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Messaggi di Marzo 2020

 

Quasi nemici

Post n°15648 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Camélia Jordana, già attrice nell'acclamata commedia francese del 2017 Due sotto il burqa, ora nelle vesti di una studentessa di giurisprudenza dell'Università di Parigi 2 Neïla Salah, in un'interpretazione che le è valsa il premio César come migliore promessa femminile del cinema francese. Il film è la storia dell'incontro e dell'inaspettato avvicinamento di una ragazza di origine araba proveniente dai sobborghi parigini e Pierre Mazard (Daniel Auteuil), un noto professore dai modi burberi e di estrazione benestante. Lui le insegnerà la nobile arte della retorica, arma con cui lei imparerà a imporsi sia nella sua carriera, che nella vita privata; ma il gesto del professore si rivelerà essere tutt'altro che altruista e tutti i nodi verranno al pettine.

Supportato dalle teorie dei grandi studiosi e intellettuali della storia del pensiero e della filosofia, il professore - ma sarebbe meglio dire: il regista Attal - ci consegna a noi spettatori delle piccole lezioni di retorica, di eloquenza, sul parlare bene e sulla costruzione del consenso.

Non conta solo ciò che si dice ma anche - e certe volte soprattutto - come lo si dice. E perciò tutto si può dire, bisogna solo vedere quali argomentazioni si portano.

Il refrain del film, nocciolo essenziale delle lezioni di retorica del professore è: «La verità non importa, ciò che importa è avere sempre ragione». In questo senso, Mazard intende il dialogo come una colluttazione, uno scontro, un conflitto, in cui uno dei due interlocutori deve avere sempre la meglio. Come spesso succede, proprio quando si ha appreso e interiorizzato la tecnica arriva il momento di trasgredirla. Infatti, il film da un certo punto in poi procede invalidando ciò che prima aveva costruito in un espediente molto classico del racconto al cinema: ribaltando le premesse e mostrandone i punti deboli, le discrasie. Quindi, in maniera intelligente il regista francese non riduce le lezioni di Mazard a delle regoline da seguire pedissequamente, ma le descrive come degli strumenti da saper utilizzare anche in relazione al contesto, conoscendone il funzionamento, i punti di forza e le zone d'ombra o le irriducibili contraddizioni.

 
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Il prigioniero coreano

Post n°15647 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C'è però chi non rinuncia all'idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l'opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.

Kim Ki-Duk torna al suo cinema delle origini, quello che lo fece conoscere al pubblico di tutto il mondo per l'attenzione che prestava agli emarginati dalla società e per la durezza di alcune situazioni portate sullo schermo.

Lo fa con il suo film forse più esplicitamente politico, destinato a non piacere né al di qua né al di là del 38° parallelo. Si può essere certi che al Nord non lo vedranno mai ma di sicuro anche al Sud non avrà vita facile. Perché il regista ha la consapevolezza di proporre una lettura decisamente scomoda per entrambe le parti in causa.

Il povero pescatore, colpevole solo di non aver voluto perdere, salvandosi a nuoto, la propria barca raggiunge quello che per la propaganda del duro regime di Kim Jong il è l'inferno capitalistico dinanzi al quale bisogna chiudere gli occhi per non correre il rischio di esserne tentati. Nam Chul-woo crede nel regime e i funzionari sudcoreani, seppur divisi sul da farsi, non fanno molto per confutare le sue credenze. C'è chi è dotato di un'arroganza di segno uguale e contrario a quella dei potenti del Nord e non mancano anche segni deteriori della società (ad esempio la prostituzione) che inducono quest'uomo semplice a chiedersi in cosa consista la democrazia. Gli verrà risposto con una frase emblematica: "Dove c'è una forte luce c'è sempre anche una grande ombra".

 
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Spider Man - Un nuovo universo

Post n°15646 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Miles Morale è un ragazzo afro-ispanico di New York che è appena entrato in una scuola relativamente esclusiva, dove però si sente fuori luogo. Qui infatti non conosce nessuno e suo padre, un poliziotto che detesta Spider-Man, non lo aiuta mettendolo in imbarazzo. Miles si rifugia dallo zio, che asseconda invece la sua passione da street artist, ma durante una escursione nei sotterranei di New York Miles viene morso da un ragno radioattivo. Il giorno dopo, sconvolto da sorprendenti poteri che somigliano a quelli di Spider-Man, torna a cercare il ragno e finisce per assistere a uno scontro tra l'eroe e vari villain, durante il quale un esperimento per aprire un varco dimensionale ha effetti imprevisti. Presto Miles scoprirà che non c'è un solo Uomo Ragno!

La visione di Spider-Man - Un nuovo universo è, senza mezzi termini, un'esperienza entusiasmante e qualcosa di mai visto prima al cinema. Il dinamismo e la stilizzazione dell'animazione 2D ha finalmente incontrato i volumi, la profondità e la libertà dei movimenti di macchina di quella in 3D, in una sintesi sbalorditiva.

Non si crede quasi ai propri occhi di fronte a un film così radicalmente diverso da quello che abbiamo finora visto in animazione, sia dagli studi americani che nel 3D tendono a somigliarsi fin troppo, sia da quelli giapponesi, che hanno già tentato la strada una strada simile ma con risultati molto più freddi. Il colpo di genio di Spider-Man - Un nuovo universo è stato di caricare il tutto degli elementi grafici più tipici del fumetto, a partire dai pallini della colorazione a retini e dalle onomatopee. Soprattutto i retini si sposano benissimo alla storia di Miles Morales che qui è uno street artist, diversamente dalla versione originale di Brian Michael Bendis e dalla romana Sara Pichelli (di cui a un certo punto è inclusa nel film una finta cover realizzata appositamente per la pellicola). Questo tipo di colorazione "low-fi" si amalgama allo spruzzo dello spray e ad altre tecniche di street art, inoltre cancella ogni tentazione fotorealistica e permette di godere appieno di un'animazione scatenata.

Geniale poi l'uso delle onomatopee per come entrano a tempo nell'immagine, spesso dialogando con le parole e con la musica. A tal proposito la colonna sonora hip hop è straordinaria e ricca di scratch come non se ne sentivano da molto tempo, ancora una volta coerentemente a un gusto graffitaro dove l'energia del gesto e del segno viene prima di tutto. Non contenti di aver realizzato già così una tavolozza perfetta per una comicbook animato, gli autori moltiplicano le situazioni, gli stili e le varianti.

 
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The boss

Post n°15645 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Michelle Darnell, nonostante la sua difficile infanzia, è diventata la 47^ donna più ricca d'America e non perde occasione per ricordarlo a tutti. E' quindi decisamente poco amata dai suoi competitors i quali non vedono l'ora di farle pagare il successo ottenuto con metodi spicci. L'occasione si presenta quando Michelle viene arrestata con l'accusa insider trading. Nonostante il vuoto che le si è creato intorno al momento dell'uscita dal carcere Michelle decide di non abbattersi. Decide di ricominciare organizzando un gruppo di giovanissime volontarie impegnate a cercare fondi per attività sociali.
Melissa McCarthy, con alle spalle il buon esito e anche la qualità di Spy, compie un passo falso alle cui radici sta probabilmente la famiglia. Perché Melissa è moglie del regista e co-sceneggiatore del film Ben Falcone e, come hanno dimostrato al festival di Cannes Sean Penn e Charlize Theron, non c'è nulla di più pericoloso per un'attrice di affidarsi al partner. Il quale si mette al suo servizio ma non sa trovare la giusta misura e, soprattutto, non ha la voglia o la forza per contenerne in questo caso l'esuberanza. Perché The Boss poteva essere una commedia acida e politically uncorrect su una bambina cresciuta in un orfanotrofio condotto da suore (come i Blues Brothers) che da adulta sente un profondo bisogno di rivalsa su tutto e tutti, seguita da una fedele assistente (qui affidata a una Kristen Bell disponibile al ruolo di spalla).
La fisicità della protagonista era a disposizione (viene sfruttata come al solito per le cadute) e anche il suo piglio deciso nell'utilizzare un linguaggio privo di pruderie. Si decide invece di impostare il tutto sulla gestione di un gruppo di Dandelions (una specie di associazione di ragazze scout) che passano, grazie alla sua guida, da una timorosa ricerca di fondi a ruoli d'assalto con tanto di divisa che le configura come un piccolo esercito. Intanto l'attore nano più famoso e ironico del mondo (grazie a Il trono di spade) tenta di contrastarne il ritorno.
Il desiderio di un happy end fa poi il resto e invita a suggerire allo spettatore di vedere la compilation di errori inseriti nei titoli di coda che fanno ridere più di buona parte del film.

 
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The Disaster Artist da Il cinematografo

Post n°15644 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

James Franco ci porta nel dietro le quinte del "peggior film della storia del cinema". E riesce a divertire, con intelligenza

Non sempre è il bello a fare tendenza, alcune volte un film smaccatamente orrendo può diventare un oggetto di culto. È il caso di Ed Wood e delle sue piovre di cartapesta, ma anche di The Room, uscito nelle sale americane nel 2003. Il regista Tommy Wiseau ha dovuto pagare per mantenerlo in programmazione almeno due settimane (puntava agli Oscar), e l’incasso è stato di appena 1.800 dollari.

The Disaster Artist rivela il dietro le quinte di un fallimento annunciato, un’opera così imbarazzante da far vergognare anche gli attori. Invece l’impossibile è diventato realtà. Le proiezioni di mezzanotte hanno fatto registrare il tutto esaurito, e anche le vendite in home video hanno dato buoni risultati.

Che cosa è successo? The Room era il riflesso della follia del suo autore. La recitazione era penosa, la trama inconsistente non riusciva a svilupparsi e regalava momenti di vera ilarità, anche quando la madre del protagonista diceva di avere il cancro al seno. “Rappresenta un twist, meglio non approfondire”, spiega il James Franco – Wiseau alla troupe, e tutti ridono. Questa era, ed è ancora, la forza di The Room: un dramma che si trasforma inconsciamente in una commedia, una storia da dimenticare che vince il premio per “il peggior film della storia del cinema” e attira folle di curiosi. Provare per credere.

James Franco vuole raccontarci la nascita di questa “catastrofe” e si mette dietro la macchina da presa per The Disaster Artist, dove interpreta anche Tommy Wiseau. L’attore di Palo Alto abbandona l’impegno sociale di In Dubious Battle – Il coraggio degli ultimi e trasporta la platea sul set di The Room, coinvolgendo nel progetto anche il fratello Dave Franco, nei panni di Greg Sestero. Lui abita a San Francisco e vorrebbe un futuro da star di Hollywood. Conosce il misterioso Wiseau a un corso di recitazione e i due diventano subito amici. Tommy ha un accento dell’Est, ma dice di essere nato a New Orleans, non si sa quale sia la sua vera età ed è ricchissimo. Da dove vengono i suoi soldi? Non lo scopriremo mai.

In breve tempo, Sestero e Wiseau si trasferiscono a Los Angeles, per sfondare nel mondo del cinema. Chiamano produttori, agenti, e cercano di ottenere una parte qualsiasi anche in televisione, con scarsi risultati. Così decidono di girare un film: The Room appunto, la cronaca di una disfatta che si è tramutata in un successo.

The Disaster Artist diverte con intelligenza, e narra di un’amicizia imprevedibile, di un legame che dura ancora oggi. Tra i due potrebbe esserci addirittura una tensione omoerotica. Wiseau è un uomo adulto che accoglie in casa un ragazzo bellissimo, e rivela la sua gelosia quando Sestero gli presenta la sua fidanzata Amber. Ma la regia di Franco non è morbosa. Non gli interessano i risvolti amorosi, ma i sogni dei suoi protagonisti, che tratta con grande empatia. Wiseau è solo, incompreso, e vorrebbe che la gente si accorgesse di lui. Franco lo coccola, lo accudisce e gli regala anche il suo volto, per ricordargli che il suo The Room non sarà dimenticato.

 

Gian Luca Pisacane
 
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Vizi di famiglia

Post n°15643 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Charles Webb, chi era costui? È certamente più noto un suo romanzo, Il laureato. Webb, per la sua storia che nel '67, grazie al film, girò il mondo, si ispirò a una famiglia vera di Pasadena, gli Huttinger, diventati nella finzione i Robinson. Insomma, la matura Anne Bancroft (cioè la signora Robinson) che sedusse il neolaureato Dustin Hoffman innamorato di sua figlia Katharine Ross, la ritroviamo qui nei panni di Shirley MacLaine, la nonna Katharine. La figlia è morta giovane. È rimasta la nipote. Ecco che nel '97 la nipote, la trentenne Sara Huttinger (Aniston), giornalista frustrata del New York Times, torna a Pasadena in compagnia del fidanzato Jeff (Ruffalo), per le nozze di sua sorella, la cretina Annie (Suvari). Sara, durante la festa, fra un pettegolezzo, una data sospetta e una vecchia fotografia, si convince di non essere figlia di suo padre ma di tale Beau Burroughs (Costner), che poi sarebbe il Dustin di allora. La madre era fuggita in Messico poco prima delle nozze per raggiungere l'irresistibile Beau. Dopo un week end di fuego era tornata per sposare il mite papà. Da lì, appunto, il sospetto sulla paternità. Sara risale a Beau, che dunque ha già sedotto nonna e madre (in realtà ne fu sedotto) e lo rintraccia a San Francisco. E siccome Beau è Costner, una sorta di Bill Gates con lo charme di Kevin, l'irrequieta Sara si risveglia nel letto della di lui villa sul mare. Ad essere sedotta, anzi a sedurre, è toccato anche alla terza generazione. Dopo naturalmente che Sara ha appurato di non esser figlia di Beau, "scientificamente" reso sterile da una "pedata nelle palle" rimediata durante una partita di calcio, sferratagli, si saprà, proprio dal padre di Sara. Ma guarda il destino. Niente incesto dunque, meno male. Sara alla fine ha le sue risposte, rassicuranti. Un plot del genere sarebbe scivolato disperatamente lungo il versante ridicolo. Ma regista e attori, e anche autori, lo salvano e tutto diventa una sorta di thriller-un-po'-grottesco-ma-gradevole-del-sesso-e-del-cuore. Arriva Kevin e il film prende vita. Ah se non si fosse macerato con iniziative alla Waterworld o L'uomo del giorno dopo impegnandosi su temi immani e astrusi che non gli appartengono. Rimane il cinquantenne più affascinante del cinema. Non è poco. Infine va rilevata l'estetica-video furba di Reiner: mari azzurri, valli verdi (c'è Costner no?), feste in smoking, e l'estetica-audio: musiche di Porter, Gershwin, e la mitologica As Time Goes by di Casablanca. E una bella battuta di Beau-Costner: "la storia era tutta vera salvo un dettaglio, non mi ero laureato, ma il film non poteva mica intitolarsi "il bocciato".

 
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Parlami di te

Post n°15642 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Alain Wapler va di corsa. Sprezzante amministratore delegato di una nota azienda automobilistica, non ha tempo per i perdenti e per la famiglia. Alla viglia della presentazione di un nuovo modello di vettura ibrida, ignora i segnali di allerta del suo corpo e crolla. Colpito da un ictus che gli causa un deficit cognitivo, Alain confonde le parole e le sillabe, perde i ricordi e il filo della vita. A riordinargli il linguaggio e l'esistenza lo aiuta Jeanne, una giovane ortofonista alla ricerca della madre biologica. Tenace e paziente, Jeanne corregge la disarticolazione e insegna ad Alain il valore del tempo. Il tempo per vivere.

Ispirato alla storia vera di Christian Streiff, ex CEO di Airbus e di PSA Peugeot Citroën, Un homme pressé è la storia di una caduta e di una lenta ricostruzione.

Grande oratore, alla maniera del personaggio che interpreta, Fabrice Luchini ha servito liturgie da antologia, riempiendo i teatri con i testi dei classici della letteratura francese: da Moliére a Rimbaud, passando per Flaubert, Labiche, Baudelaire, La Fontaine con una passione per le parole e il loro senso.

Attore cerebrale e perfezionista, Fabrice Luchini prende in contropiede il suo pubblico e sceglie con un Un homme pressé l'afasia. A corto di parole per la prima volta, l'artista incandescente trova nella commedia di Hervé Mimran l'occasione di lanciarsi, senza troppi istrionismi, in voli verbali di una comicità quasi sperimentale. La performance credibile di Luchini serve tuttavia una storia di redenzione convenzionale, un percorso di crescita piatto che converte un uomo odioso in una brava persona. Troppo poco per disegnare un handicap che rivela l'uomo dietro al boss, per dire la fragilità della vita che se ne frega delle categorie socio-professionali.

 
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Vi presento Christopher Robin

Post n°15641 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Il commediografo A.A. Milne, Blue per gli amici, fatica a riprendere la propria vita sociale e professionale dopo aver combattuto la prima guerra mondiale e aver visto morire i suoi compagni. Per questo decide di prendere una casa nel Sussex, per cercare la serenità nella natura, ma la decisione va stretta alla moglie Dafne, che lo lascia solo con loro figlio per inseguire il richiamo della vita cittadina. Per intrattenere il piccolo Christopher Robin, Blue inventa le storie di Winnie Pooh e dei suoi amici e le dà alle stampe, con la complicità di un amico illustratore, senza poter prevedere il successo mondiale e duraturo a cui sarebbe andate incontro.

Ma Milne non è in grado di prevedere nemmeno la dolorosa reazione di Christopher Robin al fatto che quel gioco, privatissimo, con suo padre, diventi di proprietà di tutti e lui stesso finisca per diventare un pupazzo, dato in pasto alla stampa e ai curiosi.

È risaputo che, spesso, dietro i grandi talenti comici ci sono esseri umani che nel privato tendono alla malinconia se non proprio alla disillusione e al pessimismo. La storia della nascita dei libri di Winnie the Pooh affonda le radici in una contraddizione simile, con la differenza che è una storia poco nota e mai portata al cinema prima d'ora. Gli abitanti del bosco dei cento acri, con le loro piccole e buffe avventure alla ricerca del miele e i rapporti di piccola grande amicizia che li legano fra loro, nascono infatti dalla mente e dalla penna di un uomo sconvolto nel profondo dal trauma della guerra, incapace di vivere senza tormenti, incapace anche di essere presente come padre, o comunque ostaggio di un periodo storico poco sensibile in questo senso.

Dopo una prima parte concentrata su Blue, il film si sposta sul figlio e sulle conseguenze che il successo dei libri di Pooh gli riserva. Curtis racconta bene che fatica facesse il piccolo Billy Moon (come lo chiamavano in famiglia) a farsi amare dal padre, ad avere la sua compagnia e la sua attenzione, e come ritrovarsi in un libro abbia contribuito ad aumentare la sua paura di non esistere ("People may think i'm not real").

 
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Borg McEnroe

Post n°15640 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Estate 1980. Sta per prendere il via il Torneo di Wimbledon e i due giocatori più quotati per la vittoria sono lo svedese Bjorn Borg e l'americano John McEnroe. Due tennisti, e due giovani uomini, che non potrebbero essere più diversi, almeno secondo lo storytelling dell'epoca. Borg, già quattro volte vincitore a Wimbledon, è soprannominato "Uomo di ghiaccio": algido, apparentemente privo di emozioni, una macchina segnapunti con un rovescio a due mani che è una fucilata. McEnroe, di tre anni più giovane, è detto invece "Superbrat" perché sul campo impreca, dà in escandescenze e si accapiglia con gli arbitri.

La loro rivalità, in occasione del confronto a Wimbledon, è alimentata ad arte dal circo mediatico: il dio scandinavo e il ribelle di origine irlandese, il martello pneumatico dall'ipnotica oscillazione sulla linea di fondo e il coltello a serramanico dalla lama affilata da sfoderare all'improvviso, come un gangster in uno speakeasy.

Il pubblico sta dalla parte del compassato Borg ma ama anche detestare il collerico McEnroe. E in vista dell'incontro i due campioni si studiano a vicenda, riconoscendo nell'altro la propria stessa voglia di vincere.

Il regista danese Janus Metz Pedersen mette in scena uno dei match più importanti del secolo scorso e ne sottolinea le valenze metaforiche con l'aiuto di una sceneggiatura, firmata dal regista-autore svedese Ronnie Sandhal, estremamente accessibile anche a chi non conosce la storia di quell'evento. La finale di Wimbledon '80 è rappresentata come una partita in cui il match point, se vincesse McEnroe, sarebbe in realtà uno scacco al re, e Metz Pedersen e Sandhal mostrano il percorso obbligato dei due contendenti che, per indole o per pressioni esterne, sono entrambi condannati all'eccellenza. E al contempo fotografano efficacemente la trasformazione epocale del tennis da sport di gentiluomini a spettacolo di rockstar.

 
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Notti magiche

Post n°15639 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Mondiali '90, Italia - Argentina, gli azzurri buttati fuori ai rigori, un uomo buttato nel Tevere a bordo di una macchina che non sa guidare. Produttore romano sull'orlo del fallimento, Leandro Saponaro è ripescato morto ma a ucciderlo non è stata l'acqua e nemmeno l'impatto. Giusy Fusacchia, ragazza coccodè e amante del Saponaro, giura che ad ammazzarlo sono stati tre aspiranti sceneggiatori: Eugenia Malaspina, Antonio Scordia, Luciano Ambrogi. Finalisti del Premio Solinas, i ragazzi si sono conosciuti pochi giorni prima a Roma in occasione della cerimonia. Eugenia è una ricca borghese ipocondriaca che odia il padre e ama un divo francese, Antonio è un messinese colto e formale come lo stile del suo soggetto (Antonello da Messina), Luciano è un baldo scriteriato che viene da Piombino. Ospiti per qualche giorno nella grande casa di Eugenia, che non vuole dormire sola, entrano nel mondo del cinema dalla porta d'ingresso, frequentando tutta la filiera e sognando di scrivere la sceneggiatura della vita. Finiranno invece al comando dei carabinieri a raccontare la loro versione dei fatti.

Dopo aver filmato l'America per la prima volta, in fuga tra Detroit e la Florida (Ella & John), Paolo Virzì ripiega in patria e firma una commedia gialla tesa a osservare l'intreccio profondo tra esistenze individuali e storia collettiva.

Attento soprattutto all'incidenza dell'ultima sulla vita del singolo, Virzì sceglie la risorsa del fuori campo anche per delineare il rapporto dialettico tra la calcistica giornata della polis e quella particolare della storia privata. La notte magica cantata da Gianna Nannini e auspicata dal tifoso italiano volge nella notte degli errori e propone un rendez-vous con la memoria, quella dell'autore e della sua generazione ma anche quella dello spettatore davanti all'eterno ritorno di un trio che avevamo tanto amato (Vittorio GassmanStefano Satta FloresNino Manfredi). Eugenia, Antonio e Luciano, esageratamente tipizzati, come a esibire un desiderio di fiction anziché di realismo, sono il residuo di quelle icone trasformate in lucciole fragili, (in)dimenticate e vibranti dentro una notte di scacco disegnata dal regista sulla locandina. Declinato al passato prossimo, Notti magiche mostra, in maniera instabile e con risultati variabili, che tutto quello che ha contato per noi è destinato a sparire, condannato a farsi rovina.
Questa elegia del cinema, che banchetta al "Re della mezza porzione abbondante", fa il punto su e dà commiato a un decennio affollato da veterani ed esordienti. Ficcato al debutto degli anni Novanta, il film di Virzì individua alcune delle tensioni dinamiche che stavano rivoluzionando gli scenari estetici: la ricomposizione del cinema italiano per aree geografiche (nello specifico l'area romana, siciliana e toscana), la creazione di conseguenza di un nuovo immaginario collettivo legato alla provincia italiana (la sequenza del ritorno di Luciano a Piombino), il crepuscolo dei padri fondatori (la silhouette di Fellini e i residui essenziali del suo cinema, il pozzo e la 'passerella di addio' di 8 1/2), la nascita di una generazione 'orfana' (lo sconforto delle nuove leve private dei maestri che sovente restano al palo, incapaci di interpretare la nuova realtà a-ideologica e globalizzante), il contributo degli sceneggiatori eredi della grande commedia all'italiana che legano il proprio retroterra culturale al 'nuovo cinema' (il laboratorio di Fulvio Zappellini), l'accentuazione di una comicità di facile resa e bassa qualità figliastra della commedia all'italiana (la ragazza coccodè, merce in grado di coprire un potenziale cinema medio), l'influenza dell'universo televisivo sul gusto (la sceneggiatura vincitrice su Antonello da Messina svenduta a puntate).

 
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qualcosa di troppo

Post n°15638 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 


Jeanne è un architetto 38enne sposata e con due figli "meravigliosi". Il suo matrimonio è in crisi ma lei pensa di risolvere le cose con un po' di terapia di coppia e qualche esercizio perineale. Peccato che il marito le riveli che aspetta un figlio da un'altra, facendo cadere Jeanne in depressione. La sua già scarsa fiducia in se stessa crolla definitivamente quando il giudice decide di accordare l'affido alternato dei figli all'ex marito fedifrago. È allora che la sua vita ha una svolta davvero inaspettata: la donna scopre da un giorno all'altro di avere un pene. E poiché è cresciuta nella convinzione che "se non hai un pisello non sei nessuno" la novità, per quanto sconvolgente, presenta le sue attrattive.
L'attrice comica francese Audrey Dana scrive, dirige e interpreta una commedia surreale che ha i pregi e i difetti del suo lavoro precedente, 11 donne a Parigi: dal lato dei pregi mostra una certa libertà e inventiva che si esprime soprattutto nel giocare con tutto ciò che ci si aspetta (anche cinematograficamente) da una donna e da un uomo; dal lato dei difetti sconta una tendenza all'esagerazione e allo stereotipo che grava il suo cinema di un elemento grottesco più sgradevole che divertente. Nella caratterizzazione di Jeanne, Dana mostra la stessa dualità: per un verso è buffa, rocambolesca e coraggiosa nel costruire il ritratto di una donna che è anche un po' un uomo, ma non lo diventa mai completamente; per un altro i suoi eccessi di attrice e autrice tolgono credibilità al personaggio che interpreta e rendono difficile ricondurre la Jeanne delle ultime scene a quella delle prime, poiché il cambiamento è eccessivamente radicale e precipitoso.
Accanto a lei Eric Elmosnino nei panni di un collega che si scopre attratto proprio dalla dualità di Jeanne è più sottile, mentre Alice Belaidi nei panni della vicina Marcelle sembra la macchietta della single aggressiva e arrabbiata con gli uomini, ma in fondo desiderosa di una relazione stabile. Il personaggio più credibile resta il ginecologo di Jeanne, il dottor Pace, interpretato con grande verve comica e saggio equilibrio da Christian Clavier (il papà di Non sposate le mie figlie!).
Quel che disturba, nella storia di Jeanne, è l'assunto per cui un pene regalerebbe automaticamente competenza, carisma e autorevolezza, dando conferma al presupposto per cui "è il pisello a fare l'uomo". Da quando la donna scopre di avere quel "qualcosa di troppo" di cui parla il titolo del film diventa infatti improvvisamente più efficiente sul lavoro, più decisionista e sicura nei rapporti con gli altri. Disturba anche l'assunto per cui ritrovarsi un pene fra le gambe equivalga ad avere il sesso come pensiero fisso e un'attrazione incondizionata verso chiunque abbia attributi femminili. Entrambi gli assunti sono banali e riduttivi, per non dire sessisti, e la situazione di Jeanne viene presentata come del tutto inconsueta, quando per certi versi è quella con cui si confronta ogni transessuale che ha scoperto di non appartenere al proprio sesso biologico.
Comicamente qui e là il palleggio con gli stereotipi di genere funziona, creando situazioni paradossali davanti alle quali il sorriso, se non proprio la risata, ci scappa. Ma un po' più di imprevedibilità nel tracciare il ritratto del maschile e del femminile, un po' più di profondità nel raccontare gli individui come esseri potenzialmente completi a prescindere dal loro sesso, avrebbero alzato il livello e dato al pubblico la possibilità di ragionare davvero su stereotipi e differenze, come hanno fatto film comici alla Tootsie o drammatici alla La moglie del soldato

 
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Disobbedience

Post n°15637 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Ronit, figlia del rabbino capo della comunità ebraico ortodossa di Londra, torna da New York, dove vive da lungo tempo, nella capitale britannica per i funerali del genitore. Qui ritrova Dovid, studioso della Torah, ed Esti di cui era amica e scopre che i due ora si sono sposati. Tra Ronit ed Esti c'era stata un'attrazione che un tempo aveva creato turbamento nella comunità e che ora rischia di tornare ad accendersi.

Sebastian Lelio continua la sua appassionata indagine sulla femminilità e sui pregiudizi che ancora ne condizionano la libera espressione.

Dopo il ritratto, al contempo tenero e drammatico, della cinquantenne Gloria e lo sguardo partecipe sulla condizione socio affettiva della trans Marina in Una donna fantastica si avvale ora del romanzo di Naomi Alderman e della collaborazione alla sceneggiatura di Rebecca Lenkiewicz.

Ciò che rende il suo cinema maschile e femminile insieme come intensità di sguardo è la sua straordinaria capacità di scegliere delle protagoniste in grado di sostenere fino in fondo ciò che lo script richiede loro. In questo caso siamo di fronte a Rachel Weisz e a Rachel McAdams (la prima anche coproduttrice) che danno vita a due personaggi analizzati nel profondo. Il che non esclude dalla valutazione positiva il Dovid di Alessandro Nivola. Perché questa di fatto è una storia a tre che richiede da parte dello spettatore una particolare attenzione all'omelia che il padre di Ronit tiene all'inizio del film.

È attorno ad essa che ruoterà una vicenda che viene ambientata nella comunità ebraico-ortodossa londinese ma che ha in realtà una valenza universale. Ritualità e dinamiche proprie dell'ebraismo vengono descritte con accuratezza ma ciò che a Lelio interessa non è l'ennesima denuncia dell'ortodossia di stampo religioso. O, meglio, ci si occupa anche di questo tema ma si guarda oltre.

 
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Headhunter

Post n°15636 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Celebre cacciatore di teste norvegese, Roger Brown è un uomo dalle apparenze di successo, a cui sembra non mancare nulla. Sposato con la bellissima e altissima Diana, gallerista d'arte, Roger abita in una bella villa dal mutuo stellare e conduce una vita al di sopra delle proprie possibilità. Per far quadrare i conti, svolge una seconda, segretissima attività: ruba quadri di valore. Quando la moglie gli presenta Clas Greve, un ex dirigente d'azienda olandese, Roger ha finalmente l'occasione del colpo della vita. Clas ha, infatti, ereditato dalla nonna una villa nella campagna norvegese e soprattutto un Rubens quotato centinaia di migliaia di euro. Ma il furto si rivelerà più complicato del previsto, perché Clas nasconde un oscuro passato.
La sequenza iniziale di questo film, in cui il protagonista si accinge a rubare un dipinto e in voce fuori campo ci spiega la fatalistica filosofia del ladro d'arte, racchiude la cifra stilistica di un thriller in cui l'ironia - rigorosamente nera e nordica - conta più dell'azione e dei suoi effetti pulp. Nonostante ciò, il ritmo è sempre sostenuto e si arriva con gusto a un finale un po' tirato, in cui il colpo di scena è meno interessante dello svolgimento centrale dell'intreccio.
Nell'adattare il best seller dell'apprezzato giallista norvegese Jo Nesbø, il connazionale regista Morten Tyldum ricalca la chiave umoristica del romanzo, mettendola nelle mani del protagonista interpretato da Aksel Hennie. L'attore è perfetto per incarnare le contraddizioni di un uomo tanto sfacciato e sicuro di sé all'apparenza, quanto sfiduciato e insicuro nell'intimo. Un capitalista di successo che proclama la superiorità della reputazione, ma che è schiacciato dal complesso dell'altezza. Dato che la moglie è una stangona abituata a essere corteggiata e desiderata, questo abile cacciatore di teste ritiene di doversi dare alla caccia di quadri per foraggiare il suo amore inconsapevole.
La trattazione sociale del mondo di squali famelici e paurosi in cui opera Roger Brown è gustosa, così come lo sono i primi tre quarti di questo thriller (autentico successo al botteghino norvegese) in cui l'adrenalina è generata più dalle caratterizzazioni di personaggi irriverenti che delle situazioni. Invece, l'ultima parte - quella in cui il confronto tra i due antagonisti si fa diretto - risente di qualche ingenuità di sceneggiatura, oltre che del buonismo e dell'inverosimiglianza del finale, che non è attribuibile al regista. Nel complesso, l'intrattenimento stuzzicante del prodotto non viene comunque intaccato.

 
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La ballata di Buster Scruggs

Post n°15635 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 


Un vecchio libro che contiene sei storie sul vecchio West apre le sue pagine per trasferirle, una dopo l'altra sullo schermo. Si va da Buster Scruggs pistolero cantante fino a una diligenza stipata di persone dirette passando attraverso impiccagioni e filoni d'oro.
I Coen, come è praticamente loro regola, minimizzano. Affermano di aver scritto dei racconti western e di aver poi desiderato di metterli insieme come nei film a episodi degli anni Sessanta italiani. Volevano i migliori registi disponibili e sono lieti che entrambi (cioè loro) abbiano accettato.

Dietro questo umorismo auto/ironico si nasconde di fatto un'operazione di qualità che si colloca alla perfezione nella linea del loro modo di fare cinema.

C'è infatti in ogni loro opera una cultura profonda e si potrebbe quasi dire maniacale che ama trovare opportunità di dissimulazione di volta in volta diverse. In questa occasione tocca a un genere, il western, che viene rivisitato in gran parte dei suoi elementi fondativi senza però cadere mai nella parodia o nella citazione di uno specifico film (altri direbbero 'omaggio') fine a se stessa. A partire dal primo episodio in cui il Buster Scruggs del titolo è un cowboy canterino che rimanda a una tipologia del western che risale all'introduzione del sonoro nel cinema e che già John Landis aveva bonariamente preso in giro ne I tre amigos. Qui però da subito le variazioni sul tema sono numerose e tutte riuscite. Il protagonista non solo è paragonabile a un usignolo ma è anche uno che sa come usare le armi e che sa come difendersi anche in loro assenza.

I Coen strutturano la loro antologia prendendosi dei rischi strutturali. Perché si ride e lo si fa più volte nei primi due 'racconti'. Poi il riso va progressivamente scemando salvo riemergere a tratti all'improvviso. Non scema però il livello qualitativo che consente alla narrazione di svariare dallo spaghetti western alle carovane senza dimenticare i nativi americani, il cercatore d'oro e, last but not least, la diligenza di fordiana memoria. Ed è qui che si rivela, in favore di chi non lo avesse già colto in precedenza, il fil rouge tematico declinato sotto i suoi più vari aspetti.

 
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Knight of cup

Post n°15634 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Rick è un uomo in crisi e in cerca di senso. Sceneggiatore a Los Angeles, ha perduto il contatto con la realtà e cerca la sua interpretazione nei tarocchi. Sospeso tra i set di Hollywood e le strade di L.A., Rick passa da un party all'altro e da una donna all'altra, provando a doppiare suo padre e a contenere suo fratello. Risvegliato nel profondo da un terremoto e da una voce ancestrale, insegue un dolore in Nancy e l'amore totale in Elizabeth. In mezzo, letti e piscine in cui godere, soddisfare, rivoltarsi e intorpidire. Davanti "la strada per l'oriente", quella di una favola antica e di una perla che Rick ha finalmente ricordato di cercare.
Abbiamo atteso The Tree of Life, come la maggior parte dei film di Terrence Malick, per anni e con un'impazienza ossequiosa. All'improvviso l'autore americano ha colmato i lunghi intervalli di tempo della sua produzione, realizzando a breve distanza due film. L'accelerazione la comprendiamo meglio alla luce di To the Wonder e di Knight of Cups, pure emanazioni di quel'albero. Albero che il sarcasmo ha voluto abbattere e un rispetto reverenziale 'ascendere'. Perché il cinema di Terrence Malick produce riflessioni divergenti nel tentativo di cercarvi l'ordine narrativo o la razionalità dello stile.
Se storia, personaggi e luoghi si rinnovano, To the Wonder sboccia una storia d'amore a Parigi e la smarrisce negli States, Knight of Cups insegue l'errare di uno sceneggiatore cacciatore di perle in un universo di strass e paillettes, la messa in scena è quella di The Tree of Life. Quei piani, quegli spazi, quei tempi infiniti e quei vuoti di tempo, quella maniera di precipitare in apnea dentro gli infinitesimali frammenti della vita, quei monologhi interiori, i presentimenti, lo sguardo liquido, i liberi accostamenti, l'assenza di coordinate, le aritmie, che producevano lo stupore nei film precedenti, lo hanno infine disattivato. Il luogo comune ha divorato progressivamente la meraviglia.
Knight of Cups, storia di un cavaliere errante che cerca una coppa e finisce nel calderone (di Hollywood), si alimenta ancora di una prospettiva filosofica e di inquadrature tra terra e cielo, tra mare e cielo, gettando lo sceneggiatore di Christian Bale nei marosi, nella crisi e nel dubbio della sua coscienza. 'Smazzando' immagini come carte dei tarocchi, Malick scandisce il film in capitoli accordati agli arcani (la Luna, l'Appeso, l'Eremita, la Papessa, etc) e infila un percorso iniziatico e una dimensione superiore, in cui il disordine della mondanità sfuma nel silenzio che 'sente' il divino. Knight of Cups rilancia la contraddizione tra la percezione della vita rivelata e il travaglio (in)gestito da Rick, che frequenta le dimore delle stars, 'guidato' dalla mappa di David Cronenberg. Perché Knight of Cups si muove con maniera nell'industria dell'intrattenimento, tra strip e draggy dance party, tra club e photo shoot. Daccapo il dualismo, da un lato la realtà sublime di chi scrive le immagini, dall'altro le ricadute materiali dell'uomo. Rick abita nel paese dei sogni (e del sogno) ma ha smarrito lo stupore, quello che Malick ci rovescia in primo piano come l'onda di un oceano. L'oceano che lo ha annegato e da cui adesso Rick prova a riemergere. A questo giro di giostra è la coppa del titolo il richiamo ancestrale, l'archetipo legato alla necessità che ha sempre avuto l'uomo di raccogliere e trattare l'acqua della vita che per la sua natura sfugge alla presa.
A sfuggire alla comprensione è pure l'irriducibile ambizione di filmare l'infilmabile interiorità dell'essere, insistendo sul corpo offeso di un homeless e su quello magnificato di una modella. A rammaricare amaramente è scoprire che per Malick non conta niente altro che la meraviglia. Un sentimento di viva sorpresa che rivela dentro pagine straordinarie un'esperienza amatoriale delle cose umane

 
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Abel il figlio del vento

Post n°15633 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

In un nido di aquile il primo nato scaccia il secondo facendolo precipitare. A trovare l'aquilotto è un bambino, Lukas, che ha un difficile rapporto con il padre cacciatore. Lukas gli tiene nascosta la presenza del rapace mentre cerca di farlo crescere anche con l'aiuto di Danzer, un guardaboschi. Giungerà anche il momento di insegnare ad Abel (così è stato battezzato pensando al fratello Caino che voleva la sua morte) a volare rischiando così una separazione.
Nel panorama sempre più asfittico nelle nostre sale dei film cosiddetti 'per famiglie', Abel si presenta con caratteristiche del tutto particolari che lo rendono degno di un'attenzione speciale. Perché se si guarda al plot di base si può legittimamente pensare a una storia già sfruttata dal cinema: il rapporto tra un bambino e un animale che si presenta non privo di difficoltà. Qui però c'è molto di più perché la produzione ha fuso una storia con tanto di voce narrante con immagini documentaristiche di altissimo livello a cui il grande schermo rende giustizia.
Le riprese, sia dei rapaci che degli altri animali che popolano le vallate e le cime dell'area del Tirolo, dove sono state effettuate le riprese, si integrano alla perfezione con la vicenda narrata e sono tutte frutto di un lungo e non facile lavoro di 'pedinamento' degli animali.
C'è poi il versante dei rapporti adulti /bambini (e non è secondario per un film che si rivolge ai più giovani). Così come Abel è orfano anche Lukas ha perso la mamma e il modo in cui è accaduto ha fatto sì che il suo rapporto con il padre si deteriorasse. Ora si trova lui a fare da 'padre' all'aquilotto e, con l'aiuto di una specie di nonno (anche se non come età) che è poi il narratore della storia, deve arrivare ad accettare il pensiero che un giorno Abel si separerà da lui.
Sono temi troppo spesso evitati nel confronto familiare e che il cinema raramente riesce a rappresentare ad altezza di bambino. In questa occasione l'operazione è riuscita grazie a un film che può appassionare i figli ma che offre agli adulti immagini dell'ambiente naturale di grande bellezza.

 
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Un nemico che ti vuole bene

Post n°15632 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

In una notte di pioggia il professore di astrofisica Enzo Stefanelli soccorre e salva un giovane ferito da un colpo di pistola. Così gli deve ora riconoscenza e decide di dimostrargliela in un modo particolare. Visto che è un killer di professione, è pronto a uccidere gratuitamente quello che Enzo considera il suo peggior nemico. Il professore inizialmente si ritrae: non pensa di avere nemici. Il killer lo spingerà a guardarsi intorno e progressivamente le idee di Enzo cambieranno.

Questa produzione italo-svizzera trova il suo punto di forza nel confronto tra due scuole di recitazione: quella di un attore consumato come Diego Abatantuono e quella di Antonio Folletto che il grande pubblico ha imparato a conoscere nel ruolo del giovane poliziotto ne I bastardi di Pizzofalcone.

Sono due modi di affrontare la commedia che si integrano nella loro diversità: tutto toni smorzati quello di Diego, carico di esuberanza appena trattenuta quello di Folletto. I due hanno a disposizione una sceneggiatura che trae origine da una vicenda realmente accaduta trasformata poi in un racconto da una firma di eccellenza come è quella di Krzysztof Zanussi.

Il regista Rabaglio afferma che più raccontava la situazione iniziale più trovava persone interessate al suo sviluppo. Il problema nasce però da qui, dallo sviluppo. Pur avendo tra i co-sceneggiatori una firma importante come Heidrun Schleef, la storia, dopo una prima parte in cui viene delineato con acume l'ambito familiare e professionale del protagonista e si induce lo spettatore a chiedersi se il professore saprà o meno conservare la sua dirittura morale, corre verso un finale a cui manca la coerenza con le premesse. Alcune situazioni si perdono nel nulla (vedi l'annunciato matrimonio) e, fatto ancor più rilevante, la coproduzione impone l'improbabile compresenza di alcuni personaggi in una località turistica svizzera di alto livello.

Si giunge così ad un finale forzato che vanifica parte delle premesse. Rimarrà comunque nella storia della commedia italiana l'occasione unica di vedere Sandra Milo duettare con un attore che forse non avrebbe mai immaginato di incontrare su un set, nel ruolo di un figlio vessato: Diego Abatantuono

 
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Il mio nome è Thomas

Post n°15631 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Thomas parte dall'Italia per raggiungere il deserto nella zona di Almeria dove poter meditare sulle pagine di un libro che ama in modo particolare. Poco dopo la partenza sulla sua Harley Davidson aiuta una ragazza, Lucia, a fuggire da due tipi poco raccomandabili a cui lei ha sottratto del denaro. Anche la ragazza ha per meta la Spagna dove dice di essere attesa da una zia scrittrice. Il viaggio, in cui non mancheranno occasioni per perdersi di vista per poi incontrarsi di nuovo, li spingerà a conoscersi e a comprendersi.

Terence Hill ha accarezzato il sogno di dirigere questo film per un decennio. L'idea era quella di fondere il contenuto di un libro a lui molto caro con una storia che fosse contemporanea ma anche evocatrice di un senso di epicità.

Il libro è "Lettere dal deserto" di Carlo Carretto nei confronti del quale il film avrebbe già compiuto un'importante missione se spingesse chi non lo conosce a leggerlo. Si tratta di meditazioni sulla fede scritte da un uomo che fu sempre 'scomodo' per la Chiesa ufficiale proprio perché dall'interno ne segnalava le contraddizioni. Basti sapere che nel 1974 aderì al movimento "Cristiani per il NO", opponendosi a chi voleva abrogare con un referendum la legge sul divorzio.

Detto ciò nessun timore: Terence non ci fa nessuna predica, non trasferisce Don Matteo ad Almeria. Semmai invita Trinità (il film è dedicato all'amico Bud) a compiere un viaggio in cui oltre a padelle usate come corpi contundenti, a moto che sostituiscono i cavalli e all'inevitabile scazzottata ci si prenda il tempo anche per guardare le stelle. Magari in compagnia di una giovane donna che ha alle spalle un passato non facile e che sta cercando se stessa tra molteplici incertezze.

 
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