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WHICH TAROT CARD ARE YOU?

You are the World

Completion, Good Reward.

The World is the final card of the Major Arcana, and as such represents saturnian energies, time, and completion.

The World card pictures a dancer in a Yoni (sometimes made of laurel leaves). The Yoni symbolizes the great Mother, the cervix through which everything is born, and also the doorway to the next life after death. It is indicative of a complete circle. Everything is finally coming together, successfully and at last. You will get that Ph.D. you've been working for years to complete, graduate at long last, marry after a long engagement, or finish that huge project. This card is not for little ends, but for big ones, important ones, ones that come with well earned cheers and acknowledgements. Your hard work, knowledge, wisdom, patience, etc, will absolutely pay-off; you've done everything right.

What Tarot Card are You?
Take the Test to Find Out.

 

 

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Post N° 91

Post n°91 pubblicato il 28 Marzo 2005 da eccomiqui4

Rieccomi dopo giornate belle, rilassanti, dopo aver respirato l’aria di primavera.
Insomma dopo una Pasqua come la descrive J.W. Goethe nel Faust con la sua poesia ‘La Passeggiata di Pasqua’:

Ecco fiume e ruscelli già liberi dal ghiaccio
al dolce sguardo della primavera
che infonde vita; lieta verdeggia la speranza
nella valle. Spossato, il vecchio inverno
si è appartato in monti inospitali,
e di lassù, fuggendo, scaglia solo
il brivido impotente della grandine,
a raffiche, sul piano verdeggiante.

Ma il sole non tollera più il bianco:
dappertutto si destano le forme e i desideri,
su tutto vuole infondere la vita dei colori,
e poiché i prati mancano di fiori,
ci mette uomini vestiti a festa.

Vóltati, guarda indietro
da queste alture verso la città.
Dal vano cupo della porta esce
un brulicare di gente variopinta.

Oggi hanno tutti voglia di sole.
Festeggiano la resurrezione del Signore,
perché anche loro sono risorti:
dalle umide stanze in case basse,
dai vincoli del mestiere e degli affari,
dall'oppressione dei tetti e dei comignoli,
dal pigia pigia delle strade anguste,
dalla notte solenne delle chiese,
eccoli, tutti escono alla luce.

Guarda! Guarda come rapida la folla
si frantuma per campi e per giardini,
come il fiume trascina in lungo e in largo
tante allegre imbarcazioni,
e come l'ultima, laggiù, si allontana
stracarica fino ad affondare.

Anche sulla montagna dai viottoli lontani
ci ammiccano vestiti colorati.
Sento già il tumulto del villaggio.
Il vero paradiso del popolo è qui,
dove piccoli e grandi felici fanno festa;
qui io sono, qui posso essere uomo.

PS: la foto l’ho scattata oggi: non troppo lontano da Vienna c’è un villaggio famoso per le cicogne che si fermano lì per l’estate e proprio oggi è arrivata la prima cicogna!

Commenti al Post:
valpa
valpa il 28/03/05 alle 21:09 via WEB
Accostamento azzeccato.Le cicogne dopo il faustiano scenario che ricorda l'inquietudine espressa da Faust nel famoso monologo che apre la tragedia di Goethe. Sembra di vederlo il tormentato professore che accosta alla bocca una fiala colma di veleno, deciso così a porre fine ai suoi tormenti quando il suono delle campane della mattina di Pasqua, annuncio festoso della Resurrezione di Cristo, trattiene con violenza (mit Gewalt) il vetro dalla bocca e lo riconquista alla vita,alla terra. Lo seguo appena uscito per una lunga passeggiata ristoratrice all'aria aperta, alla fine della quale, però, il povero Faust rientra nel suo oscuro studio nuovamente in preda ad una sensazione di insoddisfazione dovuta ad una rinnovata sete di qualcosa che manca, che non c'è. Eppure, a questo vuoto si può dare compenso/ si impara quanto valgano le cose ultraterrene...
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 28/03/05 alle 22:59 via WEB
Per fortuna la MIA passeggiata di pasqua non era una tragedia, ma soltanto una passeggiata godendomi il sole, i primi fiori ... e certo, la prima cicogna ;-)
 
blunightavenue
blunightavenue il 28/03/05 alle 22:49 via WEB
Sono meno ferrato di Valpa... chiedo venia... ma da voi le cicogne ancora portano i bimbini???
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 28/03/05 alle 23:00 via WEB
siiiiiiiiiiii anche da noi portano ancora i bambini, ma per fortuna non a me ;-)
 
dubert
dubert il 28/03/05 alle 22:52 via WEB
Faust, in preda alla sua certezza desolata e senza speranza, solleva infine alle labbra la coppa col veleno, quel gesto, non legato a nessuna causa specifica, sembra salire, stranamente calmo, lento, su dalle profondità della sua natura come un qualcosa di necessario, fatale. E per la medesima ragione acquista così stupenda poetica verità il miracolo di Faust, che improvvisamente - udendo nella mattina primaverile lo scampanare festoso e i cori liturgici di Pasqua, - con un rovesciamento totale del suo stato d'animo, si sente ridonato alla vita. Non un motivo personale ma il sentimento sconsolato del comune destino degli uomini lo aveva condotto alle soglie della morte: non un motivo personale ma il sentimento dolce di un'intima letizia comune a tutti gli uomini libera la sua anima da ogni peso: antichi ricordi risalgono nella memoria, immagini di innocenza, di gioia, di serenità: ecco: anche questo c'è nel mondo degli uomini: Faust si arrende: dal ciglio «la lagrima sgorga, la terra lo possiede di nuovo» [»Die Träne quillt, die Erde hat mich wieder!»]. E «Faust uomo tra gli uomini» è il tema della scena successiva, nel pomeriggio di Pasqua, fuori della Porta della città. È un quadro di vita popolare, nella maniera dei Fiamminghi. La folla in festa che sciama per tutte le vie, in tutte le direzioni: gente di tutti i ceti, di tutte le età: chi ride, chi scherza, chi canta, chi balla: si beve all'osteria, si ragiona, si va in barca: dovunque lo sguardo si spinga, dappertutto sono uomini liberi dalle preoccupazioni abituali, che si svagano ognuno a suo modo, secondo la sua natura; e su tutto e tutti splende la luce della primavera, in tutto e tutti vibra l'ebbrezza della primavera. Nei lineamenti del Paesaggio ampio, aerato, vario eppure in sé conchiuso, nella distribuzione delle note di colore che avvivano la visione di tutta quella folla in libertà e in movimento disperso, il quadro è di una infallibile sicurezza di composizione. E appunto perciò tanto maggiore impressione produce la figura isolata di Faust, col suo incedere lento, stanco: - «Nur wenig Schritte noch hinauf zu jenem Stein» «Pochi passi ancora su, fino a quella pietra» -: sembra un verso che non finisca più, tanta è la stanchezza; attarda e appesantisce il respiro. «Liberàti dal ghiaccio sono fiumi e ruscelli»: anche Faust per un attimo è stato preso dall'incanto; e la descrizione che fa della vita in risveglio nella natura e negli uomini è un brano di serena altissima lirica. Ma invano anch'egli ripete: «qui sono un uomo, qui posso esserlo!»; in realtà, da quella folla che gli si raduna intorno con reverenza per fargli omaggio, egli è e si sente intimamente distaccato, se non diverso: anch'egli è sensibile alla bellezza del mondo, alle gioie della vita; ma «un'altra anima» dentro di lui è incessantemente protesa verso l'ineffabile, l'irraggiungibile; e nel «contrasto fra le due anime» la sua esistenza è perennemente dibattuta. Egli non sa staccarsi dalla terra e non può trovarvi pace. Il patto con Mefistofele, che condurrà Faust a gettarsi a capofitto nel vortice dei godimenti, si avvicina: Faust è maturo per la decisione. Molte volte è stato posto il problema per quale ragione Goethe - dopo il ritorno di Faust in casa - abbia ritenuto necessario di spezzare la discussione del patto in due scene successive, le quali si svolgono tutte e due nello stesso ambiente, fra gli stessi interlocutori: non poteva spicciarsi in una volta sola? In realtà si tratta di due scene bene distinte, di diversa ispirazione e impostazione. La prima, che si riannoda direttamente a «Volksbuch» del Pfitzer, è destinata propriamente non alla discussione del patto - che vi è appena accennato - ma alla presentazione del «diavolo Mefistofele»; ed è tenuta in uno stile tutto suo particolare, adatto allo scopo: fantastico-grottesco. Quel diavolo che dapprima, sotto aspetto di can barbone, scodinzolandogli intorno, segue Faust nell'ora del crepuscolo alla fine della passeggiata e poi, nello studio, dietro la stufa, quando Faust fa gli esorcismi, sbuffa e suda, e a un tratto vien fuori trasformato in scolaro vagante; e poi, dopo aver fatto scherma di dialettiche sottigliezze con Faust intorno al bene e al male, alla luce e alla tenebra, s'accorge che non può più, uscire perché il pentagramma sulla soglia, che al di fuori era aperto, è invece chiuso al di dentro, e allora dopo avere addormentato Faust in una visione di voluttuose delizie, chiama in soccorso i topi - suoi sudditi come le rane, le mosche e le cimici - perché gli rosicchino la punta del pentagramma anche dal di dentro, e così se la svigna: quel diavolo, con la sua estrosa vitalità, è, si, demoniaco ma in atteggiamenti spassosi, burleschi, in cui la fantasia del poeta si è scapricciata a suo talento. Quanto mutato invece è il tono della scena seguente, la quale ha veramente per oggetto la stipulazione del patto! Tutto vi è serio, grave. Mefistofele vi appare nel suo costume definitivo di cavaliere spagnolo - abito rosso, attillato, con guarnizioni d'oro; mantellina di seta rigida; piuma sul cappello e spadino lungo al fianco -; ma scherza poco, e con discrezione, per lo meno fino a quando non è sicuro di sé e non tiene in mano il patto debitamente firmato. Chi domina la scena è Faust. «Troppo vecchio per potersi accontentare di illusioni, troppo giovane per poter essere senza desideri», è in una condizione di spirito che oscilla fra una prostrazione - in cui nulla più lo interessa - e una disperazione che lo induce a tutto maledire: Mefistofele gli offre di legarsi a lui, di fare in ogni cosa la sua volontà in questo mondo, se per l'altro mondo egli è disposto a cedergli la propria anima: perché no? «Da questa terra scaturiscono le sue gioie e questo sole risplende sopra i suoi dolori»; e l'al di là è lontano e ignoto. Purché egli possa vivere su questa terra la «sua» vita! Non è che egli si attenda da Mefistofele ciò che Mefistofele non gli potrà mai dare: la sua anima è, per questo riguardo, senza illusioni: egli sente che non giungerà mai - secondo i termini convenuti dalla scommessa il momento al quale la sua anima possa dire: «Arrèstati!», completamente placata. Ma durante tutto il colloquio la dinamica degli stati d'animo di Faust si determina e precisa in un crescendo continuo; e la decisione di firmare il patto è il risultato naturale di questa logica interna del sentimento. Qualunque sia l'avvenire che l'attende al fianco di Mefistofele, qualunque sia il destino che l'aspetta al varco al compiersi della scommessa, quel che importa a Faust è di far tacere la sua interna inquietudine; e la voluttà dei sensi e il rumore del mondo e la vicissitudine stessa delle cose contingenti nel loro divenire vertiginoso che non ha tregua, lo attraggono perciò in sé e per sé, come una ebbrezza che lo travolge, come un fascino di abisso. Perciò egli firma, sebbene senza slancio e senza grandi speranze. Firma col sangue. Ma Mefistofele, che per tutta la scena era rimasto in secondo piano, prima che cominci per Faust la nuova vita, si prende la rivincita e domina, lui, per un attimo, la scena, nel «Colloquio con lo studente»; e, come alla prima apparizione davanti a Faust s'era mostrato nella sua fantastica natura di dèmone, così ora, indossata la toga di Faust, si mostra nella sua qualità di «compagno dell'uomo»: umano di aspetto e di intelligenza, tanto che lo Studente di nulla dubita; ma insidioso; ironico a molti fondi nelle mete recondite della sua ironia e sempre a mezza strada fra il vero e il falso, fra il serio e il faceto, in tutto quel che dice: «maestro del doppio gioco», arguto sempre e spesso equivoco. L'aurea sentenza che dà come viatico allo studente è: «Grigia è ogni teoria e verde è l'albero d'oro della vita!»; e il motto che scrive nel suo Diario, nel momento del congedo, è: «Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum!». Poi, gettato il mantello sopra le spalle di Faust, lo trasporta via con sé. - È incominciato il grande viaggio. E la prima tappa è la Cantina di Auerbach, ben nota nella leggenda faustiana e ben nota anche a Goethe personalmente quando studiava a Lipsia. Quattro studenti sono seduti intorno a un tavolo: rappresentanti dei quattro «gradi accademici» consueti nelle società studentesche: bevono, ridono, si bisticciano, cantano, sghignazzano. È ancora una volta un «quadro alla fiamminga», ma nell'aria stagnante di un'osteria. È la vita del materiale godimento: grassa e bonacciona, ma senza idealità, senza luce. In verità non per questo Faust ha messo a repentaglio la salute eterna della sua anima! Mefistofele medesimo sembra bensì prendere parte alla baldoria - tanto che alla canzone di Brander sul «gatto che crepa per aver mangiato il veleno» accompagna una canzone sulla «pulce a corte», ma lo fa per prendersi gioco dei quattro compari, e, alla fine, con un sortilegio, li lascia, ciascuno con il naso del proprio vicino in mano. Che cosa occorra, anche in queste basse sfere, per interessare Mefistofele, si può incominciare a vedere in quella che è la seconda tappa del grande viaggio, la Cucina delle Streghe. Nel canto del Gatto sul «mondo che è tondo e rotola continuamente», nelle grida della strega quando arriva «Au! Au! Au! Dannata bestia! Maledetta scrofa!» [»Au! Au! Au! Verdammtes Tier! Verfluchte Sau!»], nell'intervento di Mefistofele, che, urlando, manda all'aria, con grandi colpi di ventola, tutto ciò che c'è sul tavolo, tutto ciò che c'è sul fuoco, si scatena in «proporzioni di cucina» un piccolo orgiastico sabba, di fronte al quale il «ringiovanimento» di Faust, che, ai fini generali dell'azione, è lo scopo della scena, passa quasi senza rilievo. Più che dal ringiovanimento, - che il poeta ha evidentemente poco sentito perché troppo diversa era la situazione da quella del «rinnovamento e ringiovanimento» suo proprio, a cui pensava mentre scriveva in Italia - l'elemento faustiano della scena è rappresentato dallo stato di estasi in cui Faust resta assorto, dinnanzi all'immagine di «donna nuda bellissima» che - mollemente adagiata come Venere nei quadri di Giorgione e di Tiziano - gli appare nel magico specchio. Mentre tutt'intorno trionfa senza ritegno l'orgia delle volgarità in grottesca gazzarra, la visione di bellezza incatena i sensi di Faust ma solleva al tempo stesso in rapimento la sua anima. - È il preludio all'»episodio di Margherita», con il quale Faust entra finalmente in pieno nella realtà della vita, e la poesia, nella sua semplicità candida, inerme, scende a toccare le radici stesse dell'essere. Poiché Margherita è, a un tempo, l'»infinita adorabilità della vita» e l'»infinita pietà per la vita», come Goethe le sente. Basta leggere la prima - e in sé e per sé più insignificante - scena dell'episodio: Margherita che esce dalla chiesa; una fanciulla modesta, pudica, e, quand'è il caso, anche con la risposta pronta: non altro; ma la figura è trattata, in ogni parola, con una delicatezza di tocco cauta, riguardosa, attenta: si sente che anche Goethe, come Faust, è dinanzi a lei in adorazione. E in ogni scena questa posizione del poeta si rinnova. Ogni scena è, quindi, bensì un anello di una catena; ma è anche, e soprattutto, un piccolo mondo a sé stante e in sé conchiuso, dietro il quale sembra di intravedere il volto del poeta commosso come, in certi quadri medievali, la figura dell'»offerente» in ginocchio. Il ritmo della composizione dell'intero poema - con le sue spezzature e con la sua assoluta libertà di svolgimenti - entra così in pieno anche nell'episodio e ne amplia smisuratamente il respiro. Non è più soltanto una storia d'amore: è - attraverso la storia d'amore - un approfondimento generale di tutto il problema della vita, così impegnativo che l'ispirazione del giovane Gohete vi si è consumata, esaurita - tanto che per quindici anni egli non è tornato più al suo poema, come se, nei riguardi di Faust, la sua anima fosse «rimasta vuota», senza più nulla da dire. Dietro ogni particolare - anche il più umile - è l'anima del poeta tutta intera. Una scena come quella intitolata «Abend» [»Sera»] - dove Faust metto piede per la prima volta nella stanza di Margherita - si direbbe anch'essa, «fatta di nulla» come la scena precedente: non succede nulla: l'unico che «fa qualcosa» è Mefistofele il quale depone la cassetta dei gioielli nell'armadio; ma quale miracolo di complesse prospettive e «luci interne nelle anime», apre il gioco dei sentimenti! È «la poesia della vita come innocenza» - quando la vita è ancora ingenua, chiara, confidente - e crea intorno a sé, con la sua innocenza, un incantesimo per il quale tutto ciò che l'avvicina ridiventa limpido, puro. Proprio davanti al letto dove Margherita è stata generata, nella stanza in cui con tanta impazienza l'ha immaginata - di lontano - l'avido desiderio, Faust non ha più un pensiero che non sia casto, non ha più un sentimento che non sia di rispetto e di reverenza: lo accoglie fra i suoi bracciuoli il seggiolone di cuoio che già fu dell'»avo cadente» intorno al quale «tutta una schiera di bimbi un dì s'adunava» - ed è come se accolga anche lui nel suo seno la serietà eterna e la santità della vita. Poi, appena Faust si è allontanato, arriva Margherita e - nella stanza dove è pure stato Mefistofele - avverte immediatamente la presenza di qualcosa di estraneo, torbido nell'aria, e apre la finestra e invoca il ritorno della madre e solo nel canto trova infine la liberazione. La vita per lei è tutta semplice, lineare, definitiva; e anche la canzone che ella canta è quella dell'amore che è con la vita una cosa sola: la ballata del Re di Thule (v.), «che beve per l'ultima volta nel bicchiere d'oro donatogli dalla sua amata e getta il bicchiere nei flutti del mare, lo vede cadere, scendere a fondo, e chiude i suoi occhi e muore». Poi, a un tratto, aprendo l'armadio per collocarvi le vesti, ella scopre la cassetta, guarda quel che c'è dentro e ammira stupefatta; e non può fare a meno di prendere i gioielli nella mano, non può fare a meno di «provarli sulla propria persona» davanti allo specchio; ma non son suoi e subito li ripone, e, riponendoli, sospira: - «A che serve essere belli, essere giovani?... Tutto tende all'oro, tutto pende dall'oro! Ahi! noi poverette!». Nel succedersi degli stati d'animo così come nella figurazione finale con cui si conchiude, la scena costituisce un blocco di poesia in sé compiuto, perfetto: la nostalgia d'idillio dell'anima settecentesca forse non ha espresso da sé altra immagine di più pura spontanea grazia. Naturalmente non tutte le scene giungono a questa intimità di accenti; ma, nel variare del tono, ognuna di esse si solleva a effetti ugualmente sorprendenti nel proprio stile. Quando si legge il bizzarro interludio - «Passeggiata» [»Spaziergang»] - che subito segue, è come se passi per la poesia un colpo di vento che porti via con sé ogni vapor romantico sentimentale, tanta è l'allegria della situazione in cui è incappato Mefistofele. Sempliciotta com'è, la madre di Margherita è riuscita difatti a farcela anche al diavolo: «ha annusato nella cassetta dei gioielli qualcosa di poco di voto» e l'ha portata al parroco: e «Mefistofele si morderebbe per l'ira la coda - se al suo aspetto umano ne fosse rimasta una!». Con il suo tono burlesco, la satira contro il «robusto stomaco di Santa Madre Chiesa» - in cui Mefistofele trova sfogo alla sua bile - serve anche, in qualche modo, da ponte verso il «realismo alla maniera fiamminga» delle due scene successive: - «La casa della vicina» [»Der Nachbarin Haus»] e «Giardino» [»Garten»] - divise dall'intermezzo di un colloquio fra Mefistofele e Faust - (cfr. [»Auf der Strasse»] «Nella strada»). - Ai fini dell'azione, lo scopo è semplicemente di far incontrare Faust e Margherita soli, in luogo appartato; ma il gusto che il poeta ha trovato a ritrarla, ha dato anche alla figura della «signora Marta Schwerdtlein» un risalto tutto proprio, di una popolaresca comicità deliziosa. Mezzana per buon cuore, perché - «come si fa a dire di no quando si può rendere una ragazza felice?» -; moglie che ha il marito lontano - e da tanto tempo è sola, mio Dio, così sola! - Marta, col suo «cuor disponibile», è colei che è sempre pronta: pronta a tutto - a ciarlare, a commuoversi, a piangere e a ridere - e, naturalmente, anche a prestare la propria casa per gli affarucci di cuore di una piccola amica - e anche a sposarsi di nuovo lei stessa - e anche subito - perché no? - se dovesse essere vero che suo marito è morto, come Mefistofele le vien raccontando! Melistofele «ci giuoca», come il gatto col topo. Nella piccola «casa con giardino» ai margini della città, la scena si presenta veramente come un «quadretto di genere», nello stile di Brouwer o di Teniers, che abbia per titolo: «il diavolo e la donnetta». Eppure la dichiarazione d'amore di Faust non è nemmeno pensabile all'infuori di questo intreccio grottesco-umoristico in cui si inserisce, all'infuori dell'alterno «passare e ripassare delle due coppie sopra la scena» in cui trova la sua suggestiva cornice: proprio perché Mefistofele è lì presente e irride in anticipo scetticamente al linguaggio acceso degli innamorati, proprio per questo appaiono così «vissute» e spoglie di ogni enfasi le parole di Faust che «cerca un nome al suo sentimento e non lo trova» e perciò chiama, con espressioni - anch'esse - inadeguate, «infinita eterna la fiamma di cui arde»: proprio perché c'è, in ricorsi paralleli, la controscena di Mefistofele che tende a Marta, per «tenerla buona», scattanti trappole di banali complimenti, proprio per questo toccano tanto il cuore gli accenti di sincerità inerme con cui Margherita, in uno stato di felicità vergine e quasi ancora infantile, confida a Faust ogni particolare della sua piccola vita di «donnina di casa» sempre in faccende o gli parla del suo passato - dei tempi quando aveva una sorellina e la allevava lei con le sue cure, la cullava nelle sue braccia, la teneva con sé presso il suo letto, le faceva da mamma. È come se ella senta il bisogno di «consegnarsi tutta spiritualmente» all'uomo che ama; e già presagisce anche la passione di lui: e interroga, petalo per petalo, il fiore di cui ella porta il nome: Faust le afferra la mano, le protesta l'eternità del suo amore: ella fugge, egli la insegue: la raggiunge nel padiglione dove s'è nascosta e la bacia - (cfr. «Un padiglione nel giardino» [»Ein Gartenhäuschen»]). Frattanto la sera è scesa, l'ora della separazione è giunta. Ma i due innamorati sono oramai in balia del destino. E una delle «trovate» geniali di Goethe è stata di collocare, nell'ordinamento definitivo del poema, proprio a questo punto - prima del «peccato» e non dopo - la scena «Foresta e caverna» [»Wald und Höhle»]. Nell'Urfaust il motivo dell'inquietudine di Faust - malcontento di sé e del mondo e deciso a non più rivedere Margherita - era inserito in coda al monologo di Valentino e costituiva, con sfitte di rimorso, una moralistica variazione disillusa del biblico «post peccatum animal triste». La nuova collocazione conferisce invece alla scena un ben più alto tono. Nel momento stesso in cui il destino incomincia a compiersi, Faust ha, in una fulminea «schiarita di coscienza», la percezione netta della realtà a cui va incontro: proprio nella più intensa fra tutte le esperienze - quella d'amore - il dramma della sua anima contesa fra due opposte forze - anziché conciliarsi in una superiore armonia - s'esalta al suo più tragico urto: non solamente la vita annienta se stessa nel proprio slancio ma sparge anche fuori di sé, intorno a sé, dolori e rovina: l'uomo «vuol bene» - e appunto perciò è causa di sciagura e di male: «chiusa nel suo piccolo mondo» come nella quiete solatia «di una casetta sull'Alpe», Margherita viveva serena «fra i suoi ancora imprecisi pensieri» quasi di bimba; e invece è venuto lui, Faust, e con la veemenza incontenibile della sua passione la sta travolgendo - insieme a tutto il suo mondo - giù con sé nell'abisso! Per questo Faust vorrebbe allontanarsi, fuggire. Naturalmente sono propositi fallaci perché nessuno sfugge a se stesso; ma la scena è come il balenar di una luce improvvisa che si riflette in profondità anche su tutte le scene ulteriori. I termini stessi della tragedia, per tutta la durata dell'episodio, ne restano spostati: al centro non è più Faust - forza impulsiva inesausta che urge e spinge e, travalicando, si salva -, ma è Margherita. Di Faust è la responsabilità e la colpa; ma è solo indirettamente nel destino di lei che egli, in realtà, «vive fino in fondo la sua tragedia», sconta fino in fondo la sua espiazione. La figura di lei, così esile fragile, riempie la poesia e la domina. Ecco difatti, subito dopo: «Margherita all'arcolaio» [»Gretchen am Spinnrad»]: ella è sola nella sua stanza e Faust è lontano; ma ella non vede, non pensa, non attende, non ricorda che lui: protesa verso di lui e la fiamma inquieta dei suoi sensi innocenti: protesa verso di lui la sua «felicità senza pace»: il mondo intero intorno a lei è scomparso: l'arcolaio gira: ella canta: - «La mia pace è finita, il mio cuore è oppresso» -; e il canto, nel suo ritmo breve e nella sua cadenza stanca ha una dolcezza semplice di «Pianto antico» - antica e eterna come l'amore, come la vita. Persino nella successiva scena, nel «Giardino di Marta» [»Marthens Garten»] - la cosiddetta scena della «professione di fede», o, mefistofelicamente, della «catechizzazione» -, è Margherita colei che dà il tono al colloquio. Ben prorompe Faust in un inno religioso panteistico di così commosso impeto e di così alto volo che è facile riconoscervi una diretta effusione dell'anima stessa di Goethe; ma chi porta il discorso sulla religione perché ne ha pieno il cuore, non è Faust: - è lei, Margherita, sola, a cui il cuore trabocca d'ansia e di pena perché «quando ella è vicina al suo Dio, proprio allora sente che il suo amico non è con lei». Per questo lo interroga: «egli non frequenta i Santi Sacramenti, non va alla Messa, alla Confessione»: - «crede egli ancora in Dio?» - E invano Faust la sommerge sotto l'onda lirica del suo mistico panico rapimento: - «A chi è lecito dargli un nome?... Mistero eterno, visibile invisibile, accanto a te... Riempine il tuo cuore, e quando sei interamente felice in questo sentimento, chiamalo come tu vuoi: chiamalo felicità, cuore, amore, Iddio! A tutto ciò io non conosco un nome. Il sentimento è tutto: il nome rumore e fumo»: Margherita naturalmente non può discutere con lui; ma sostiene l'impeto con la sua semplicità indifesa: - «Anche il parroco dice all'incirca così, solo con parole un pochino diverse» -. C'è, in realtà, nella sua religiosità umile un valore che regge anche al confronto della più alta estatica ebbrezza: il candore del sentimento. Nelle sue preghiere, nelle sue «pratiche pie» la sua anima è tutta umiltà di offerta, divozione. Il suo Dio non si chiama anche «cuore, amore, felicità»: si chiama Dio - soltanto Dio, dinanzi al quale ella piega i ginocchi. La sua religiosità è «pura»: - dono di sé semplice e confidente - come il suo amore. E perciò nella femminile profondità del suo istinto, con oscuro ma infallibile intuito, il suo pensiero associa all'ansia e al dubbio sulla religione di Faust l'inquietante immagine del suo «compagno» - Mefistofele - l'»impuro, freddo, con lo sguardo pieno di scherno» - la cui sola presenza basta «a rimescolarle nelle vene il sangue», perché «gli si legge in fronte che è cattivo, non prende mai parte col suo cuore a nulla, non è capace di amare anima viva». - «Quando lo vede - dice a Faust - è come se nemmeno lei possa più amare, possa più pregare!» - Ma Faust non ha soltanto «il suo Mefistofele» al fianco, lo ha anche dentro di sé; e quanto più Margherita cresce, dinanzi ai suoi occhi, in purezza e in grazia, tanto più in fondo ai suoi sensi avidi il desiderio in agguato si accende; e la conclusione dei suoi mistici slanci - della sua «hohe Intuition» - è che, al momento dell'addio, egli porge a Margherita una fialetta di sonnifero per la madre, affinché questa non li disturbi nell'invocato notturno convegno! Margherita ama, non ha più resistenze, non ha più volontà. - «Che cosa non farebbe per lui?» - Cosi Margherita «cade». E, con la caduta, rapidamente l'azione precipita. Fino a quando l'amore era stato una pura felicità o inquietudine interiore, Faust e Margherita erano vissuti l'uno per l'altra; come sopra un'isola «fuori del mondo»; poiché l'amore invece è entrato nella pienezza della realtà, questa fa valere le sue leggi, irremissibilmente. Un suggestivo trittico, con tre idillici angoli di cittadina medievale nello sfondo, presenta appunto Margherita nella nuova condizione. Nel primo quadro, realistico ma tutto in toni arguti e colori leggeri, Margherita è «alla fontana», insieme con Lisetta, sua coetanea [»Am Brunnen»]: han deposte le loro brocche: conversano; Lisetta parla di Barberina - come «c'è cascata», «con tutte le sue arie», finalmente, e ora «la sconterà!» -: Margherita pensa ai tempi quando anche a lei sembrava di non «veder mai nero abbastanza»: - e ora anche lei è «preda del peccato!». Nel secondo quadro la scena è nello spiazzo esterno della città, fra le ultime case e i bastioni [»Zwinger»]: in una nicchia, nel muro, è un'immagine della Madonna Addolorata: davanti sono alcuni vasi nei quali Margherita colloca fiori freschi. Margherita prega; e l'implorazione sale dentro di lei, su da profondità sperdute, entro le quali il suo sguardo si spaura: si inizia con una melodia pesante di accoramento, sul motivo dello Stabat Mater (v.); poi il ritmo - pur riprendendo il movimento del «Quae moerebat et dolebat et tremebat» del canto sacro - amplia e distende quasi a dismisura il proprio respiro per accogliere l'émpito delle personali sofferenze e il martellare disperato della chiusa angoscia - «Wie weh, wie weh, wie wehe... Ich wein', ich wein, ich weine!» - finché si chiude fulmineamente in uno schianto: «Aiutami! Salvami tu dall'onta e dalla morte!» - e al tempo stesso si placa, per quel che sempre vi è di sollievo nella preghiera, ritornando al tono orante iniziale. Il terzo quadro è un pittoresco agitato «Notturno» [»Nacht»]: in alto splendono le stelle ma le angusto tortuose vie della città sono immerse nelle tenebre: solo «dalla finestra della sagrestia sfiaccola il riflesso della fiammella della sacra lampada», spandendo intorno un fievole chiarore: davanti alla porta della casa di Margherita è Valentino, cupo, immerso in avvelenati pensieri per il disonore della sorella: Mefistofele - arrivando insieme con Faust - canta una serenata scurrile; Valentino sguaina la spada e, nello scontro, cade trafitto: accorre gente: scende anche Margherita; e Valentino le getta in faccia la sua vergogna e la maledice e muore - muore «als Soldat und brav» - È come se tutte le «forze nemiche» che sono nel mondo si accaniscano sopra la «fanciulla caduta». Tuttavia si tratta ancor sempre unicamente di oltraggi e offese e personali dolori e ambasce. Il culmine della tragedia è raggiunto solo con la scena seguente, «nel Duomo» [»Dom»]. Nell'Urfaust la scena era collegata con le esequie della madre di Margherita, morta per il sonnifero ricevuto: ora, nel testo definitivo, la scena segue la morte di Valentino, ma nulla indica che si tratti del funerale di lui. Il poeta ha giustamente soppresso ogni allusione a fatti concreti, specifici: ha lasciato che dominasse, solo, l'»avvenimento interiore»: la «rivelazione del male» in una coscienza umana! Forse, dopo il Medioevo, non era più accaduto che il problema del male fosse sentito, in un'opera di poesia, con tanta assolutezza e così opprimente terrore. Il Dies irae (v.) che - alto squillando con tonante accompagnamento di organo - rovescia le sue implacabili immagini di condanna e rime ossessionanti sopra la trepida e stanca e tremante anima della peccatrice, non è un elemento aggiuntivo, una nota di colore: a distanza di sei secoli da quando l'antico inno fu composto, l'ispirazione rinasce, nell'atterrita coscienza, con lo stesso carattere di certezza tremenda. Le parole che il «Maligno Spirito» sussurra all'orecchio di Margherita, invisibile dietro di lei, sono «la voce stessa della sua coscienza» e hanno la terribilità del «di del Giudizio». Ella non è più soltanto «la sofferente, l'addolorata» è «la colpevole» - dinanzi al suo giudice - dinanzi a Dio il quale nulla lascia di invendicato. E tutte le fiamme dell'Inferno già sembrano avvolgerla, nelle parole del «Maligno Spirito»: le parole del coro sacro tuonano sopra di lei con gli accenti della «sentenza eterna». Che cosa può dire ella ancora, misera creatura? - «Quid sum miser tunc dicturus?» - È come se tutto crolli sopra di lei, la volta si abbassi, i pilastri precipitino. L'aria le manca. La vista si annebbia. E nessuna mano si stende verso di lei, per porgerle soccorso. «Gli Eletti, i Puri» - sussurra lo Spirito - volgono da lei lo sguardo - da lei «contaminata!». Le forze le mancano. Sviene. Fra tutte le visioni d'arte che il Dies Irae ha suscitato, specialmente nell'età moderna, nessuno è di più sofferta umanità e elementare potenza. E precisamente - o per lo meno, anche - per questo il poeta ha fatto seguire alla scena la «Notte di Valpurga» (»Walpurgisnacht»): dopo la veemenza estrema della tensione drammatica, era necessaria, nel ritmo della composizione, una pausa. D'altra parte era pur necessario, ai fini della poesia, togliere di nuovo Mefistofele - una volta tanto - dalle esclusive, per quanto brillantissime, funzioni di «smaliziato compare e manutengolo», da lui assolte nel corso di tutto l'episodio, e concedergli di essere «lui», interamente «lui», in piena corposa realtà nel suo proprio mondo. La «Notte di Valpurga» è, per l'appunto, «Mefistofele nel suo regno» - sul Blocksberg, fra diavoli e streghe in foia - nella notte sul primo Maggio, allucinata di libidine. Originariamente, seco
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 28/03/05 alle 23:02 via WEB
Grazie, Duccio, ma ci racconterai anche il 'urfaust'? O .... passiamo a citare il vecchio Schiller? Che ne dici: La campana? Ma in ........ tedesco? ;-)
 
mrkrip
mrkrip il 29/03/05 alle 02:30 via WEB
Ciao Helga dopo questi lunghi commenti cercherò di essere breve, oggi ho visto anch'io un uccello simile alla cicogna se ne stava in un prato dritto sulle sue lunghe zampe ed è stato uno spettacolo osservarlo prendere il volo. Ben tornata e buon inizio settimana!
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 29/03/05 alle 10:12 via WEB
E fai bene a lasciare un commento meno lungo o mi stancherei leggere ... ;-) un salutone a te e buon inizio settimana anche a te, Gio!
 
filippo54
filippo54 il 29/03/05 alle 07:29 via WEB
Bellissima la poesia , ma non lascio commenti, farei cattiva figura ,dopo questi bellissimi e lunghissimi commenti.
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 29/03/05 alle 10:13 via WEB
Basta già un saluto :-)
 
Advocaat
Advocaat il 29/03/05 alle 10:10 via WEB
Ciao, sempre originale il tuo blog. Felice giornata, Advocaat.
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 29/03/05 alle 10:13 via WEB
Grazie, troppo gentile ... buona giornata a te
 
s8voce
s8voce il 29/03/05 alle 18:34 via WEB
wow... excellent photo!!! :-) Happy Easter!
 
 
dubert
dubert il 29/03/05 alle 20:13 via WEB
Ciao Helga... commento brevissimo stavolta. Un saluto ed un augurio di buona notte...
 
 
eccomiqui4
eccomiqui4 il 29/03/05 alle 20:19 via WEB
Thank you so much :-)
 
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Inviato da: cassetta2
il 03/03/2021 alle 10:04
 
eccolaaaaaaaa ..... è tornataaaaaaa ..... ;)))) bacione...
Inviato da: occhiodivolpe2
il 10/04/2014 alle 20:48
 
.
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il 09/04/2014 alle 11:44
 
Un saluto vagante,silente,eloquente.. Ciao Helga
Inviato da: valpa
il 07/08/2013 alle 10:16
 
dicevo .. tra gli italiani all estero ?
Inviato da: occhiodivolpe2
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