarsi. La madre fa finta non esista. Ha gli occhi annacquati dall’indifferenza di colei che ha esaurito qualsiasi forza dopo la terza notte insonne. Il pentimento di aver scelto di figliare le ha scippato ogni volontà di opporsi alla pena che si è autoinflitta, e tutti i suoi anni migliori, o supposti tali. Le madri nel ventunesimo secolo hanno tutte questa stanchezza nello sguardo, che a me ricordano tanto quelli degli operai all’uscita dalla Mirafiori in certe interviste degli anni Settanta. “Chi cazzo me l’ha fatto fare”, sembra si ripetano in un mantra incoffessabile a chiunque.
Per quanto mi riguarda, osservo fuori il finestrino. Ho una musica che mi suona nelle orecchie, ma la rabbia che mi provoca quella piccola merda, ne copre le note. Mi domando quale sia il motivo per cui io debba sopportare gli sbagli altrui, insieme ai miei. In uno squarcio immaginario che si estende nel cielo veloce che sfugge alla corsa verso la prossima stazione, proiettano la scena nella quale io prendo per i piedi il ragazzino e lo scaglio lontano, fuori, in quel paesaggio che il treno, nel suo obbligo a rispettare gli orari, ogni secondo si lascia alle spalle.
Solo quando la mia immaginazione interviene in difesa della realtà, e il moccioso è ormai scomparso dalla mia visuale e a quella di qualsiasi altro passeggero, i miei polmoni riprendono a respirare regolarmente. Emetto un sospiro di sollievo.
Siamo adulti. Non conviene a nessuno fare a gara a chi soffre di più. I pareggi sono patetici in qualsiasi sport. Nessuno è disposto ad accollarsi i nostri lamenti, nemmeno se li urliamo, e se qualcuno ha infilato quel ragazzino nei problemi dei grandi, ha commesso un errore.
Gli adulti, nel ventunesimo secolo, sono bestie ferite.

 
 
 

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