Il sapore del riso al tè verde

imagesl’idea di girare Ohazuke no aji è venuta a Ozu nel 1939, dopo il suo rientro in patria dal fronte cinese. Siamo in pieno periodo bellico e in Giappone governa un regime militarista. Ozu ha già pronta la sceneggiatura ma viene criticata dal comitato preposto alla censura preventiva perchè pecca di scarso spirito patriottico, il riso al tè verde non è sufficentemente celebrativo per un avvenimento come la partenza del marito-protagonista per il fronte di guerra. Ozu si rifiuta di cambiare la sceneggiatura e il progetto viene archiviato. Nel 1952 il film viene riproposto con importanti modifiche nella sceneggiatura, in un contesto sociale e culturale molto cambiato. Le parole stesse di Ozu ci consentono di coglierne lo spirito autentico e di farne una corretta lettura. Così egli scrive a proposito del suo progetto nel 1940:

“Ciò che vorrei fare non è tanto descrivere quale dei due modi di vivere e di pensare – quello della donna ricca e svogliata o quello di quest’uomo – sia giusto. Piuttosto, sarò presuntuoso, ma vorrei ritrarre persone che vivono in due mondi diversi per cercare la reazione della gente… non è che nella nostra vita abbiamo dimenticato qualcosa di importante? Questo vorrei provare a far capire allo spettatore”

Ad una visione non approfondita si ha l’impressione che sia la moglie a tenere le fila del gioco fino all’ultimo mentre il marito pare abbozzare e subire con pazienza. E’ pur vero che il regista fa emergere la crisi dei ruoli tradizionali dentro la famiglia e la coppia. Il ruolo femminile sta cambiando e avanza nuove istanze mentre quello maschile rimane spiazzato come per un processo incalzante che accomuna ormai tutto il mondo occidentalizzato, Giappone compreso. Tutto ciò però serve a Ozu per riaffermare dentro la narrazione filmica il ruolo centrale di Satake e soprattutto dei valori che egli incarna.

All’interno della tensione polare tra frivolezza spendacciona e bon ton di facciata da una parte e l’austerità, la sobrietà e la semplicità dall’altra, Satake, ex capitano in guardia a Singapore, rappresenta l’affidabilità e la fondatezza degli atteggiamenti interiori che sono cari a Ozu, quelli della tradizione più autentica. Atteggiamenti che ritroviamo anche in Chiki Ariki del 1942 e che trascendono quindi le epoche storiche e politiche e le facili strumentalizzazioni del momento.
Satake, il marito che sembra soccombere e abbozzare davanti alla moglie Taeko che infierisce con disprezzo nei suoi confronti anche davanti alla domestica, diventa altresì paradigma dell’ “accettazione”. Modo esistenziale di porsi di fronte alle situazioni basato sulle antiche tradizioni orientali di chi sa guardare oltre la contingenza. Il saper mettere da parte il proprio ego insegna a distinguere tra ciò che è essenziale e ciò che è frutto di passioni ingannevoli e passeggere come lo sono le nuvole che temporaneamente oscurano il sole. Viene adottata in tal modo la filosofia del giunco che piegandosi fino a terra davanti all’infuriare del vento non si spezza e passata la tempesta ritorna integro e vitale. Silenzio, attesa, moderazione, pazienza, operosità nascosta che agisce dietro le quinte, risolutezza quando è necessaria, fanno parte pienamente del modo di vivere di Satake.

Ed è a questi valori che si volge da ultimo anche la moglie Taeko, rendendosi conto di quanto sia futile e falso il suo mondo di fronte alla solidità semplice e sincera dell’uomo. Egli che non ha esitato a partire per un lungo viaggio di lavoro deciso dal suo capo solo pochi giorni prima.
La “conversione” della moglie non significa tuttavia il suo annullamento o la sua umiliazione di fronte al marito, lo sguardo di Ozu mantiene la consueta discrezione e gentilezza anche nei confronti di Taeko, ma la scoperta “illuminante” di ciò che è meglio per la coppia. Illuminazione che è apertura di un varco e di un necessario ridimensionamento del proprio ego, come esperienza liberante che lascia finalmente esistere l’altro e le sue parole. E’ la sconfitta di pretese troppo esigenti e capricciose che non accettano di venire a patti con la realtà e la misura dell’altro mirando invece ai luccichii illusori di insegne vistose e allettanti, nuovi idoli di una borghesia arrembante. E’ questa misura che è simbolizzata dall’ochazuke così come dai vestiti di seconda mano dell’amico Noboru o dall’ospitalità disarmante dell’ex commilitone ora suo malgrado ridotto a gestire una sala da pachinko o anche dal ronfare della domestica Fumi nel retrocucina la notte del ritorno improvviso di Satake.
La semplicità del riso al tè verde, cibo poverissimo consumato nelle campagne, alimento che ricorda le origini modeste del protagonista, uomo che (come lo stesso regista) si è anche misurato con le ristrettezze della vita militare sul fronte di guerra, diventa metafora della vita di coppia e monito alla stessa a rimanere su di un terreno solido, affidabile e senza inutile orpelli.

 

L’arpa birmana

Kon Ichikawa, il regista che ha diretto L'arpa birmana
Kon Ichikawa, il regista che ha diretto L’arpa birmana

“La storia dell’arpa birmana è la storia del nostro reparto” recita la voce narrante. Si tratta quindi di un racconto corale che non riguarda solo l’esperienza, seppur eccezionale, di un singolo ma di un gruppo coeso di persone. Infatti l’io giapponese ritrova sè stesso sempre dentro l’appartenenza ad un insieme sociale. Si tratta in questo caso di un reparto di soldati giapponesi che inviati a combattere nella giungla birmana scoprono di aver perso la guerra e si ritrovano prigionieri dell’esercito inglese. La speranza di rivedere la loro terra è debole ma il capitano è molto determinato a ricondurre tutti i suoi soldati in Giappone, costi quel che costi.
Il soldato Misushima si distingue oltre che per il coraggio con cui affronta le spedizioni in solitaria anche per la sua abilità nell’arte musicale, è lui che ha imparato a suonare l’arpa birmana. Il capitano che è anch’egli un amante della musica ha insegnato ai suoi soldati a cantare in maniera ordinata. Il canto è diventato per loro il modo migliore per trascorrere il tempo e dimenticare le pene e la fatica. La vicenda di Misushima trova uno spazio particolare all’interno della vita del gruppo. E’ inviato dagli inglesi in missione presso un manipolo di soldati giapponesi che si rifiutavano di arrendersi, allo scopo di convincerli alla resa. Asserragliati in un fortino sul Colle del Triangolo opporranno agli sforzi di persuasione di Misushima la loro opposizione cieca e fanatica. E ciò costerà la vita a tutti loro sotto il fuoco delle mitragliatrici inglesi. Solo lui si salva, anche se gravemente ferito. Sarà questo l’inizio di un percorso esistenziale che lo allontanerà dal proprio gruppo di appartenenza.
“L’illuminazione” (satori) di Misushima sarà progressiva e passerà attraverso il suo incontro con decine, centinaia di suoi compagni morti in guerra e insepolti, esposti alle intemperie e agli avvoltoi. Come scoprirà più tardi dal bonzo buddista che lo assisterà salvandogli la vita “in Birmania i cadaveri dei nemici uccisi non vengono sepolti”. E’ uno shock per la sua coscienza e l’impulso interiore di dare a quei corpi una degna sepoltura e un estremo saluto è per lui troppo forte. L’assistere per caso ad un rito funebre cristiano in suffragio di un ignoto soldato giapponese (rivede forse in lui quella che poteva essere stata la sua sorte?) e ai canti ispirati che lo accompagnavano, lo convincerà del tutto a non ritornare dai suoi compagni al campo di Mudon ma di proseguire nel compito che ormai avverte come imprescindibile e da cui non può e non vuole sottrarsi.
E’ la sua un’esperienza interiore ineffabile e incomunicabile, egli pur volendolo non riesce a far sapere ai suoi compagni che non ritornerà al campo con loro e neppure in Giappone se mai sarà possibile “finché tutti i corpi dei soldati uccisi non avranno una sepoltura” anche “se non basterà tutta la terra rossa della Birmania a ricoprire i corpi”. Sarà la ricerca instancabile dei suoi compagni e il suo stesso desiderio di non lasciarli senza una risposta a determinare il percorso dell’ultima parte della narrazione filmica. In tutto ciò ha un posto di primo piano la musica dell’arpa che Misushima porta sempre con sé e il canto accorato e vibrante del gruppo dei soldati ad interrompere un silenzio che è già in sè stesso eloquente. Ogni parola in certe situazioni è di troppo e invece di “dire” rischia di occultare e ricoprire un’implicito che si afferma da solo.
Sarà tuttavia la lettera di Misushima letta sulla nave dal capitano durante il tragitto dell’agognato ritorno dei suoi soldati in Giappone a dileguare ogni dubbio sul destino del compagno d’armi che ha scelto di non ritornare nel suo amato Paese “perché una memoria d’amore si occupi di ognuno di quei corpi straziati a abbandonati”. L’oblio è come una legge universale e inesorabile che tutto macina e travolge, qualcuno però decide di opporsi alla forza della corrente e di affermare la necessità e il dovere di ricordare, perché una speranza possa rimanere nel mondo. E’ una decisione profondamente etica perché riguarda le realtà più sacre e spirituali dell’umano. Ed è certamente religiosa nel caso di Misushima che si pone nell’alveo della tradizione buddista e si connette alle radici etimologiche di questa parola che rimandano ai legami, a quello che lega l’uomo a ciò che egli ritiene sacro o divino. Legame che si estrinseca nell’agire “una memoria d’amore” verso ciascuno di quei soldati morti e i loro corpi in disfacimento “perché una lacrima di carità li salvi dall’oblio” come una pietosa carezza rivolta alle loro anime.

Il cinema di Ozu e dintorni: nuovo ciclo di incontri

Yasujiro Ozu

 

 

Il sesto ciclo sul cinema di Yasujiro Ozu e dintorni è dedicato al tema dei ricordi della guerra, ricordi che spesso si affacciano nei film del regista. Le prime due serate affronteranno opere di altri due autori giapponesi: Rapsodia in agosto di A. Kurosawa del 1991 e L’arpa birmana di K. Ichikawa del 1959. Il primo esplora le vie della memoria sulle tracce dell’ecatombe atomica di Nagasaki e si sofferma sulle difficoltà di attraversare le generazioni, per giungere a raccontarsi alle nuove. Il secondo affronta con profondo afflato poetico gli orrori della guerra.
La terza e quarta serata torneranno ad occuparsi del cinema di Ozu: la riproposizione di alcune sequenze mirate sul tema tratte da Il gusto del sakè, del 1962 e la visione de Il sapore del riso al tè verde. Quest’ultimo, la cui prima sceneggiatura risale al 1939 dopo il ritorno di Ozu dal fronte cinese e il cui progetto non andò in porto a causa della censura del tempo, uscirà nel 1952 con importanti modifiche. Le proiezioni sono intervallate da pause in cui scambiarsi liberamente pareri e impressioni.
Prima data: venerdi 23 marzo 2018
Introduzione e presentazione degli incontri. Visione di Rapsodia in agosto. Vi saranno alcune pause tra gruppi di sequenze per dare spazio a suggerimenti di chiavi di lettura, accostamenti ad altri film dell’autore, riflessioni…

Seconda data: venerdi 13 aprile 2018
Visione di L’arpa birmana.

Terza data: venerdi 4 maggio 2018
Visione di sequenze de Il gusto del sakè e prima parte de Il sapore del riso al té verde.

Quarta data: venerdi 18 maggio 2018
Visione della seconda parte de Il sapore del riso al té verde. Al termine spazio per gli interventi e la conversazione guidata. Conclusione e feed-back dei partecipanti.
Scaffali
A cura di Davide Bersan

Gli incontri si svolgeranno alle h. 20.30 presso la biblioteca comunale CRESCENZAGO, in via Don Orione a Milano, a due passi dalla fermata della Metropolitana di CIMIANO.

Cinema Giapponese

Ozu e colleghi

 

 

Continuano le iniziative ideate e curate da Davide Bersan sul cinema giapponese e in particolare quello del maestro Y. Ozu. Questa volta si tratta di tre incontri che si svolgeranno la domenica pomeriggio (il 4 e il 18 febbraio e il 4 marzo) a partire dalle h. 15.30 presso la Villa Pallavicini nel quartiere di Crescenzago (Milano). Qui di seguito la locandina dell’evento:

—- —- —-

CINEMA GIAPPONESE
ITINERARIO ATTRAVERSO LE OPERE DI YASUJIRO OZU
a cura di Davide Bersan

Locanda di tokio

Domenica 4 febbario ore 15,30
Introduzione al cinema di Y. Ozu. L’epoca del muto. Dal registro comico e leggero al registro drammatico. Visione del film del 1932 “Sono nato ma” di cui si eseguirà la punteggiatura selettiva dei gruppi di sequenze introducendo suggerimenti e chiavi di lettura.

Domenica 18 febbraio ore 15,30
Dal muto al parlato. L’attenzione alle realtà sociali. La focalizzazione sulla famiglia. Lo “shomingeki”: le storie della gente comune. Introduzione di alcuni brani da “Una locanda di Tokio” del 1935 e “Il figlio unico” del 1936. Spazio per gli interventi e la conversazione guidata.

Domenica 4 marzo ore 15,30
Gli anni della guerra. Il soldato Ozu inviato a combattere sul fronte cinese (1937 – 1939). Il ritorno in Giappone e la guerra del Pacifico (1939 – 1946). Clima culturale e intervento della censura. I film del periodo: visione di “C’era un padre” del 1942 con punteggiatura di gruppi di sequenze e spazio per la conversazione guidata al termine.

INGRESSO LIBERO
VILLA PALLAVICINI A.P.S.
VIA PRIVATA MEUCCI 3 – 20128 MILANO – TEL E FAX 02.256.57.52
www.villapallavicini.org

vlcsnap-2016-10-17-18h51m50s189

Forme dell’impermanenza

Mu

 

Pubblichiamo il primo capitolo del libro di Youssef Ishaghpour “Formes de l’impermanence. Le style de Yasujiro Ozu” che offre un’interessante chiave di lettura attraverso cui poter leggere l’intera opera del regista giapponese. Il libro è uscito alle stampe nel 2002 in Francia. La traduzione dal francese è di Davide Bersan

“Nei suoi film, Ozu fa mettere in posa i personaggi per una fotografia. E’ in generale un istante di felicità: il momento di una riunione familiare. Qualcosa di memorabile in sé, ma anche destinato a sparire, che non durerà, ecco perché lo si fotografa.
Tra la fotografia e il suo “soggetto”, esiste una armonia prestabilita: tracce di una assenza e di una sparizione, e anche immagine della famiglia. Nel mondo, si ha l’uso più comune della fotografia da lungo tempo: l’idillio familiare vi possiede il suo luogo, il suo “mezzo di espressione”, identico alla natura della famiglia, di cui il principale “compito” direbbe Hegel, nel portare il lutto.

La fotografia registra ciò che sembra destinato a dover sparire. Ma in molti film di Ozu, è di questa sparizione stessa che si tratta: la disgregazione della famiglia costituisce il tema principale dei suoi ultimi film.
La felicità, che i fotografi tentano di fissare, appare fugace, a livello dei film. Poiché il tempo differenzia l’immagine cinematografica dalla fotografia. E questo passaggio, come “impermanenza”, diviene presso Ozu il tenore essenziale, “l’idea” stessa dei film.
Tuttavia qui i fotografi sono quelli dell’epoca. Con degli apparecchi su dei piedi, essi scelgono il loro quadro, danno delle indicazioni, correggono gli atteggiamenti. Se la fotografia registra, in generale, i dati dell’esistenza ordinaria, senza cambiarvi niente in maniera intrinseca, i fotografi mettono questa esistenza in scena: essi la apprezzano attraverso il ritaglio, la posa e l’inquadratura. Così, in maniera ironica, e attraverso di essi, i film rivelano la loro propria pratica.

La riproduzione tecnica instaura un rapporto immediatamente mortifero tra l’immagine fotografica e il suo oggetto (ciò che Barthes chiamava la morte piatta, senza rituale). Ma per l’inquadramento dello spazio e del tempo e anche per la “tenuta”, a livello di ogni arredo, ogni oggetto, ogni gesto, ogni immagine, ogni istante il rituale si reintroduce presso Ozu. La sublimazione della relazione mortifera diviene, in quanto forma, costitutiva dei suoi film: la cerimonia del lutto, anche quando si tratta di vita.
Così il mondo dato, positivo, attuale, come si presenta davanti all’apparecchio, costiutisce l’oggetto dei film. La “cronaca di gente ordinaria” e il vissuto di questo mondo: la vita di famiglia, sottomessa, nella sua essenza stessa, al tempo, ne è il tema. L’immagine di riproduzione: apparenza spogliata di sostanza, e l’immagine cinematografica: la pura fugacità, creano il sentimento dell’impermanenza, la loro Idea. La possibilità di inquadrare, di ritagliare nello spazio e nel tempo, di stabilire degli intervalli e dei ritmi, di mettere a distanza, trasformare la vita ordinaria nella sua immagine, attraverso la stilizzazione del mondo e della quotidianità. E diviene, grazie al distacco stesso della forma, la conoscenza stessa dell’impermanenza: il “c’est ainsi” (è così) dell’esistenza tale quale essa è.”

 

Tornando su Il posto delle fragole: “Finito il dì…”

Venerdi 28 aprile di quest’anno presso la biblioteca Crescenzago abbiamo affrontato la visione di sequenze del capolavoro di Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, film del 1957. E’ un film che concentra varie tematiche che poi il regista svilupperà negli anni seguenti. Mentre in quest’opera, Bergman si mantiene su di un piano realistico nelle opere successive privilegierà in misura sempre maggiore un linguaggio più sperimentale e criptico. Narra la vicenda di un anziano professore di medicina, Isak Borg, vedovo, che vive da solo con la governante Agda e deve partire per un viaggio che deve portarlo a Lund, l’estremo Sud della Svezia per ricevere un riconoscimento ufficiale per tutta una carriera dedicata alla scienza medica. La notte prima della partenza gli succede di fare un sogno, un incubo che lo turba molto, i suoi contenuti hanno a che fare con la morte. Decide di partire in macchina anzichè in aereo e ad accompagnarlo sarà la nuora Marrianne, che ha trascorso un periodo a casa sua e ora si accinge a ritornare dal marito Ewald.
Il viaggio sarà occasione per uno scambio di confidenze molto franco con l’accompagnatrice, che nel corso della discussione lo accusa di celare dietro un aspetto bonario e un atteggiamento filantropico un cuore insensibile ed egoista. E sarà anche motivo di rivisitazione di luoghi del suo passato attraverso alcune soste. E’ così che attraverso una piccola deviazione Isak decide di fermarsi proprio nei pressi della vecchia casa in cui ha trascorso la sua infanzia e giovinezza con la sua numerosa famiglia. Sarà proprio qui che ritroverà “il posto delle fragole”, un luogo carico per lui di forti reminiscenze. Vi si siede lì accanto nell’erba e incomincia a lasciarsi trasportare dal flusso dei ricordi: il suo primo innamoramento, le prime delusioni, il primo accorgersi di come lo vedevano gli altri della famiglia.

E’ la voce di una ragazza a distoglierlo dai suoi pensieri, una ragazza giovane e graziosa che ha lo stesso nome, Sara, della amata cugina (è interpretata anche dalla stessa attrice, Bibi Anderson). Insieme a due giovani amici si sta recando in Italia e gli chiede un passaggio fino a Lund. Isak accetta volentieri di concederglielo. Il viaggio prosegue e viene però temporaneamente interrotto da un incidente: una macchina taglia loro la strada investendoli. Nessuno si ferisce ma occorre rimettere in strada l’auto di Isak mentre l’altra è fuori uso. Alla guida dell’auto c’era una donna che stava discutendo animatamente con il marito. Il motivo della discussione riguarda temi religiosi come la provvidenza divina e il giudizio, sostenuti dall’uomo e negati da lei. I coniugi verranno anche loro trasportati per un tratto di strada. Il loro comportamento si rivela però insopportabile, continuando a provocarsi e a insultarsi vicendevolmente. Sarà Mariamne ad un certo punto a invitarli a scendere dall’auto e a continuare a piedi la loro strada.

Un’altra sosta in un posto piacevole rasserenerà gli animi e darà spazio a riflessioni profonde sul senso della vita e sull’esistenza di Dio. I due ragazzi amici di Sara, che paiono rappresentare plasticamente il conflitto che agita lo stesso regista iniziano una discussione animata proprio su quest’ultimo argomento: Anders che è studente di teologia contraddice le tesi razionaliste e atee di Victor.
Anche il professore viene interpellato su questo argomento. Egli prima cerca di evadere la domanda poi dopo qualche attimo di silenzio accenna a dei versi di una poesia che sembrano la continuazione di quelli recitati prima da Anders. Sarà poi Marianne a continuarla, riprendendo i versi lì dove Anders si era fermato dopo che lui stesso l’aveva ripresa nel punto in cui Isak si era interrotto. Dopo la frase “finito il dì…” Isak non ricorda più com’è il seguito. Pensandoci bene non è un caso che la memoria di Isac si inceppi proprio su quella frase.

“…Se il creato a noi si manifesta
con la gioia esplosiva di un’eterna festa
sarà di uno splendore inusitato
chi la vita ci ha dato (Anders)

Dov’è l’amico che il mio cuore ansioso
ricerca ovunque senza avere mai riposo?
finito il dì … finito il dì… (Isac)

…finito il dì ancor non l’ho trovato
e resto sconsolato (Anders)

La sua presenza è indubbia e io la sento
in ogni fiore e in ogni spiga al vento.
L’aria che da respiro e da vigore del suo amore é piena
nel vento dell’estate la sua voce intendo (Marianne)
Partiti di lì, e fermatisi a fare il pieno presso un distributore di benzina Isak, con sua sorpresa, viene riconosciuto dal benzinaio e dalla moglie incinta che gli manifestano stima e gratitudine per il suo lavoro di medico svolto con grande generosità per anni in quella zona. Il benzinaio ipotizza tra il serio e il faceto di chiamare Isak il figlio che sta per nascere. Isak viene assorbito dai suoi pensieri mentre incrocia lo sguardo della nuora Marianne, che accenna un lieve sorriso. Impossibile non riandare col pensiero alle frasi crude e taglienti uscite dalle labbra di Marianne all’inizio del viaggio in cui metteva a nudo i difetti del professore occultati dalla “maschera” sociale. Il tema della maschera è fortemente presente in tutta l’opera bergmaniana. Ad Isac sfugge una frase senza quasi rendersene conto: “Forse dovevo rimanere qui”. Il viaggio riprende.
Trovandosi sulla strada Isak decide di andare a trovare insieme a Marianne, la vecchia madre di 96 anni che è ancora attiva e lucida. Sarà motivo per ricordare antichi eventi della famiglia e per rispolverare vecchie fotografie. L’anziana impressionerà Marianne per la sua durezza e l’essere priva di ogni calore umano.
Il prosieguo del viaggio avviene mentre Isak si abbandona al sonno. Ancora una volta però sarà disturbato da sogni pieni di situazioni umilianti e penose, a volte persino crudeli. Si tratta di un lungo sogno che per comodità descrittiva si può dividere in tre parti. Nella prima la cugina Sara tiene in mano uno specchio e gli chiede di guardarsi (nel sogno Isak è anziano), poi gli mostrerà il bambino che ha avuto da suo fratello Sigfrid e da ultimo Isak vedrà lei e il fratello felici, che si scambiano delle effusioni nella loro casa. La seconda parte del sogno è ancora più straniante: Isak deve ripetere l’esame di medicina e l’esaminatore è l’uomo soccorso per strada dopo l’incidente. Isak non sa rispondere alle domande, neanche a quella più semplice che riguarda il primo dovere di un medico. E’ l’esaminatore che gli dà la risposta:
“Il primo dovere di un medico è chiedere perdono!”
Alla fine il verdetto sarà inappellabile: Isak viene giudicato Incompetente.. ma anche indifferente, incapace di comprendere, egoista.
Nella terza parte del sogno Isak è accompagnato dall’esaminatore all’interno di una boscaglia dove assiste alla tresca della moglie defunta con il suo amante e alla consumazione dell’ adulterio. Poi la moglie parla di lui come di un uomo falsamente generoso, incapace di vera compassione, gelido. Ad un certo punto rimangono solo Isak e l’esaminatore che gli fa notare come il silenzio che si è improvvisamente creato sia stato provocato da un’operazione chirurgica di asportazione, riuscita perfettamente, per cui “non c’è più nulla che dolga o palpiti”. Allora il professore chiede quale sarà la punizione. “E’ chiaro, la solitudine” si sente rispondere. “E non ci sarà clemenza?” continua a chiedere. E la risposta dell’esaminatore lo rimanda crudelmente a sè stesso:
“Non lo chieda a me. Non è compito mio”.

Isak si risveglia e trova accanto a lui Marianne mentre i ragazzi sono andati a raccogliere dei fiori lì attorno. Le dice che continua a fare dei sogni strani come se volessero dirgli delle cose che lui non vuole ascoltare da sveglio. Ad esempio di essere morto anche se sembra vivo. Marianne riconosce in queste parole le stesse del marito Ewald e inizia a confidare per la prima volta il suo dramma interiore al suocero. E’ incinta ma Ewald non vuole il bambino al contrario di lei.
Vengono interrotti dai tre ragazzi che fanno gli auguri al professore porgendogli i fiori appena raccolti. Il viaggio prosegue per Lund. Ad accoglierli Agda che pur brontolando è venuta con l’aereo. Durante la cerimonia del giubileo Isak pensa ai fatti della giornata e decide di metterli per iscritto.
A fine giornata Isak chiede ad Agda se è stanca e le porge anche le sue scuse per la discussione avuta con lei durante la colazione del mattino. Lei ne è piacevolmente meravigliata. Trovatosi solo in stanza sente le voci di una canzone dolce e malinconica: sono i tre giovani, Sara, Anders e Victor che da sotto la sua finestra lo salutano prima di ripartire per l’Italia. Isak è commosso. Mentre si sta già addormentando giungono il figlio Ewald e Marianne. Isak chiede al figlio di rimanere un pò per potergli parlare. Gli chiede di lui e Marianne. Poi anche Marianne giunge a salutarlo. Questo saluto fa molto piacere a Isak, la nuora gli dice congedandosi “di volergli molto bene” e anche lui ricambia con le stesse parole mentre si scambiano un abbraccio affettuoso. Rimasto di nuovo solo Isak per rasserenarsi pensa ai ricordi felici della prima giovinezza. Davanti ai suoi occhi scorrono le immagini serene dei familiari, del lago vicino a casa, del padre che sta pescando accanto alla madre mentre lui li chiama e li saluta da lontano.

Note su “Crepuscolo di Tokio”

Tokio boshoku (Crepuscolo di Tokio) è un film del 1957. Si tratta dell’ultimo film di Ozu in bianco e nero ed effettivamente è come se chiudesse un ciclo. Il film successivo Hingambana (Fiori di equinozio) sarà di fatto un’esplosione di colore e di solarità e la crisi familiare che vi sarà comunque rappresentata assumerà le tinte della commedia e solo in certi momenti incontrerà le sfumature del dramma. Qui invece siamo nel pieno di un dramma che sfocerà in tragedia. I toni sono lenti come sempre ma anche cupi, “crepuscolari” come dice il titolo, girato quasi sempre in interni anche poco illuminati e nelle ore serali o notturne, comunque quando il sole è già in declino. Per di più nella stagione più dura e ingrata: il freddo inverno di Tokio. L’ambientazione ci riserva quindi abbondanti nevicate, cappotti e guanti, cappelli invernali, stufe obbligatoriamente accese in locali fumosi dove la gente si rifugia per consumare un pasto caldo o per giocare d’azzardo.

Al centro di Tokio boshoku c’è la vicenda delle due figlie di Shukichi: Akiko che vive segretamente il dramma di una gravidanza indesiderata frutto di un rapporto con un suo coetaneo che continua a fuggire dalle sue responsabilità e non si fa più trovare da lei. Takako, la figlia maggiore che attraversa una crisi matrimoniale e a causa di ciò si è trasferita per un periodo a casa del padre con la bambina di pochi mesi, lasciando solo il marito. La vicenda delle due sorelle che si intreccia nella prima parte si complicherà ulteriormente nella seconda con la ricomparsa a Tokio della loro madre, scappata di casa con un altro uomo venti anni prima. C’è molto materiale in effetti per costruire un melodramma come si deve. Il tutto sarà però condotto dalla mano del maestro Ozu in modo “smorzato”, trattenuto e messo a distanza.

E’ la figura del padre in realtà a tenere insieme il quadro, a darne struttura e continuità mentre viene dipanato un tessuto familiare che si presenta fin dall’inizio imploso e sbrindellato. Il padre, impersonato come spesso accade nei film di Ozu dall’attore Kishu Ryu, che funge da “attore-feticcio” o alter-ego del regista, raccoglie in sé quanto di meglio ha saputo conservare ed elaborare la famiglia tradizionale a contatto con le nuove istanze di “democratizzazione” e l’ introduzione di principi liberali di marca occidentale. Pare per certi versi che l’intento di Ozu sia quello di offrire questa sintesi alle generazioni successive perché non buttino il bambino con l’acqua sporca.

E’ un padre che viene disegnato dal regista quasi come un simbolo vivente dell’eroicità del quotidiano. Di un saper rimanere al proprio posto senza alcun indietreggiare rispetto a quello che si sta abbattendo sull’istituzione che egli rappresenta. Egli ci ricorda molto il padre del film del 1942 : “Chichi Ariki” (C’era un padre) e di quando alla fine dopo la sua morte e dopo una vita trascorsa a svolgere il proprio compito e “senza mai perdere un giorno di lavoro” il figlio dirà alla moglie “mio padre è stato un uomo straordinario”. Egli mantiene qualcosa, un’ombra, di quell’eroicità condita dei valori del bushido quali la fedeltà, l’abnegazione di sé, lo sprezzo del pericolo e della morte, ma trasferiti in un contesto prosaico e pacifico, dove i nemici non brandiscono spade ne usano archi o frecce ma colpiscono invisibilmente e silenziosamente penetrando negli animi e introducendo disgregazione e confusione. Battaglia silenziosa quindi e tutta interna, interiore e spirituale.

 

Ozu stesso intervistato riguardo al film si meraviglia che l’attenzione del pubblico e della critica, che peraltro non lo ha sufficientemente apprezzato, si concentrasse soprattutto sul mondo giovanile che vi è rappresentato mentre lui voleva “ritrarre la vita del personaggio interpretato da Ryu (Kishu), un uomo lasciato dalla moglie che cerca di tirare avanti nella vita, insomma un film incentrato su una persona della vecchia generazione” (Yasujiro Ozu, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Donzelli Editore, pag. 122).
Certo è un padre molto diverso dal marito di Takako, intellettuale sfuggente che fa dotte traduzioni e scrive articoli che parlano di “resistenza alla libertà”. Uomo peraltro dedito all’alcool e “nevrotico”, che non controlla le sue reazioni scomposte sulla bambina, che ai tentativi del suocero di mediare per riportare armonia nel suo matrimonio, latita, minimizza, cambia discorso.

Anche molto diverso dal giovane Ken, altro potenziale padre in fuga, preoccupato per il suo aspetto e la sua faccia smagrita mentre la sua ragazza si dibatte nella più cupa angoscia di fronte ad una scelta in cui lui la lascia totalmente sola.
Padri o mancati padri che rinnegando il proprio ruolo e rinunciando ad esercitarlo costringono il femminile in un angolo e lo obbligano a reagire: o con la disperazione come nel caso di Ken con Akiko o con un’assunzione virile di responsabilità come nel caso del marito di Takako con la moglie. La tendenza centrifuga colpisce tuttavia tutti i membri della famiglia, e le figlie come l’ex moglie ne sono a tutti gli effetti coinvolte e travolte. In tutto ciò appare ancora più eroica la figura di Shukichi.

Ancora qualche parola sul tema della colpa, uno dei temi dell’ultimo ciclo di incontri in biblioteca. In Rashomon di Kurosawa essa è abbracciata come paravento per la propria immagine, anche di fronte a sè stessi. I tre protagonisti se la assumono in pieno ma solo perchè facendo così possono salvare la faccia ed esibire una coerenza che è solo ideale.

Ne Il posto delle fragole di Bergman è un sentimento oscuro, opaco, indifferenziato che assume vari nomi :egoismo, freddezza, insensibilità, falsa generosità. La coscienza di esso si fa strada attraverso i sogni e l’inconscio e questo è il solo presupposto per risvegliarsi da una vita apparente che in realtà è morte e incontrare il proprio desiderio di clemenza, anche negli altri.

In Tokio boshoku la colpa è un bagaglio gravoso di cui si avverte il peso e se ne subisce le conseguenze. Non ci sono sconti nè attenuanti ma si può portare con rassegnata sopportazione e dignità. Su tutto cala un grande silenzio omissivo, non se ne parla per anni, un’aura di segretezza avvolge ogni cosa. C’è come un divieto tacito ad affrontare l’argomento, certo per non doverne soffrire o farne soffrire altri. Finchè non lo si fa costretti dalle situazioni. E’ una colpa che comunque riguarda tutti, nessuno escluso. Occorre comunque imparare dagli errori passati, farne tesoro. E anche saper girare pagina, accettare l’ineluttabile e iniziare a vivere una nuova giornata. Anche se è inverno.

Da dove nasce l’idea di un blog

Yasujiro OzuL’idea del Blog scaturisce dall’esperienza dei laboratori sul cinema di Y. Ozu e dintorni, ideati e curati da Davide Bersan. L’esperienza pluriennale (il primo ciclo si è svolto a maggio del 2015) ha compreso numerose serate organizzate sin qui in cinque cicli, dei quali due di quattro e gli altri di due incontri per un totale di quattordici, tutti presso la biblioteca Crescenzago sita in Zona 2 a Milano. Ciò non sarebbe stato possibile senza il coinvolgimento attivo e partecipe di un gruppo nutrito di persone che ha dato il suo contributo in termini di riflessione e di interventi mantenendo elevato il livello della discussione. Interventi che i partecipanti formulavano evidentemente a partire dal loro specifico retroterra culturale e professionale, spaziando in tal modo da considerazioni sullo specifico dell’opera filmica ad altre sollecitate dallo sforzo del curatore di inquadrarla nel suo preciso contesto socio-culturale. Considerazioni di tipo storico o letterario si accompagnavano a quelle che introducevano spunti filosofici o sociologici o psicanalitici. Ma senza escludere gli interventi che si basavano su riflessioni più di tipo esistenziale o spirituale. Il cinema di Ozu e degli altri autori presentati in effetti si prestava a tutto ciò e anche ad altro ancora se il tempo lo avesse permesso. I laboratori hanno in definitiva questa finalità di facilitare la messa in gioco di elementi culturali diversi sempre a partire da un confronto mediato con l’opera artistica di Y. Ozu o di altri autori che gli vengono affiancati, giapponesi oppure no.

– L’opera d’arte, nel nostro caso filmica ha il potere di parlare a vari livelli e di raggiungere la nostra coscienza attraverso vari canali e tipologie di sintonizzazione, provocando una vasta gamma di stimoli, spunti e riflessioni. Ciò può riguardare anche risonanze più concrete ed esistenziali e aspetti che toccano quella che potremmo chiamare la “natura spirituale” dell’uomo e la ricchezza della sua dimensione simbolica. Viene considerata infatti la soggettività come un’istanza aperta e abitata dalla capacità di trascendersi.

– Alcune persone che hanno partecipato ai laboratori sono ritornate spesso, anche ad ognuno dei cicli che si sono succeduti manifestando un interesse particolare e una domanda di continuità.
– Il tessuto sociale estremamente sfilacciato e atomizzato, rappresentato emblematicamente dal quartiere in cui è nata questa esperienza, espressione della difficoltà oltre che della ricchezza dell’incontrarsi di persone dalle origini culturali ed etniche diversissime ha determinato la ricerca di qualche denominatore comune che si è nel nostro caso identificato nell’arte cinematografica di un grande autore giapponese. Ci si propone quindi di dar vita a forme di aggregazione e di incontro che siano anche occasione di uno scambio di umanità e di autentiche relazioni in cui si persegue la possibilità della trasformazione dei “non-luoghi” (secondo la nota accezione descritta da M. Augè) in veri luoghi in cui coltivare appartenenze che non mortificano la storia personale di ognuno e in cui poter essere riconosciuti nella propria preziosa e inestimabile unicità.
– Si è scelto di identificare tale motore di trasformazione nella riflessione culturale condivisa mediata dall’opera d’arte cinematografica che in quanto creazione artistica sfugge le categorie predefinite e le facili etichettature mentre apre a significati ulteriori ed “altri”. L’opera di Ozu è da questo punto di vista di una ricchezza non comune per l’ampiezza dei punti da cui può essere colta e analizzata. Anche gli autori che a lui saranno affiancati saranno scelti sulla base di questa poliedricità difficilmente esuribile in un’unica dimensione o chiave di lettura.
– Il Blog è un contenitore di interventi, non solo sotto forma di riflessioni scritte ma anche di altro formato creativo, ad esempio il disegno o lo schizzo, la poesia, il racconto breve, che traggono spunto dagli eventi come i laboratori e che necessitano di un ulteriore spazio virtuale in cui esplicitarsi. Questo anche con l’intenzione di permettere a chi lo desidera di essere incluso in una rete di persone a cui corrispondano anche dei volti (e non quindi delle semplici entità, emoticon vari…). Si tratta di costruire un tessuto relazionale in cui trovare oltre che un pubblico che ci ascolta e ci legge, anche una piazza, un’agorà in cui esporre i propri pensieri o le proprie ispirazioni e riflessioni che siano state originate anche indirettamente da quei momenti come i laboratori o altre forme che potranno essere trovate, in cui si è analizzata l’opera d’arte nella sua forma filmica, ma anche letteraria o poetica.

– Fin dall’inizio si è affiancato al film di Ozu un’opera di tipo letterario, sempre dal panorama giapponese (ricordiamo Inoue Yasushi, Natsume Soseki e da ultimi Akutagawa e la corrente letteraria della cosidetta “Stagione del sole”). il Blog, come i laboratori, può essere un catalizzatore di ispirazioni e suggerimenti per esplorare altri autori non solo registi ma anche poeti o letterati o rappresentanti delle arti figurative o anche musicali da affiancare all’opera di Y. Ozu.
– Dentro tale scia il blog può fungere da strumento propulsore di nuove iniziative e ispiratore di altri “format” oltre a quello dei laboratori in biblioteca per costruire eventi generatori di riflessione culturale sempre attraverso la mediazione della forma artistica. Arte che non necessariamente dev’essere giapponese o orientale anche se l’accostamento al regista Ozu dovrebbe rimanere una caratteristica specifica del formato del Blog come lo è stata per i laboratori. Ciò per delimitare il nostro campo di azione e riflessione al nucleo di ispirazione iniziale e tenere saldo un parametro di orientamento che ci permette di non disperderci in un oceano indefinito di riferimenti culturali.

Da Capo Sata a Capo Soya in autostop

OsakaDa Capo Sata a Capo Soya, dall’estremo Sud del Giappone nell’isola di Kiushu all’estremo Nord nell’isola di Hoccaido: è questo il viaggio in autostop che viene descritto nel libro di Will Ferguson “Autostop con Budda. Viaggio attraverso il Giappone”. Viaggio raccontato in prima persona dall’autore, di nazionalità canadese, che insegna la lingua inglese in una scuola di Minamata nel Kiushu. Egli ha fatto la scommessa con i colleghi di seguire il fronte della fioritura dei sakura (i fiori di ciliegio), l’evento annuale che i giapponesi seguono con grande attesa e partecipazione attraverso i notiziari quotidiani.
Viaggio con spunti autobiografici e che pare voler svelare tra le righe una ricerca esistenziale, un desiderio malcelato di incontrare sè stesso ma anche una serie di domande sui perchè e sul senso di una permanenza in Giappone fino a chiedersi se è ancora tempo di restare in questo grande, contraddittorio e sorprendente Paese. Un viaggio per capire i giapponesi e incontrarli al di fuori degli schemi consueti, per conoscere le loro città dietro le immagini da cartolina, la vita che vi si svolge dietro le insegne al neon che illuminano le strade notturne e quella che prende vita sotto le incantevoli albe che ritornano ad illuminarle ogni giorno.
Ne vengono fuori numerosi ritratti umani di persone incontrate attraverso gli altrettanti passaggi in auto, persone che si rivelano spesso imprevedibilmente generose oltremisura fino ad offrire passaggi ben oltre la meta prefissata e addirittura ospitalità nelle loro case per la notte. Anche i paesaggi, le città e i villaggi così come gli individui sono descritti con intelligente ironia che comunque conserva quella simpatia e quel garbo che rende la lettura gradevole e interessante.
Si può leggere questo libro come una guida per chi desidera visitare il Giappone oppure come un percorso per avvicinarsi a certi aspetti della vita sociale e culturale come pure della storia antica e recente, della religione e dell’arte dei suoi abitanti, tanti sono gli spunti in tal senso, disseminati qua e là lungo le numerose pagine del libro. Ecco, io ho scelto questa seconda modalità e ho trovato alcuni stralci del racconto interessanti e stimolanti per comprendere certi modi di fare e certi atteggiamenti mentali spesso presenti anche nei film di Y. Ozu.

—- —- —-

Dal libro di W. Ferguson riportiamo brani dalle pagine 39-40:
I cani-leoni

“Ai templi si accede attraverso i cancelli torii, e di solito all’ingresso si trovano due cani-leoni in pietra a fare la guardia… Un cane-leone ha la bocca sempre aperta, l’altro ha la bocca sempre chiusa. Il cane-leone con la bocca aperta si chiama Ah, l’altro Un, o meglio, nn. “Ah” è il primo suono che si emette quando si nasce; “nn” è l’ultimo prima di morire, “Ah” è il respiro inalato che dà inizio alla vita; “nn” è il sospiro del sollievo, il soffio che permette alla vita di fuggire. Tra i due intercorre un’intera esistenza, un universo intero ruota intorno a un singolo respiro. Ah è anche il primo simbolo dell’alfabeto giapponese, n è l’ultimo. E così, tra questi due cani-leoni, abbiamo anche la A e la Z, l’Alfa e l’Omega. In antico sanscrito, ah-un significa “la fine e il principio dell’universo; l’infinito liberato”.

Nel film Viaggio a Tokio, la coppia di anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene convinta da loro a soggiornare ad Atami
Nel film Viaggio a Tokio, la coppia di
anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene convinta da loro a soggiornare ad Atami
In Giappone, quando tra persone esiste una perfetta sintonia, come tra un pianista e un violinsta in un duetto, si dice ah/un-no-kokyu. Kokyu significa “respirare”, e tutta la frase fa pensare a una perfetta e splendida armonia: ah/un-no-kokyu, due o più anime e un solo respiro. Se l’ideale a cui aspira il mondo occidentale è l’autorealizzazione, quello a cui aspira il Giappone – e, di certo, gran parte dell’Asia – è dunque la sintonia. Il termine armonia ha in giapponese la stessa valenza che la parola libertà ha in Occidente.
In Giappone, il termine che esprime il concetto di libertà, jiyu, porta con sé un retrogusto di comportamento egoista o irresponsabile. L’armonia di gruppo è considerata un valore molto più nobile… Se dovessi rappresentare con un’immagine gli ideali dell’Occidente, sceglierei la Statua della Libertà o, come la chiamano in Giappone, dea Jiyu: con la sua postura eretta, lo sguardo di sfida e la torcia alzata, ha una presenza unica, potente ed eccezionale. Non certo quel genere d’immagine che sceglierei se volessi dare forma agli ideali giapponesi…
Un cane e un leone così uniti nello spirito da fondersi in un’unica entità. Ah/un-no-kokyu. Su un piano meno esoterico, l’ah-un si può ben paragonare alle vecchie coppie sposate (o agli amici di vecchia data) che stanno insieme da così tanto tempo da non avere nemmeno bisogno, quando parlano,di terminare le frasi. Uno dice “Ah..” e l’altro l’asseconda con un “Nn…” (che è l’equivalente giapponese del nostro “Ah-hah”), e subito si capiscono”.

 

Note su “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman

Nell’ultimo ciclo di incontri sul cinema di Ozu e dintorni abbiamo voluto accostare a due film di autori giapponesi (Rashomon di A. Kurosawa e Crepuscolo di Tokio di Y. Ozu) un film di I. Bergman del 1957 molto noto che ha consacrato la fama del regista svedese a livello mondiale. L’accostamento oltre che per la contemporaneità dell’uscita sugli schermi rispetto al film di Ozu è soprattutto per le tematiche che si sono scelte di affrontare nel corso del laboratorio, e cioè il complesso rapporto con la verità, la propria coscienza e la colpa. Riservandoci di considerare gli stessi temi, anche nell’opera di Ozu e alla luce del confronto vissuto nel corso delle serate in biblioteca, ci soffermiamo ora sull’opera di Bergman. Essi sono solo alcuni dei numerosi temi presenti ne “Il posto delle fragole” che non cessa di stupire e di far riflettere ogni volta che se ne affronta una nostra nuova visione.

Prima di analizzare attraverso alcune notazioni il racconto filmico ricordiamo che vi si ritrovano il rapporto con la verità come esplorazione inesausta e inappagata, che si lascia contaminare, interrogare e anche affascinare dai temi classici della teologia, come l’esistenza di Dio, il suo intervento provvidenziale nella vita degli umani, il giudizio ultimo dopo la morte, la clemenza… Bergman era figlio di un pastore luterano, lo seguiva fin dall’infanzia nei suoi spostamenti legati al ministero… seppur ponendo continui schermi e deviazioni che appariranno soprattutto nelle sue opere successive, non abbandonerà mai del tutto questa suo travagliato percorso di ricerca.

Il rapporto con la propria coscienza è sondato attraverso la presenza perturbante dei sogni e delle reminiscenze, quel fantasticare da svegli che attiva e anima il lavoro della memoria e del ricordare. E tutto ciò è legato al tema della colpa che viene in tal modo risvegliata e scongelata da quei depositi inerti e dimenticati in cui la coscienza l’aveva relegata. Ma è attraverso quel disagio ineludibile di un penoso crogiolo che nel film è rappresentato dal viaggio in macchina da Stoccolma a Lund che la coscienza del Dottor Isac Borg trova il coraggio di affrontare ciò che in altri termini è chiamato “egoismo”, “insensibilità”, “freddezza” e di mettersi in dialogo con i propri recessi nascosti.

Il viaggio sarà per lui l’occasione di passare da uno stato di vita apparente, puro sembiante di un “uomo già morto” che trova riflesso nelle parole ripetute dal figlio Ewald e riferite da Marianne, ad uno che esperimenta una sorta di risurrezione nei rapporti con i propri simili, le persone che gli vivono accanto. Persone che ora acquistano ai suoi occhi quel valore non funzionale ma “per sè stessi” che prima non era visto, valore che restituisce pregnanza e circolarità nel presente anche ai ricordi della vita passata. Anch’essi vengono illuminati da una luce tenue che li rischiara, ora che giunge la sera: “finito il dì…” E il cuore del vecchio, disibernato, è in grado di commuoversi di gratitudine per dei gesti semplici ma non scontati, di chi ancora gli vuol bene, nonostante tutto.