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Confronto tra i giovani e la politica

TRIONFO E FESTA AL SENATO

 
 

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L'ultima follia verde: se per salvare l'ambiente si deve abortire

Post n°2549 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da Antalb
 


La giusta punizione s’è materializzata sotto forma di una tormenta che infuria da domenica sera su Londra e su gran parte dell’Inghilterra, una nevicata come non si vedeva da decenni, con aeroporti chiusi e trasporti urbani paralizzati. Del resto chi, se non la natura, doveva incaricarsi di rispondere prontamente a Jonathon Porritt, consulente ambientale del governo britannico e presidente della commissione allo sviluppo sostenibile? Questo signore, come ha scritto il Sunday Times, afferma che «arginare la crescita demografica attraverso la contraccezione e l’aborto deve essere al centro delle politiche per la lotta contro il riscaldamento globale» e ha annunciato che si adopererà in tutte le sedi per far passare il principio secondo cui «avere più di due figli a coppia è da irresponsabili perché crea danni all’ambiente».


In altre parole, procreare sarebbe «un onere insostenibile». Se l’è anche presa con gli attivisti verdi, di cui è uno dei guru mondiali: «Devono smetterla di schivare la questione dei danni ambientali causati da un aumento della popolazione». Vili opportunisti. Porritt, consulente governativo fin dai tempi del premier Tony Blair (che di figli, disgraziato, ne ha fatti quattro), è preoccupatissimo: ogni nuovo nato durante la sua vita brucia una quantità di carbone equivalente a 2,5 acri (1,01 ettari) di querce, «un’area boschiva delle dimensioni di Trafalgar Square». E se poi continua a nevicare e a fare questo freddo becco andrà pure peggio... Va’ a spiegarglielo che sul pianeta appena l’1 per cento delle terre emerse è stato urbanizzato dall’odiatissimo Homo sapiens. Anche tenuto conto che una parte delle medesime è inabitabile (per la precisione 60 milioni di chilometri quadrati su 150), la percentuale occupata dai cuccioli degli Ominidi resta microscopica.


Gli inquilini del globo potrebbero essere radunati, qualora si adattassero all’attuale densità di popolazione dell’Italia (192 abitanti per chilometro quadrato), su un’area vasta quanto Russia, Brasile e Australia. Nella quale ancora avanzerebbero oltre 2 milioni di metri quadrati completamente deserti. Può sembrare incredibile, tuttavia se l’umanità intera decidesse per ipotesi di traslocare domattina in Texas, la densità di popolazione dello Stato americano salirebbe a 8.695 abitanti per chilometro quadrato. Molto più bassa di quella di New York (10.200 abitanti, che diventano addirittura 26.000 a Manhattan) e pari a quella di Napoli, come spiega Riccardo Cascioli, autore di un saggio illuminante, Le bugie degli ambientalisti, edito da Piemme.


Chi l’avrebbe mai detto? Il civilissimo Regno Unito si avvicina pericolosamente alla Repubblica popolare cinese, che persegue la pianificazione familiare attraverso l’aborto coatto di Stato. L’allucinante paradosso è che sul mercato di Londra gli ovuli delle «donatrici» valgono 250 sterline l’uno. Fecondati in vitro, servono a realizzare il sogno di maternità e di paternità di tante coppie sterili. Devono essere proprio dei pazzi, questi esseri viventi, per decidere di riprodursi a tutti i costi, anche quando la natura ha programmato d’impedirglielo. Ci aspetta il più disumano dei mondi, dove saranno sacrificati gli uomini per salvaguardare le piante. Niente bambini, in compenso tanti ficus benjamin.


Che bello. Certo, poi vai a leggerti chi diavolo è questo ambientalista di lotta e di governo e tiri un sospiro di sollievo. D’accordo che la regina Elisabetta lo ha incoronato commendatore dell’Impero britannico, titolo che in Inghilterra, peraltro, non è stato negato neppure a Pelè. D’accordo che è autore di un libro, Salviamo la Terra, con augusta prefazione del figlio della sovrana, il principe Carlo, noto estimatore di bossi, nel senso di Buxus sempervirens, graziosi arbusti perenni che sopravvivono soltanto in assenza di inquinamento atmosferico. Ma è anche vero che si tratta pur sempre dell’analista che tempo fa distillò per l’Observeril seguente programma economico: «Sono molte le grandi idee che nei secoli hanno dominato il mondo: fascismo, comunismo, democrazia, religione. Ma solo una ha raggiunto la supremazia totale. Si tratta del consumismo. Se vogliamo salvare il pianeta, dobbiamo smettere di comprare». Un genio.


L’idea di Jonathon Porritt, certo non annoverabile fra quelle grandi, ha da almeno un secolo solidi assertori proprio nel mondo anglosassone. La Lega per il controllo delle nascite, fondata dall’infermiera femminista Margaret Sanger, fu finanziata da banchieri (Rockefeller), industrie (Ford, Shell, Standard Oil, Du Pont) e fondazioni protestanti che ce l’avevano a morte con i prolifici immigrati ebrei e cattolici. «Più bambini dai sani, meno bambini dai deboli, questo è il principio del controllo delle nascite», teorizzava la Sanger, in largo anticipo su Hitler. Dove i deboli eravamo noi, noi italiani intendo. E dalle idee malsane dell’americana Sanger ebbe origine nel 1952 l’Ippf (International planned parenthood federation), che ancor oggi ispira le politiche demografiche dell’Onu. La sua omologa nel Vecchio Continente fu, sino a mezzo secolo fa, l’inglese Marie Stopes, altra femminista talmente fissata col programma eugenetico da diseredare suo figlio Harry Stopes Roe per aver sposato una donna miope. Poi sarebbero arrivati gli emuli, i Porritt.


Giova tenerlo a mente: le stesse persone che fondarono le società di eugenetica e di controllo delle nascite furono anche promotrici della prima associazione per la conservazione dell’ambiente. Il quale, a badar loro, sarebbe perfetto soltanto a patto che l’uomo si estinguesse. La storia si ripete. Per carità, persino San Girolamo, che non era un malthusiano, nel IV secolo sosteneva che «il mondo è pieno e la popolazione è troppo vasta per le capacità della Terra». Ma almeno non consigliò mai come rimedio l’aborto. Si limitò a tradurre la Bibbia. Se mister Porritt smettesse di occuparsi dei bambini e provasse a dedicarsi solo ai bonsai di Kew Gardens, forse tra 1.500 anni sarebbe ricordato anche lui con gratitudine dai sopravvissuti.


 
 
 

Stupri: io, garantista soprattutto con le vittime

Post n°2548 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da Antalb
 

Sono tra coloro che ritengono assurdo che il colpevole di uno stupro esca di galera dopo soli due-giorni-due, com’è successo al ventiduenne arrestato a Roma a capodanno. Ho detto «colpevole» e lo sottolineo, perché stiamo parlando di un reo confesso, e in questo caso la confessione non è un’attenuante ma solo la conferma che non c’è alcun rischio di errore giudiziario. Il ragazzo di Roma non ha confessato perché, preso da rimorso, è andato a costituirsi quando nessuno sospettava di lui; ha confessato perché lo avevano già beccato, le prove lo schiacciavano, una confessione era al tempo stesso inevitabile e conveniente. Al processo sarà quindi sicuramente condannato: e i giorni trascorsi adesso a casa, agli arresti domiciliari, gli saranno scontati dalla pena come se fossero passati in cella. Sono tra coloro che sono convinti che tra lo stare a casa e lo stare in galera sia preferibile - per i delinquenti, s’intende - la prima soluzione.

Sono anche tra coloro che trovano scandalosa pure la scarcerazione dei due romeni arrestati per aver favorito lo stupro di Guidonia. Anche loro sono stati messi agli arresti domiciliari, presso alcuni conoscenti in Veneto. Lo stesso posto, guarda un po’, dove la banda aveva progettato la fuga. Bizzarro, no?

So di attirarmi la reprimenda, e l’immancabile epiteto di «forcaiolo», dai radicali e dai garantisti in servizio effettivo e permanente. Essi obiettano che la legge è sovrana, e che non bisogna farsi condizionare dal dolore delle vittime, dall’emotività del momento e dal can-can dei giornali. Tutto vero, ci mancherebbe: non si fa giustizia sull’onda dell’ira della folla, e i tribunali del popolo non devono sostituire quelli in toga.

C’è però un equivoco di fondo, forse anche un imbroglio, sul quale giocano spesso i magistrati. Si dice infatti che certe decisioni - nella fattispecie certe scarcerazioni - non dipendono che dall’applicazione della legge. Ma non è vero. In Italia, come lo stesso Codice prevede, i giudici hanno un ampio potere discrezionale, sia nell’applicazione della carcerazione preventiva, sia al momento di quantificare la pena definitiva.

Faccio un esempio concreto. Per la carcerazione preventiva basta uno solo dei tre seguenti requisiti: 1) pericolo di fuga; 2) pericolo di inquinamento delle prove; 3) pericolo di reiterazione del reato. È a questo punto che si dimostra che la legge e la matematica sono due cose differenti. Chi decide che uno stupratore, magari reo confesso, sicuramente non violenterà qualcun altro? Il giudice, secondo il suo libero convincimento. E può sbagliare, come in molti casi è successo. Chi decide che uno stupratore sicuramente non scapperà, magari perché è agli arresti domiciliari? Sempre il giudice, e sempre secondo il suo libero convincimento. E può sbagliare, com’è successo guarda caso in questi giorni, quando un marocchino reo di violenza carnale e messo agli arresti domiciliari ha pensato bene di sparire, con tanti saluti alla sua vittima, che dal proprio dolore non potrà mai fuggire per tutta la vita.

E la legge, oltre che non essere matematica, non è neppure immutabile. Ci sono reati che, a seconda del momento, costituiscono un allarme sociale, e richiedono un’attenzione particolare, direi un’intransigenza particolare. Non si tratta, ripeto, di piegarsi agli umori del popolo o alle mode giornalistiche. Dopo l’11 settembre, abbiamo accettato tutti di buon grado di sottoporci a controlli da Gestapo in aeroporto, perché era successo qualcosa che prima non c’era. Così via via i codici penali di tutto il mondo sono stati aggiornati, e inaspriti, su determinati reati a seconda del momento. Le leggi speciali sul terrorismo, tanto per fare un altro esempio. Quella sui pentiti, per farne un altro ancora. Si è ceduto alla sensibilità popolare? Meno male.



Perfino la Chiesa, a seconda del momento storico, pone l’accento su un particolare «peccato» punendolo con la scomunica: all’inizio del secolo si era scomunicati se si distruggeva il raccolto dei campi perché c’era gente che moriva di fame; adesso lo si è per l’aborto perché molta gente va ad abortire con la stessa faciloneria con cui va dal dentista. Non è che la distruzione del raccolto o l’aborto siano più gravi delle stragi o dell’omicidio, per i quali la scomunica non c’è; è che si è voluto richiamare l’attenzione su una gravità non da tutti percepita.

Anche per il reato di stupro le sensibilità è cambiata. E, anche qui, meno male che ci sono stati i giornali a sbattere in prima pagina quelle violenze di cui una volta non si dava notizia. Se la legge non avesse tenuto conto anche di una mutata sensibilità popolare, oggi lo stupro non sarebbe ancora considerato un «reato contro la persona» (perché sembra incredibile ma è proprio così, fino a pochi anni fa lo stupro non era un «reato contro la persona»).

Ben venga, dunque, una pressione popolare e giornalistica che per prima cosa induca i giudici a usare gli strumenti di cui già dispongono, e a tenere in galera chi distrugge l’esistenza di una donna; e che, poi, solleciti il legislatore ad essere ancora più severo. Il garantismo è una bella cosa, ma a volte rischia di diventare un’ideologia, e come tale disconnessa dalla realtà. Non dobbiamo dimenticare che non è l’uomo a essere fatto per la legge, ma la legge per l’uomo.


 
 
 

Così Walter spinge il Pdl a governare senza opposizione

Post n°2547 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da Antalb
 

La sinistra italiana è giunta a una nuova versione della scelta interna al gruppo dirigente ex comunista. Quella tra D’Alema e Veltroni.


D’Alema ha una sola strategia, quella dell’intesa tra cattolici e comunisti. È la linea classica del Pci, di cui egli rappresenta la continuità. Ha preso atto che l’operazione del Partito democratico è fallita, non ha unito la sinistra, non ha preso voti a destra. L’idea di creare un partito moderato a sinistra sul modello socialdemocratico si è rivelata impossibile nel nostro paese. Tutto quello che è stato possibile è una politica di alleanza dei postcomunisti con i cattolici, ma anche quella si è rivelata illusoria. La Democrazia cristiana di sinistra, quella con cui i postcomunisti hanno scelto di allearsi, non rappresenta più il mondo cattolico: Prodi era un’occasione unica per rappresentare i cattolici dossettiani, i «cattolici adulti» che ponevano nell’autonomia dalla gerarchia l’essenza della loro identità di partito. E i residui dei cattolici democratici come Franceschini e Marini non hanno più il cuore del mondo cattolico, ora attento a puntare sull’identità e certo della legittimità democratica che ha in se stesso. L’alleanza con i postcomunisti non è più una legittimazione politica, ma diviene solo una delegittimazione cattolica. Pensare di sostituire Prodi con Casini significherebbe moltiplicare i casi Binetti, non i casi vinti. Casini non ha altra identità politica che quella di essere cattolico obbediente: almeno come politico.


Non avendo compiuto una scelta socialdemocratica alle origini dei Ds, D’Alema è rimasto prigioniero dell’identità postcomunista e non può legittimarla in modo da costituire una svolta moderata rispetto alla sinistra. È anzi costretto a cercare alleati a sinistra, sia sostenendo la Cgil nella sua opposizione frontale al governo sia nella rottura con gli altri sindacati. E non può non respingere l’offerta dello sbarramento fatta da Berlusconi nella legge elettorale europea. Un’apertura congiunta a Casini e a Ferrero non è una linea moderata di governo, può essere pensata solo in segno di una pura opposizione a Berlusconi.


Veltroni ha creato la sua rendita nella leggerezza del linguaggio, nel nuovismo e nel buonismo, nella variazione senza identità. L’autoaffermazione di essere nuovo e buono parlando un linguaggio caro ai cattolici può andare bene per una stagione di calma, ma non quando i tempi si fanno duri. Egli ha offerto la linea del Partito democratico in opposizione a Prodi come un linguaggio e non come alternativa strategica. Lo sarebbe stata solo se Veltroni avesse abbandonato l’antiberlusconismo di principio come motivazione alla sua politica. Egli poteva legittimarsi come moderato solo se riconosceva Berlusconi come democratico. Sarebbe stata la scelta opposta alla tradizione comunista di riconoscere se stessi come i soli democratici in quanto erano stati rivoluzionari. Ma Veltroni questo non lo ha fatto. E anche la scelta di linguaggio che fa ora in modo ambiguo sostenendo l’accordo firmato dai sindacati moderati con il governo non è una scelta strategica, è una non scelta. Veltroni non è capace di scelte strategiche, può solo compiere operazioni linguistiche. Così la sinistra rimane alternativa alla maggioranza e la maggioranza l’unica possibile obbligata a essere maggioranza e ad autolegittimarsi come forza di governo all’Italia di oggi. Nella certezza che l’opposizione non può aiutarla politicamente nel compito di governo e che essa è quindi costretta a funzionare come maggioranza pigliandosene tutte le responsabilità.

 
 
 

Protezionismo pericoloso

Post n°2546 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da Antalb
 

È un intellettuale maverick, come lo definirebbero nel suo continente un po’ più a nord, semplicemente per il fatto di non essere un socialista. Mario Vargas Llosa è un grande scrittore, ma anche un politico latino americano. Scriveva: «Il nazionalismo ha sostanzialmente contribuito al nostro sottosviluppo. Solo lentamente stiamo imparando che la ricchezza non deriva dall’innalzar barriere, ma dal cancellarle. La ricchezza di una nazione nasce dall’andare fuori nel mondo a conquistare mercati, e al tempo stesso a catturare tecnologie, capitali e idee che il mondo ci può offrire». Ciò che può apparire una banalità, non lo è certo per un intellettuale-politico sudamericano, ma soprattutto non lo è per ciò che concretamente sta avvenendo in questi mesi in tutto il mondo.


Ma ci sono due ulteriori considerazioni da fare. La prima riguarda il passato. È universalmente riconosciuto che una delle cause che trasformò il crac borsistico del ’29 nella grande depressione, sia stata proprio la chiusura dei commerci. I modi per farlo sono infiniti. All’epoca fu votata la Smoot-Hawley che chiuse le importazioni di merci straniere negli Usa con aumento delle tariffe del 100 per cento su ventimila prodotti. Ovviamente la risposta degli altri Paesi fu di fare altrettanto, con un ritorno del protezionismo mondiale. Aumentare i dazi sui formaggi francesi o sull’acqua minerale italiana, o riservare i «lavori verdi» di Obama agli americani, più o meno questo sono. Ciò che si vede subito è una temporanea protezione di posti di lavoro e del reddito domestico; ciò che si potrà vedere dopo è che in tal modo la crisi peggiora.


Una seconda considerazione, minimale ma interessante nelle sue conclusioni paradossali, riguarda la definizione di «connazionale» da proteggere. Quanto circoscrivere il concetto? Se il principio è di proteggere ciò che è più vicino, il passo dalla Nazione, alla regione, alla provincia, al comune, al quartiere e infine alla famiglia è rapidissimo. Soprattutto in una fase di crisi economica, in cui i morsi sono sempre più prossimi. Insomma una volta violato il merito e la libertà di mercato, è difficile dosare il principio «della vicinanza etnico-geografica»: con facilità si rischia di giustificare un’economia del clan.

 
 
 

Due estremismi sul razzismo

Post n°2545 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale di Michele Brambilla su il Giornale di lunedì 2 febbraio.

Non commetteremo il grave errore di banalizzare la gravità di quel che è successo ieri a Nettuno parlando di «balordi» o peggio ancora strumentalizzando le prime dichiarazioni dei tre ragazzi fermati e del comandante dei carabinieri. I tre giovani (il più grande ha 29 anni e gli altri due sono poco più che adolescenti, 19 e 17 anni) hanno detto a chi li interrogava che in quel che hanno fatto non c’è un movente razziale: «Avevamo bevuto, avevamo fumato hashish, cercavamo un gesto eclatante per provare una forte emozione, abbiamo preso di mira il primo che ci è capitato sotto mano». Il comandante dei carabinieri ha fatto sapere che «al momento l’unica cosa che posso dire è che ci troviamo di fronte a un gesto di stupidità assoluta».

Ma sarebbe appunto un grave errore liquidare la faccenda come una bravata di tre giovani con la testa vuota come purtroppo è vuota quella di molti loro coetanei. Se anche fosse vero che i tre avrebbero dato alle fiamme qualsiasi «barbone», anche se italiano, resta il fatto che un allarme razzismo in Italia oggi c’è, eccome se c’è. Non fosse altro per il fatto che molti stranieri, soprattutto se extracomunitari, sono oggi i soggetti più deboli: e come tali diventano automaticamente i bersagli più facili. Bersagli non solo di «spedizioni» alla Arancia meccanica, com’è nel caso di ieri; ma anche di vari tipi di maltrattamenti, di insulti, di sospetti, di emarginazione.

Noi non siamo tra coloro che negano l’esistenza di questo fenomeno. Che lo si chiami razzismo, o xenofobia, oppure ostilità verso il diverso, poco cambia. Chi non vede questa realtà non è molto distante - come modo di pensare - da chi sostiene che le camere a gas non sono mai esistite. È insomma un nuovo negazionismo, un estremismo che impedisce di porre le condizioni per un miglioramento della convivenza per tutti, italiani e stranieri. Quando, su questo giornale, ho scritto dell’infame pestaggio cui è stato vittima un giovane di colore da parte dei vigili urbani di Parma, l’Associazione Professionale della Polizia Locale d’Italia ci ha inviato un comunicato dicendosi indignata per il mio articolo, che pareva «una pagina di Repubblica oppure de l’Unità». È un Paese malato, quello in cui si ritiene che la stampa debba essere spaccata in due, e che ciascuna delle due parti debba chiudere gli occhi di fronte ai fatti per sostenere sempre e comunque una «parte» che prescinda dalla realtà.

Ma accanto all’estremismo dei «negazionisti del razzismo» ce n’è un altro, speculare e opposto. Quello di coloro che scomunicano, anzi espellono dal consesso civile chiunque dia notizia anche dei delitti compiuti da stranieri fatti entrare in Italia con troppo buonismo e troppa disinvoltura. Ieri, ad esempio, c’è stato un nuovo stupro, e i responsabili sono alcuni maghrebini: ne diamo notizia, ovviamente, ma sappiamo già che qualcuno ci accuserà, per questo, di essere «razzisti».

Esageriamo? Non ci pare proprio. Nei giorni scorsi perfino un giornale non sospettabile di simpatie destrorse o leghiste quale il Riformista è stato duramente attaccato per aver scritto, in un titolo, che colpevole dello stupro di Guidonia è una «banda di romeni». Per un certo politicamente corretto non si può neppure scrivere che un romeno è romeno?

A questo secondo tipo di estremismo ha dimostrato ieri di appartenere - e francamente ne siamo un po’ sorpresi - anche un moderato, un «centrista» come Pierferdinando Casini, che si è accodato a chi indica il centrodestra quale mandante morale di killer e incendiari. «Chi governa il Paese - ha detto Casini - non può in alcun modo eccitare gli animi sistematicamente e far passare nel Paese l’idea che gli extra-comunitari sono tutti delinquenti e come tali vanno trattati».

Cerchiamo di capirci, signor ex presidente Casini: chi dice che l’immigrazione incontrollata ha portato anche problemi di criminalità sostiene che gli extracomunitari sono tutti delinquenti? Vedere un allarme delinquenza soprattutto in certe aree degradate, e cercare di risolvere questo problema, equivale a essere razzisti?

Purtroppo, fino a quando il Paese continuerà a restare così spaccato in due - da una parte i «negazionisti» del razzismo e dall’altra quelli che il razzismo lo vedono ovunque - sarà difficile trovare una soluzione. Continueranno piuttosto a crescere la contrapposizione, l’odio, la paura.

 
 
 

Ora basta, i magistrati tengano in carcere tutti questi criminali

Post n°2544 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Articolo di Maria Giovanna Maglie su il Giornale di lunedì 2 febbraio.


Due complici e favoreggiatori di un branco di ladri stupratori vanno a casa con la firma del giudice dopo qualche giorno, magari a inquinare prove, certo a rilasciare illegalmente e incivilmente interviste, altrettanto illegalmente e incivilmente raccolte e pubblicate da un quotidiano nazionale. Un giudice non è un registratore di cassa, un giudice vive nella nostra società, legge i giornali, conosce le vicende e i problemi, capisce le conseguenze delle decisioni che assume. Nessuno pensa che la giustizia possa o debba risolvere i mali della società italiana, ma almeno non deve aggravarli. Anche la più rigida applicazione della legge ha sufficienti margini per consentire a chi lo fa di decidere e di scegliere, di portarne la responsabilità.

I giudici di Cassazione che non hanno dato l’ergastolo al romeno assassino di Giovanna Reggiani a Roma, perché hanno ritenuto che ubriachezza e rissosità fossero delle attenuanti, hanno compiuto una scelta che, a voler essere tecnici, pecca di eccesso di garantismo, a dirla senza troppe formalità è un segnale grave e carico di responsabilità. Il gip che ha concesso gli arresti domiciliari allo stupratore della notte di Capodanno alla nuova Fiera di Roma, l’altro che sabato scorso ha rimandato a casa i due complici del branco di romeni a Guidonia, non possono rinchiudersi né rifugiarsi dietro la lettera della legge, o sotto la parolona «incensurato», perché semplicemente non è così che si fa, non è vero che non possano comportarsi diversamente.

L’Italia attraversa una emergenza di crimini, violenze e tentativi eversivi. Che siano stupri, rapine sanguinose, evasioni dai centri per clandestini, che siano omicidi orribili, come quello di Giovanna Reggiani, sono diventati elementi di costante preoccupazione sociale. Non li commettono soltanto gli stranieri, a Capodanno lo stupratore era un «bravo ragazzo» romano che di nome fa Davide e che qualche ora prima si faceva intervistare in tv per consigliare di non esagerare con gli alcolici, ma certamente li commettono in maggioranza stranieri extracomunitari o con troppa fretta promossi a comunitari dal governo di Romano Prodi.

La violenza si combatte con regole severe. L’effetto moltiplicatore dell’imitazione va stroncato, mostrando e insegnando la durezza delle conseguenze. Certo, non solo al giudice compete esercitare la mano dura della legalità di uno Stato sovrano. Il governo non deve esitare per timore di perdere consenso, piuttosto rischia di succedere il contrario. La brava gente semplicemente non ne può più, i tentativi di linciaggio e qualche episodio di grave razzismo rischiano di diventare comprensibili e perfino giustificabili. Perché non seguire l’esempio dell’Olanda che ha chiuso dall’inizio dell’anno le frontiere a romeni e bulgari, risultati in cima alle classifiche di delinquenza?

Ma è sul tavolo di un giudice che finisce per fortuna, o purtroppo, buona parte di questa materia delicata. Ci arriva, grazie all’ottimo lavoro di polizia e carabinieri, anche rapidamente, e da lì deve uscire non solo trasformata in decisione o sentenza giusta, deve pure avere una funzione educativa per italiani e immigrati, inviare un messaggio esemplare, non fare i dispetti all’esecutivo.

Il giovane romano Davide è diventato un eroe carico di ammiratori sul sito di incontri online che si chiama Facebook. È una cloaca dove si accumula senza censure qualsiasi umore, soprattutto quelli giovanili, dunque è un grande sgradevole specchio. Davide su Facebook è uno che ce l’ha fatta, li ha fregati gli sbirri, e adesso se ne sta a casa sua. Sull’altro fronte la ragazza che Davide ha massacrato si fa intervistare per dire che si farà giustizia da sola. La stessa cosa sostengono con tutta la rabbia che hanno in corpo i due ragazzi aggrediti a Guidonia. Assalti, rapine, violenze sessuali negli ultimi due giorni sono avvenuti in Calabria e in Sicilia. Nessuno si azzarda a stabilire una relazione meccanica di causa ed effetto, nessuno qui vuole manipolare la cronaca. Ma si può serenamente sostenere che non sarebbe così, e così preoccupante per tutti, se i colpevoli fossero rimasti in carcere in attesa del processo e degli accertamenti definitivi, se l’assassino di Giovanna Reggiani fosse all’ergastolo. Si chiama certezza della pena, signori giudici, e non è un’espressione oscena.

 
 
 

L'ex ottimista: sta parlando Veltroni? Toccate ferro

Post n°2543 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Comunicazione di servizio: i quattro cavalieri dell’apocalisse sono pregati di stringersi un attimo. Aggiungi un posto a tavola, che c’è un amico in più: Veltroni. Da inguaribile ottimista a profeta di sventura, ecco l’ultimo travestimento del leader Pd per salvare faccia, pelle e poltrona: spenta l’aureola dell’ottimismo, non resta che il cilicio democratico. Finiti i tempi del Walter vecchio conio, quello che ripeteva a macchinetta Yes We Can, daje che je la famo, e che gli occhiali con le lenti rosa non se li toglieva nemmeno sotto le coperte. Oggi il segretario col rosa ha chiuso, ora va di moda il nero: e Obama non c’entra. Bruciano un povero indiano a Nettuno? «Sale un clima creato ad arte di odio e paura». Sicurezza? «I reati aumenteranno». L’evasione? «Prima o poi arriva la fiammata». I precari? «Di sicuro perderanno il posto». L’economia? «Siamo in emergenza nazionale». La crisi? «Di questo passo ci saranno ricadute per la nostra democrazia». Alla faccia. Mancava solo che nella palla di cristallo prevedesse la caduta della torre di Pisa, il prosciugamento del Po e il crollo del Colosseo, e poi ci saremmo allegramente gettati dal primo parapetto disponibile senza paracadute. Stupisce il tasso di sfiducia con cui il segretario dell’apocalisse tocca i temi sul tavolo, mentre il cittadino tocca ferro sotto il tavolo. Cosa vogliamo dire, ancora, all’italiano medio: «Ricordati che devi morire»? «Polvere sei e polvere tornerai», come dicono sempre quelli del Pd indicando Veltroni? E pensare che nel suo famoso discorso del Lingotto Walter disegnava rose e fiori: «Bisogna ridare speranza agli italiani, purtroppo convinti che il futuro faccia paura». Ecco, secondo Veltroni questo è il modo migliore per renderli sicuri, gli italiani: state sicuri che finirete in mezzo a una strada, senza lavoro, senza una casa, senza più democrazia, possibilmente «in un clima di odio e paura» nei secoli dei secoli. E anche allora ci sarà sempre Walter a ricordarvi che starete ancora peggio.


Ora, è chiaro che, con le Europee e le regionali sarde alle porte, con la sedia che traballa come un budino, Veltroni deve percorrere l’ultimo miglio sparando le cartucce più rumorose. Ma basteranno queste a salvarlo dal processo sommario nel partito? I famelici Rutelli, Soru e D’Alema lo aspettano al varco come Tom il gatto aspetta al varco Jerry il topo. In questo contesto, spiace doverlo ammettere, ma quasi rimpiangiamo i vecchi tempi dell’allegria democratica, del «se po ffà», quando Veltroni pompatissimo diceva: stai sicuro che le elezioni le vinciamo noi (le elezioni politiche, intendeva, quelle che ha perso così male che a confronto Caporetto è una disfatta a biliardino). Questo per dire che sì, alla fine era meglio il Veltroni kennediano all’insaputa di Kennedy, o se vogliamo obamiano all’insaputa di Obama: «Barack è uno di noi», diceva. Neanche gli autori di Zelig sanno fare di meglio. Quindi ridateci il segretario vecchia maniera, che almeno metteva di buonumore. Quello che disceso dal Campidoglio ripeteva lo slogan ufficiale: «Una nuova stagione per l’Italia». Nuova stagione, capite? Cioè nuova primavera, rinascita, resurrezione. Mica inverno perenne, morte eterna, oblìo infinito, come va gufando adesso. Se con la bomba atomica del catastrofismo spinto pensa davvero di guadagnarsi la fiducia dei suoi, campa cavallo. Citiamo solo l’ultima di Arturo Parisi: «Che Veltroni sia il segretario del Pd è fuori discussione. Ma fare il leader è un’altra cosa». Ecco, appunto: un’altra cosa. Quando Veltroni avrà scoperto cos’è quest’«altra cosa», probabilmente sarà già su un’auto ecologica sulla via dell’Africa.

 
 
 

L'ex terrorista: una chance per Battisti? Sì, la galera

Post n°2542 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Dategli una seconda chance, chiede, con qualche baldanza, il fratello di Cesare Battisti. Una seconda opportunità. Di seguitare a fare il latitante visto che la prima, pur sostenuta dalla gauche caviar transalpina e confortata dalle stucchevoli smancerie di madame Bruni in Sarkozy è andata storta? Di continuare a sottrarsi al mandato di cattura e quindi di scontare la pena alla quale è stato condannato? Non sa dire altro, Domenico Battisti, che: «Cesare è un ragazzo che ha sbagliato per seguire degli ideali». Come se gli ideali fossero tutti degni e rispettabili, tali comunque da rappresentare una attenuante morale, prima ancora che giudiziaria. Quattro omicidi - Antonio Santoro, Lino Sabbadin, Pierluigi Torreggiani, Andrea Campagna - pesano sulla coscienza di Cesare Battisti. E di quelli deve dar conto, non dei suoi ideali. «Erano anni caldi, c’erano i fascisti e i comunisti, ce le davamo. C’erano le contestazioni, la fabbrica», prosegue il fratello Domenico chiamando in causa la responsabilità collettiva, l’agevole via di fuga indicata dalla sociologia progressista: nessuno è colpevole perché è colpevole l’indistinto della gente, la società, le circostanze. Troppo facile e anche troppo consumato, come argomento. Quando Battisti ha premuto il grilletto o ha dato l’ordine di farlo era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali; sapeva quel che faceva e intendeva fare proprio quello: uccidere. «È un uomo senza patria che ha una moglie e due figlie - seguita Domenico Battisti -, bisogna metter fine a questa storia affinché mio fratello trovi finalmente un po’ di pace». Fa sorridere la parola pace in questo contesto. E poi non quella cerca Cesare Battisti perché se così fosse la potrebbe trovare benissimo in carcere, luogo fra i più opportuni per fare i conti con la propria coscienza, senza i quali non c’è pace dell’animo che conti.


Ma anche così, da latitante e specie quando lo era di lusso, in Francia, Cesare Battisti avrebbe potuto iniziar l’opera cominciando a chiedere il perdono ai familiari delle persone morte di sua mano. Nemmeno il fratello fa cenno, mi par di ricordare, al pentimento. Deve essere un assunto non preso in considerazione, nella famiglia Battisti. Di pace, moglie, figli, ideali, fascisti, comunisti, anni caldi, fabbriche, scontri se ne può parlare, di rammarico per il sangue versato, no. E c’è di peggio: in una intervista rilasciata ad un quotidiano brasiliano, Cesare Battisti, riferendosi a Alberto Torreggiani (il figlio di Pierluigi, costretto alla carrozzella perché colpito anch’egli dal piombo idealistico di Battisti) e alle sue dichiarazioni a favore della richiesta di estradizione, ha avuto il coraggio di affermare: «Lui soffre le pressioni da parte del governo italiano, perché, dopo tanti anni di lotte, ha ottenuto una pensione come vittima del terrorismo... Gli stanno facendo pressioni, perché potrebbero ritirargliela». Come a dire che Torreggiani non gli si mostra amico e solidale solo per una questione di soldi. Pensiero di una bassezza, di una volgarità che la dice lunga sul latitante Cesare Battisti e sul suo animo, ancora nutrito delle spregevoli passioni, dell’odio e del disprezzo che erano il bagaglio etico del militante nei Pac, Proletari armati per il comunismo.Visto il suo cursus honorum, non stupisce più di tanto che Cesare Battisti insista a pescare nella sentina del rancore. Sorprende, invece, Domenico, che invoca una seconda chance come se fosse dovuta e senza contropartita - senza un accenno al pentimento -, solo perché Cesare è un compagno («la nostra famiglia è sempre stata di sinistra», ha messo in chiaro) che ha sì sbagliato, ma in buona fede, mosso da un ideale: quello di abbattere con le armi - il Pac si definiva «armato» - uno stato borghese e, in quanto tale, illegittimo. Se così pensava di rendere più accattivante la figura del fratello, se pensava di impietosirci, ha fatto male, ma molto male, i suoi calcoli. In galera.

 
 
 

Veltroni, un uomo solo allo sbando

Post n°2541 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Se va avanti di questo passo, ancora un po’ e tornerà a casa e chiamerà la moglie Michelle. E la figlia Milia. O Sasha. E quando gli faranno compilare il passaporto scriverà: residente alla Casa Bianca. Povero Veltroni: ormai la sua scimmiottatura di Obama ha raggiunto livelli quasi paradossali. Che ci volete fare? Non riuscendo ad avere un’idea, le importa d’oltreoceano manco fossero le sue amate Brook Brothers button down.

Adesso, per esempio, gli devono aver parlato della «greeneconomy», il piano ecologico per rilanciare l’economia. E lui, orecchiata la formuletta, la ripete in giro per l’Italia, trovando una certa corrispondenza, per altro, nei volti dei suoi elettori. Anch’essi infatti sono piuttosto verdi. Di rabbia. Waltergreen, infatti, tutto preso nella sua imitazione del presidente Usa, dimentica un piccolo particolare: Obama governa una superpotenza, lui non è in grado di governare nemmeno il suo partito. I consensi calano, il malcontento cresce.

C’è chi dice che se il centrosinistra perdesse le elezioni in Sardegna a metà febbraio, la sostituzione del segretario Pd potrebbesubire un'accelerata: Bersani (spalleggiato da D’Alema) è in agguato. D’altra parte, se il centrosinistra vincesse le elezioni in Sardegna a metà febbraio, per il segretario Pd potrebbe essere anche peggio: Soru, infatti, sfrutterebbe la vittoria per lanciargli la sfida sul terreno nazionale. Del resto,Soru non ha mica comprato l’Unità per avvolgerci il pesce: già oggi il quotidiano finanziato dal Pd è uno «dei più ostili al Pd sulla piazza», come scrive Europa, che per altro è l’altro quotidiano finanziato dal Pd. Come voi capite, accanto all’economia verde, fra i Democratici trionfa una celeste armonia.

A questo punto, per il suo futuro, Veltroni non sa nemmeno se in Sardegna sia meglio una sconfitta o un trionfo. Per togliersi d’imbarazzo è andato a far visita a Soru: ha detto che voleva dargli una mano. Ma a vincere o a perdere? Mentre le truppe s’interrogano, persino il mite Enrico Letta esce dall’ovatta e accusa Walter di essersi «inginocchiato» da Berlusconi. Frase quanto mai forte per l’ex enfant prodige, che sembra preludere anche a una sua possibile candidatura alla segreteria Pd. Ma sì, avanti un altro che c’è posto: tra un po’, in casa democratica, avranno più aspiranti leader che elettori.

Ma Veltroni ha la soluzione per tutto: la green economy. Bisogna capirlo: non potendo far piazza pulita, si accontenta di sognare le piazze pulite. Solo che così facendo va, in modo piuttosto sgangherato, all’attacco del governo. Dice che lo fa «impazzire l’assenza totale del premier». Per carità, sull’« impazzimento» non ci pronunciamo e sull’«assenza totale del premier» valuterete voi. Noi ci limitiamo a ricordare che nel rapporto Eurispes pubblicato sabato c’è scritto che «il nostro Paese sta affrontando la tempesta senza subire danni irreparabili» grazie anche alle scelte «ragionevoli» del nostro governo. E che, sempre sabato, la responsabile di Standard&Poor’s, Maria Pierdicchi, intervistata dal Giornale ha detto che l’agenzia sta abbassando il rating a quasi tutti i Paesi europei, dalla Spagna alla Grecia, dal Portogallo all’Irlanda, mentre tiene invariato quello dell’Italia. Stiamo meglio degli altri, insomma. E la stessa Pierdicchi definisce «prudente»e«ben accetta» la nostra manovra. Che avrà tanti difetti, ma un pregio: non parla troppo di «green», ma in compenso evita di lasciarci al verde.

Ora occorre che qualcuno glielo spieghi a Walter. Poveretto: l’avevamo perso di vista qualche settimana fa e non pensavamo fosse così confuso. Con la Cgil dura e pura di Epifani non sa che fare (un giorno l’attacca, l’altro torna indietro); con Di Pietro neppure; a Napoli non lo ascolta nessuno; a Firenze stentano a riprendersi dal bagno di ridicolo; continua a commissariare il partito in varie province e regioni (ormai ha in giro più commissari lui della Polizia); e appena ha riprovato a riprendere i comizi da Torino è stato accolto da bordate di fischi.

Non gli resta che continuare a sentirsi forte per interposto Obama. Probabilmente quando arriva a casa alla sera, Veltroni chiude gli occhi, respira profondo e zac si trasforma come un vampiro di Twilights: Bersani? Soru? Tutto sparito. Lui vive aWashington, parla con Hillary, fa la green economy e ricorda benissimo la sua infanzia a Honolulu. Nessuno lo svegli, per favore. È come una cura palliativa: se continua a credersi Barack, forse, riuscirà persino a essere felice quando si accorgerà che lo stanno facendo nero.

 
 
 

"Europa" si scaglia contro "l'Unità": traditori

Post n°2540 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da Antalb
 

Articolo di Peppino Caldarola su il Giornale di domenica 1° febbraio
L’Unità ed Europa non si amano. Il primo si considera troppo carico di storia per perdere tempo in polemiche con il parente-serpente ultimo arrivato. Il secondo non ama quell’icona ingiallita della sinistra. I due giornali ufficiali del Pd (l’uno finanziato dal defunto gruppo parlamentare dei Ds e di proprietà del padrone di Tiscali Renato Soru, l’altro sostenuto dal gruppo parlamentare della disciolta Margherita e di area rutelliana) hanno provato per lungo tempo a convivere. Una convivenza difficile visto che entrambi ambiscono a una polizza assicurativa sul futuro facendosi nominare giornale ufficiale del Pd.
La tregua si è interrotta sabato con un corsivo di Europa dal titolo programmatico «L’Unità una bella amica. Ma di chi?». L’atto d’accusa del giornale diretto dall’ex «Manifesto» Stefano Menichini è molto duro e si può sintetizzare con due nomi: Di Pietro e Travaglio. Europa contesta all’Unità di ospitare interviste favorevoli all’ex pm e quotidiani corsivi di Travaglio contro i dirigenti del Pd e in particolare contro Rutelli. Non sappiamo se L’Unità risponderà. Probabilmente forte delle sue quarantaseimila copie (è la cifra con cui chiuse nel 2000) rispetto alle poche migliaia del parente-serpente, farà finta di aver visto niente. Tuttavia la polemica è destinata a lasciare il segno.
Europa ha, infatti, toccato un tasto dolente. Dove va la nuova Unità di Concita De Gregorio? Dove vanno a finire - e questa domanda è particolarmente insinuante - i fondi parlamentari di provenienza diessina? Il giornale dell’ex-Margherita è convinto che il quotidiano di Soru e Concita faccia una campagna esplicita a favore di Di Pietro. In pratica prenda i soldi da Veltroni e dedichi le sue simpatie al rapace Di Pietro. Se la collusione con il nemico era l’accusa più terribile che a sinistra ci si poteva rivolgere l’un l’altro negli anni passati, la connivenza con l’amico è la sua rivisitazione moderna.
L’Unità una certa abitudine alle polemiche l’ha fatta. Negli anni d’oro era all’ordine del giorno la diatriba con il partito-editore. Poi sono arrivati Colombo e Padellaro che l’hanno schierata a favore del Correntone e di Cofferati facendone l’organo ufficiale dei girotondi. Ora tocca alla De Gregorio, indicata alla suprema carica da una intervista di Veltroni al Corriere della Sera, ma accusata dai veltroniani di fare un giornale troppo corrivo con le ambizioni politiche del suo editore. Ogni giorno c’è un ritrattino da «culto della personalità» di Renato Soru, candidato sardo alla presidenza della Regione, ma soprattutto imbarazzante competitor di Veltroni per la segreteria del Pd. Europa con il suo corsivo ha messo il coltello nella piaga. Non solo L’Unità di Concita tira la volata al «pescecane travestito da spigola», secondo la definizione che Giovanni Valentini ha dato dell’imprenditore sardo sul Giornale, ma addirittura collude ormai esplicitamente con l’amico-nemico Di Pietro.
La guerra fra i due giornali è solo in parte una guerra politica. Il corsivo di Menichini segnala sicuramente l’irritazione rutelliana per il clima non amichevole in cui si svolge l’autodifesa del presidente del Copasir dall’attacco di De Magistris. Tuttavia per gran parte stiamo assistendo a una guerra fra giornali per la sopravvivenza. Si sa che sono tempi duri per la carta stampata e sono tempi durissimi per chi si rivolge a un pubblico di sinistra già largamente demoralizzato. Europa è un piccolo vascello che non ha smesso di immaginare di poter diventare la voce più autentica del Pd. L’Unità continua a barcamenarsi fra Veltroni, Soru e Di Pietro e sente oggi una nuova minaccia. Antonio Padellaro sta presentando in giro la sua creatura, un quotidiano nuovo di zecca che si rivolgerà a quell’area girotondina e giustizialista che rappresenta tanti lettori dell’Unità. Se il buon Padellaro dovesse portar via dall’Unità anche Travaglio, il giornale di Soru e Concita diverrebbe, nel numero di copie, eguale a Europa e dovrebbe cedere la primogenitura come giornale del Pd. Europa ci crede e lancia l’ultimo assalto.

 
 
 

Anno giudiziario: stanchi riti di una giustizia da cambiare

Post n°2539 pubblicato il 02 Febbraio 2009 da Antalb
 

Le relazioni con cui viene inaugurato, presenti quasi al completo le massime autorità dello Stato, l’anno giudiziario, somigliano molto a epigrafi poste sopra una pietra tombale: sotto la quale giace la giustizia italiana. Nonostante i corazzieri, gli ermellini, le toghe, gli ori e i velluti, la cerimonia è dunque mesta (gli intervenuti riescono peraltro a nascondere, con facce di circostanza, il senso di vergogna che immagino li attanagli). Non è che il naufragio del diritto in quella che dovrebbe esserne la patria sia una novità del 2009. Da quando è nata la Repubblica - con un progressivo e inarrestabile aggravamento - l’universo dei tribunali è malato di lentezza, di inefficienza, di cavillosità cartacea, di rinvii, di prescrizioni.


Capita a volte che dall’Associazione nazionale magistrati si alzino patetici accenni a lodi estere per il nostro sistema giudiziario. Mirabile infatti. In tema di processo civile abbiamo il 156° posto, dopo il Gabon e poco prima di Gibuti. Tutti gli altri Paesi europei stanno nei primi cinquanta, con l’eccezione della Spagna che tuttavia si classifica cinquantaquattresima. Può darsi che il sistema piaccia abbastanza ai delinquenti e a quanti, in una causa civile, hanno torto marcio: il tempo e le procedure lavorano per loro. Gli onesti e gli innocenti sono invece disperati.


Di questo hanno dato atto venerdì il Primo presidente e il procuratore generale della Cassazione. Ma, sia detto con tutto il rispetto, di dotte diagnosi ne abbiamo avute abbastanza per riempire una biblioteca. Quel che occorre è la terapia, non un’ennesima diagnosi. Ho l’impressione che in maggioranza i magistrati mostrino maggior zelo nel difendere il loro fortilizio corporativo che nel rinnovarlo. Il bla bla bla, anche se nobile, ci ha stancati, e quando Nicola Mancino sostiene che «la riforma deve essere praticabile e condivisa» formula il solito auspicio.


Il governo una sua strategia per la ristrutturazione della giustizia ce l’ha. Non è detto che il progetto sia senza difetti. Ma la riforma, qualsiasi riforma, è urgente perché peggio di come va la giustizia italiana non potrà in nessun caso andare. Si discuta, ma in tempi brevi e senza ubriacare gli italiani di chiacchiere. E si decida, presto. Mal che vada, alla prossima inaugurazione potremo magari essere davanti all’Angola e alla Guinea.

 
 
 

Ora Battisti spara sull'Italia:"Mafiosi"

Post n°2538 pubblicato il 02 Febbraio 2009 da Antalb
 

Era inevitabile: l’assurda decisione del governo brasiliano di concedere asilo politico a Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per omicidio e rapina (ma nel suo curriculum figura anche una violenza carnale su una disabile), non comporta solo che un assassino venga sottratto alla sua giusta punizione. Produce anche lo sgradevolissimo effetto collaterale che ora dobbiamo sorbirci gli insultanti vaniloqui dell’assassino medesimo. L’odioso impasto di calunnie, insinuazioni, finto stupore e autoassoluzioni a uso e consumo della Corte Suprema brasiliana (che potrebbe - speriamo - ribaltare l’ideologica presa di posizione di Lula e dei suoi ministri) si commenta da sé. Solo alcune precisazioni, dunque. Innanzitutto è falso che Battisti abbia abbandonato le armi dopo l’omicidio di Aldo Moro, nel maggio 1978. Il delitto Torregiani, per il quale, ripetiamo, è stato condannato all’ergastolo, fu compiuto nel febbraio 1979. E lui fu arrestato nel giugno dello stesso anno, insieme con alcuni complici, in una base terroristica di Milano, dove vennero sequestrati mitra, fucili, pistole e documenti falsi. Battisti gioca con le date (anticipa anche di un anno la sua adesione ai Pac: il ’76 anziché il ’77) e con le parole, ma racconta frottole. Non sappiamo, e forse non sapremo mai, quanto ci sia di menzogna nell’affermazione secondo la quale furono i servizi segreti francesi a farlo fuggire in Brasile. Il nostro ministro degli Esteri Frattini non ci crede. E forse ha ragione. Di sicuro, però, Battisti ha goduto in tutti questi anni di una rete di protezione che sarebbe ingenuo identificare solo con gli intellettuali nostrani e transalpini incomprensibilmente innamorati del suo profilo criminale. E altrettanto certamente è risibile la motivazione che dà delle mosse degli 007: lo avrebbero fatto scappare «perché l’Italia stava facendo pressioni a causa delle denunce contenute nei miei libri». Ma andiamo! Le uniche «pressioni» contro i suoi libri possono essere arrivate da lettori offesi per come maltrattava i fatti e la sintassi. Quanto al Paese di torturatori governato dalla mafia, be’, qui forse Battisti qualche sponda la troverà. Grillo, Camilleri e Travaglio saranno pronti ad accoglierlo a braccia aperte: finalmente un altro che la pensa come loro. E Di Pietro starà già preparandogli la tessera per l’iscrizione all’Italia dei valori. Posto ce n’è, viste le falle che vanno aprendosi nel partito dell’ex Pm. Per i soldi, invece, Battisti non si illuda: la cassa Idv, ormai lo sappiamo, è affare di famiglia.

 
 
 

Il flop del girotondo: il demagogo in trappola

Post n°2537 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 

Finirà così. Finirà con Di Pietro, Grillo, Travaglio e Pancho Pardi da soli in piazza ad insultare il mondo senza capire perché il mondo non li segue. Finirà così: quattro amici al bar convinti di essere Napoleone e magari anche di saper risanare le Ferrovie. Finirà con lo scolapasta in testa e urla sempre più alte davanti a platee sempre più vuote. Sguardi invasati per vedere il nulla. Finirà così: dopo aver attaccato tutto quello che c’è da attaccare finiranno per prendersela con Braccobaldo, Giove Pluvio, l’incredibile Hulk e Pippi Calzelunghe (colpevole anche lei di silenzio mafioso: in effetti ha la coda, anzi i codini, di paglia). E poi finiranno, forse, per esaurimento offese. E per esaurimento nervoso.
Mercoledì c’erano poco più di mille persone nella ridotta di piazza Farnese. Erano tanti, erano giovani, erano forti: dove sono finiti? In principio fu Piazza Navona. Poi quella sede sembrava troppo grande. E allora hanno ristretto l’orizzonte, forse anche per essere proporzionati alla loro ampiezza di vedute: niente da fare. Non riescono più a riempire neanche una vasca da bagno. Girotondo intorno al vuoto: le presenze erano più rade e casuali che i capelli sulla testa di Paolo Brosio. Il prossimo appuntamento, chissà, forse se lo daranno dentro una tazzina di caffè.
Le immagini sono eloquenti. Grillo che si faceva pagare per riempire i palazzetti, ora non riesce ad attirare pubblico nemmeno gratis. Da Travaglio che si può pretendere? La Guzzanti? Non pervenuta. Camilleri? Ha la credibilità di chi si professa martire del regime berlusconiano nel giorno in cui esce il suo libro pubblicato da Mondadori. Resta lui, Tonino il moralizzatore con la fuga di notizia al seguito. Le ultime vicende devono averlo parecchio innervosito: basta guardarlo in faccia. Di lucido pare che gli siano rimasti solo gli occhi. Una volta potevano sembrare spiritosi. Adesso sono solo spiritati.
E allora non ci stupisce che arrivi a dare del «mafioso» al presidente della Repubblica? Quando si costruisce tutta una carriera politica sull’aggressione all’avversario, bisogna continuare ad aggredire. Quando si coagula attorno a sé consenso sulle demonizzazioni, bisogna continuare a demonizzare. Demonizzare il presidente del Consiglio? Non basta più. Demonizzare l’intero Parlamento (covo di presunti criminali)? Non basta più. Sempre più in alto, come con la famosa grappa e con lo stesso grado di veleno alcolico. Il Quirinale. Il Papa. E la prossima volta chi finirà nel calderone dei «mafiosi»?
Di Pietro è scivolato in una trappola mortale. Per cercare consenso deve alzare sempre più i toni, ma alzando i toni sono sempre meno quelli disposti a seguirlo. Se non continua a urlare sparisce, ma se continua a urlare la gente si disperde. E così lui, che vorrebbe presentarsi come garante di tutte le istituzioni, non fa altro che offenderle. Lui, che vorrebbe essere la voce del popolo, rimane solo. Mercoledì l’hanno capito tutti. Ma proprio tutti tutti. Chissà, forse pure Veltroni.

 
 
 

Il tramonto di Tonino il parolaio

Post n°2536 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 

C’è pure chi si stupisce, chi finge di non essersi mai accorto delle maionesi impossibili che Antonio Di Pietro cerca regolarmente di propinare a una messe di illusi, siano essi un pugno di disadattati o i suoi teorici alleati di coalizione: mettere insieme il «rispetto per le istituzioni» con la compagnia di giro di Beppe Grillo, il «rispetto per le istituzioni» con chi spiega che questa maggioranza non è stata eletta dagli italiani ma da accordi con la mafia, il «rispetto per le istituzioni» con le televendite editoriali di Marco Travaglio, il «rispetto per le istituzioni» col dare indirettamente del mafioso alla più alta istituzione dello Stato, il «rispetto delle istituzioni» con il dettaglio fatto che lui delle istituzioni se ne fotte alla grande: come sempre se n’è fottuto, a meno che si chiamino magistratura in generale o che si tratti di una precisa istituzione che si scagli contro quella che più gli è aliena in quel momento.

Di Pietro usa l’avverbio «rispettosamente» come un intercalare, ed è così da sempre, è lui il vero «ma anche» della para-politica italiana: e lo sapevamo, è tutto già visto, già sentito, solo che ormai è così abituato alle proprie sgangheratezze e approssimazioni (chi parla male pensa male, gli avrebbe detto Moretti) che a questo punto potrebbe anche essere sinceramente stupito: in fondo che è successo? Che ha detto di diverso dal solito? Lui il presidente della Repubblica l’aveva «tirato per la giacchetta» chissà quante altre volte, che cosa è cambiato? Forse è un problema sintattico: se Di Pietro dice che Napolitano sta in silenzio, e nella frase dopo dice che il silenzio è mafioso, lui non pensa di aver dato del mafioso a Napolitano, ma al silenzio: cose che ha imparato dal suo addetto stampa. Se poi ci ha ficcato dentro un bel «rispettosamente», che problema c’è?

La consecutio sfugge a Di Pietro come gli sfugge un qualsiasi pensiero oggettivo e immodificabile, che è roba che non serve: le parole per lui sono creta, dice quel che gli serve in quel momento. In pubblico lui espira frasette secche e demagogiche anche se decontestualizzate, prive di sequenzialità: e se non piace una parola la si cambia, che problema c’è? Del resto c’è la disinformazione e la propaganda, se non piace una parola ne userà un altra: beninteso «rispettosamente». Solo che stavolta la toppa è stata peggiore del suo «rispettosamente», della sua impunita sfrontatezza, perché dopo la replica del Quirinale eccolo spiegarci che «mi amareggia molto l’oggettiva disinformazione che contiene». Bella lì: adesso disinforma anche il Quirinale, oltreché Retequattro. Poi il penoso avvitamento: «Non ho mai offeso, né inteso offendere, il capo dello Stato quando ho ricordato pubblicamente che il silenzio uccide come la mafia, giacché non è a lui che mi riferivo, ma a chi vuole mettere la museruola ai magistrati che indagano sui potenti di Stato». Ma allora è chiaro: il mafioso era solo Berlusconi, che sollievo. Peccato che sia falso. Di Pietro parlava di uno striscione, rimosso, il quale descriveva un Napolitano istituzionalmente dormiente. Ed ecco, fonte Youtube: «Possiamo permetterci, signor Presidente, di accogliere anche qualcuno di noi che non è d’accordo con alcuni suoi silenzi? Possiamo permetterci o no? Noi la rispettiamo, noi abbiamo rispetto delle istituzioni, (...) lo possiamo dire o no? Rispettosamente, rispettosamente: ma il rispetto è una cosa, il silenzio è un’altra. Il silenzio uccide, il silenzio è mafioso, il silenzio è un comportamento mafioso». Se lo era pure scritto, perché agitava un foglietto e ogni tanto lo sbirciava. Ora che succederà? Tutto. Niente. Chissà che Travaglio non tiri fuori a breve quel delirante verbale di De Magistris dove Napolitano viene citato semplicemente perché nel 1992 era a capo della sinistra migliorista, flagellata dagli arresti.

Chissà che altrimenti non tiri fuori, come ha già fatto su l’Espresso, quando i pm napoletani Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano raccolsero una testimonianza su un presunto finanziamento illecito di 200 milioni di lire proprio alla corrente di Napolitano. L’attuale capo dello Stato ne uscì pulito, ma che c’entra: ne era uscito pulito anche Renato Schifani, se è per quello. Napolitano, però, non fu neppure indagato. E che c’entra: neanche Schifani. Sintesi: Antonio Di Pietro è messo male, tutti i guai giudiziari del suo partito familistico e familiare stanno smontando l’ascesa del suo nulla programmatico: e questa manifestazione, frequentata da un migliaio di disoccupati, doveva essere il consueto amplificatore di qualche sua smargiassata o di qualche auspicabile casino da riaggiustare poi, di qualche sua maionese da propinare al suo elettorato de-scolarizzato. Problema: il casino l’ha fatto lui, come non aveva previsto, e peggio di prima. Ma rispettosamente, eh. Rispettosamente.

 
 
 

Cala il sipario su Beppe il comico

Post n°2535 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 
Tag: Grillo

Si usa dire che il ragionier Beppe Grillo sia un populista e non, come parrebbe, un demagogo. L’adunata di mercoledì a piazza Farnese confermerebbe in pieno il distinguo: un migliaio di persone, ovvero quattro gatti. A dimostrazione che Grillo (e Di Pietro, non dimentichiamo Di Pietro) hanno perso quello che è il succo della demagogia, la facoltà di incantare e trascinare le masse. Beppe Grillo (e Di Pietro, mai dimenticare Di Pietro) non incanta più. Non trascina più: il grillismo, come il dipietrismo e ci aggiungerei il travaglismo, hanno fatto il loro fugace tempo. E i grillini come i dipietrini e i travaglini, “ini” sono e “ini” restano. Secondo me, poi, l’ultimo Beppe Grillo o se preferite il Grillo post «Vaffa», manco populista è, ma semplicemente un rivoltista: egli vorrebbe, in sostanza, rivoltare l’Italia come un calzino, in ciò ricordando una celebre espressione del suo compare di carnevalate. Antonio Di Pietro, appunto, sempre lui, perché Dio li fa, poi li accoppia. Il fatto è che fino a quando Grillo ha vestito i panni del guitto ha avuto il suo bel seguito. Perché si debba ridere a una battuta - una a caso del repertorio - come: «Il giorno del mio matrimonio è stata la serata in cui ho guadagnato meno in tutta la mia vita» è un mistero imponderabile. Però c’era gente che vi rideva. Qualcuno anche a crepapelle. Quando invece si rimpannucciava con la palandra del moralista, dell’implacabile e acido fustigatore di costumi epperò «impegnato nel civile», solo buchi nell’acqua, otteneva. E il suo popolo, a sentirlo menare il torrone contro la pubblicità, tanto per fare un esempio, s’assottigliava. In pratica, se la squagliava.
Pensò allora bene, il Nostro, di riacchiapparlo e al tempo stesso redimerlo buttandosi in politica. E fu l’elegante e garbato «Vaffa Day». Un successo sì, ma solo firmaiolo (così come il sigaro e la Croce di Cavaliere, una firma, qui da noi, non si nega a nessuno): magari l’iniziativa «sfondò» nella così detta blogosfera, ma sul campo ovvero nei fatti, poca o punta roba. Oltre tutto indispettì i «sinceri democratici», i girotondini e financo il panchopardesco ceto medio riflessivo. Per dire di come il vaffa gli fece perdere consenso: un memorabile «j’accuse» gli giunse sferzante, via Micromega, persino da quella lucida e pensosa mente, da quel popò di coscienza critica della nazione che è Daniele Luttazzi.
Giunge sempre il momento, per l’uomo pericolante e un po’ - mi si passi l’espressione, sputtanato - di riciclarsi. Oggi si dice «rimettersi in gioco», ma è la stessa cosa. Bene, il ragionier Beppe Grillo a rigiocare al comico non parve onorevole. Ben altre le sue ambizioni che non quella di trastullare con qualche freddura il pubblico pagante. Nonostante la concomitanza del nomen-omen, neanche a parlarne, poi, di seguitare a battere la strada del grillo (grullo?) parlante denunciando, com’egli fece, l’ignominia degli spazzolini da denti non riutilizzabili una volta consunti dall’uso. Faccenda che a conti fatti non faceva né cassa né audience.
Gli restò la politica: detto in altro modo, l’arrembaggio al potere. E fu così che indossato un abito di scena nuovo di zecca, quello del sanculotto, diede corso al rivoltismo: rincalzare il Paese, sciacquarlo ben bene per poi riassettarlo facendo leva sulla qualunquistica «democrazia dal basso». Cominciando con l’asserire che non essendo presieduto da Antonio Di Pietro, «l’unico che fa opposizione mentre il Parlamento è chiuso», il governo in carica risulta incontestabilmente «abusivo, anticostituzionale, illegale». E seguitando, così da dare subito ad intendere che lui, Grillo, non guarda in faccia a nessuno, col dire che Veltroni è «uno scemo» (e che Brunetta è un iPod nano, che Tremonti è “Tre-morti” eccetera eccetera, tutte preclare manifestazioni della democrazia dal basso. Molto ma molto basso).
Grillo in versione sanculotta e la sua consunta compagnia di giro hanno avuto mercoledì, in piazza Farnese a Roma, il battesimo del fuoco. Neanche a chiamarlo fuocherello ci si avvicinerebbe al vero. Muoveva alla pietas udirlo latrare a vanvera dal palco, muoveva a civile apprensione vedergli inturgidirsi il sistema coronarico nel belluino sforzo di trascinare con la sua casermesca eloquenza gli “ini” che stavano nei pressi. E quando è suonato finalmente il momento del tutti a casa, a casa se ne è andato anche Grillo e il grillismo, pittoresco accidente che per un po’ ha distratto l’antipolitica, ma per il quale è valsa la regola del bel gioco che ha da durare poco. Nella blogosfera magari potrà ancora far presa e tirare su palanche, ma nelle piazze il ragionier Beppe Grillo non è più nessuno. Out.

 
 
 

La crisi: non si può solo piangere

Post n°2534 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 

È facile fare l’imprenditore con i soldi degli altri. A Milano c’è una libreria un po’ anarchica. Il proprietario è un ragazzo piuttosto scettico sulle sorti del mondo, che in questi giorni di incentivi pubblici e auto da rottamare si è messo in testa di rileggere La rivolta di Atlante di Ayn Rand. Ogni pagina che sfoglia è una mezza bestemmia, contro gli imprenditori italiani che non sono come quelli del romanzo. Non rischiano. Non hanno senso del dovere. Non si prendono responsabilità. Dice: «Qui i profitti sono privati e le perdite sono di tutti». E poi cita una di quelle massime che piacciono ai romantici del liberalismo: «Il capitalismo senza perdite è come la religione senza inferno». Il libraio dice che non è questione di destra o di sinistra. Ma di etica. E ti cita il caso dell’olandese Philips: «Fa un solo trimestre in rosso, dopo anni di vacche grasse, e subito spedisce a casa seimila persone. Ti pare giusto?».


In questi giorni c’è tanta voglia di Stato. Forse un po’ troppa. Gli imprenditori ogni tanto dovrebbero, invece, metterci la faccia. Non si può sempre piangere con la scusa che è arrivata la bufera. Qualche segnale in controtendenza arriva da due poli opposti. La Coop, per esempio, sta facendo una campagna per dire: la crisi la paghiamo noi. E ha abbassato del 20 per cento il prezzo dei 100 prodotti più necessari. Mediaset Premium ha scelto di non scaricare sui clienti l’aumento dell’Iva. Tutto questo basta per superare la crisi? No, è chiaro. Ma almeno sottolinea una filosofia alternativa al piagnisteo.


È chiaro che questa crisi sta mandando in soffitta tutte le vecchie certezze. Basta guardare il terremoto che ha colpito il settore auto. È come se fosse crollato il simbolo del capitalismo novecentesco. L’auto era una sicurezza. L’auto era il progresso. Ora è in ginocchio. Le grandi case chiedono aiuto, disperate. Solo che si sono dimenticate anni di salari bassi, con la scusa dell’inflazione, della competitività, dei cinesi, dell’euro e dei conti pubblici. Tanta pazienza e poi ti sbatte in faccia la crisi dei mutui. Neppure Giobbe.


La Marcegaglia ora fa sapere che in Italia, nei primi tre mesi del 2009, è previsto un calo degli ordini del 60 per cento. E subito scatta la questione sociale: 300mila disoccupati in più. Quindi, via con il valzer degli aiutini di Stato. Anche l’edilizia soffre e gli elettrodomestici, e via via tutti gli altri. Ecco la vecchia equazione che ritorna. Il tutto condito con un po’ di retorica ambientalista: incentivi solo alle macchine che non inquinano. È questa patina etica che infastidisce. Gli imprenditori dell’auto non chiedono soldi perché non riescono a vendere i loro prodotti, ma per salvare il mondo. È molto comodo questo ragionamento. Lo sappiamo tutti. Gli incentivi ci saranno. Il costo sociale sarebbe troppo alto. Ma almeno non prendiamoci in giro. Qui a rischiare sono sempre gli stessi: artigiani, commercianti, piccole imprese e lavoratori flessibili. Quelli che quando c’è crisi pagano in prima persona e sulle spalle hanno solo paracaduti stracciati.

 
 
 

Troppi criminali romeni, ma così possiamo fermarli: sospendere Schengen

Post n°2533 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 


La cattura dei romeni che hanno perpetrato l’orrendo stupro di Guidonia non segna un punto d’arrivo. Segna un punto di partenza. Sicuramente ci conforta la rapidità e la bravura con cui i carabinieri hanno identificato e rintracciato i criminali (auguriamoci che non si parli, in questo caso, di arresti domiciliari). Ma rimane sul tappeto il problema della sicurezza, e d’una delinquenza importata che ci sgomenta per la sua selvaggia ferocia. In proposito il discorso dev’essere pacato, senza isterie; però anche senza i tabù ipocriti del politicamente corretto.


Diamo per detto ciò che tutti sappiamo, ossia che tanti immigrati sono onesti e laboriosi. Gli episodi che hanno suscitato negli ultimi tempi emozione e indignazione riguardano gli altri immigrati: gli sbandati, i violenti, gli aggressivi, i ladri, i rapinatori, gli affiliati alla malavita organizzata. Loro sì costituiscono un pericolo grave. Esistono, e non è razzismo, etnie nelle quali la presenza malavitosa è poco significativa, e altre nelle quali è impressionante. Le carceri non scoppiano per i filippini, numerosissimi nella società ma non in galera. Scoppiano per l’apporto di extracomunitari africani e per l’apporto di nuovi comunitari dell’Est. Tra essi il primato dei reati spetta ai romeni: che grazie al trattato di Schengen hanno quasi uno status da cittadini italiani, possono entrare in Italia e uscirne liberamente.


Cosa si deve fare per fronteggiare - dal punto di vista dell’azione poliziesca e dal punto di vista della capienza carceraria - questa inquietante ondata romena del più truce malaffare? I governi di Roma e di Bucarest possono rispondere ricordando che è in atto un accordo di collaborazione tra le polizie dei due Paesi e che l’accordo ha dato risultati. Si dovrebbe soltanto insistere. Il parere dell’uomo della strada è diverso. I romeni guidano la graduatoria delle nazionalità cui sono fatti risalire reati comuni o sessuali, seguiti da albanesi e marocchini. La routine non basta. Schengen non può diventare una copertura per i primi della classe nel violare la legge. Non vogliamo che vengano da noi a delinquere, e non vogliamo mantenerli quando l’hanno fatto.


Potremmo rispedirli, una volta processati, al loro Paese, perché vi scontino la pena. Ma andrebbe a finire che sconterebbero ancor meno che restando in Italia. Allora si provi magari a bloccare l’afflusso dei disonesti, sospendendo per qualche tempo nei confronti della Romania - l’Olanda ha già preso una misura di questo genere - il trattato di Schengen. Visto quel che sta succedendo, un controllo, e severo, ci vuole.


 
 
 

Obama illude gli Usa con l'energia pulita

Post n°2532 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Antalb
 

Articolo del prof. Franco Battaglia, docente di chimica ambientale all'Università di Modena, su il Giornale di mercoledì 28 gennaio.


So che siamo fuori dal coro, ma dobbiamo avvertire: l'annunciata politica energetica di Obama, se attuata, sarà una calamità. Obama ha dichiarato: «Sfrutteremo il sole, il vento e la terra per alimentare le nostre auto e le nostre industrie». Capisco che Obama sia animato da buone intenzioni, come dimostrerebbe il fatto di ispirarsi ad Al Gore, che è premio Nobel per la Pace; ma qualcuno dovrebbe ricordargli che quelle, com'è noto, sono il lastricato delle vie per l'inferno; e informarlo che la patente di Nobel per la Pace potrebbe trarre in inganno, visto che anche Hitler vi fu candidato.


L'errore di Obama - gravissimo errore, con esiziali conseguenze - è ritenere di affrontare crisi e disoccupazione creando posti di lavoro nel settore della produzione d'energia. Il ragionamento è pressappoco questo: per produrre energia da eolico o fotovoltaico (FV) servono 10 volte gli addetti che servono per produrla da carbone o nucleare; ergo, incentivando sole e vento creiamo posti di lavoro. Ciò che Obama non comprende è che l'energia è un bene molto particolare. Noi non vogliamo energia, ad esempio elettrica, in sé (come accade con qualunque altro bene), ma perché essa ci serve per produrre ogni altro bene desiderato. Allora, ciò che crea posti di lavoro non è la produzione ma il consumo d'energia e, pertanto, la sua disponibilità abbondante ed economica. Altrimenti faremmo presto: diamo a 3 milioni di disoccupati una bicicletta e facciamoli pedalare per produrre elettricità. Creare posti di lavoro nei settori eolico e FV è come creare una squadra d'operai che scavi buche di notte e un'altra che le riempia di giorno. Perché? Semplicemente perché eolico e FV, non essendo compatibili con le modalità con cui noi abbiamo bisogno di energia, sono come le buche: inservibili.


Obama ha anche promesso di voler «aumentare al 10% la produzione di energia elettrica da rinnovabili». Ma avrebbe dovuto dire diminuire al 10%, visto che il contributo delle rinnovabili alla produzione elettrica americana era, nel 1985 ad esempio, del 13%. Il mio pronostico - e accetto scommesse - è che al 2012 quel contributo sarà inferiore all'8%, ed è fondato su una banale interpolazione lineare eseguita sui dati degli ultimi 30 anni, quando il contributo delle rinnovabili (quasi tutto idroelettrico) passò all'11% nel 1995 e al 9% nel 2005. E ciò a dispetto del fatto (anzi, proprio grazie al fatto) che in 20 anni la potenza installata FV è aumentata del 100% e quella eolica del 1000%.


Più recentemente pare abbia detto di voler promuovere l'auto da 15 km/l, cosa che ha fatto apparire alcune prime pagine italiane con titoli del tipo: «Rivoluzione di Obama: sì all'auto ecologica». Rivoluzione? Sarà, ma la mia auto ha 8 anni e percorre 16 km con un litro. Infine, Obama intenderebbe anche «ridurre i consumi elettrici del 15% rispetto ai valori attesi del 2020». Come possa riuscirci, visto che, molto lodevolmente, intenderebbe anche promuovere l'auto elettrica, è un mistero. Delle due, l'una. O Obama riuscirà non solo ad operare quelle riduzioni ma anche a far imbufalire il popolo americano che, sempre più affossato nella conseguente recessione economica, più che rieleggerlo aspirerà a farlo nero (nessuna ironia). Oppure i consumi elettrici americani seguiranno il corso naturale di un Paese che avrà ripreso la propria solidità economica, e Obama verrà rieletto. Auguro a lui la seconda cosa che ho detto.

 
 
 

Emergenza immigrati: nelle piazze prove tecniche di invasione

Post n°2531 pubblicato il 27 Gennaio 2009 da Antalb
 

Oggi fra Lampedusa e Tunisi si decide del nostro futuro di Paese e Stato sovrano. O si forniscono risposte severe e inamovibili o la situazione precipita. Non sembri un’esagerazione, perché siamo già oltre la soglia del pericolo, e il tempo è poco. In meno di un mese gli episodi eversivi che smetteremo di definire spontanei sono aumentati scientificamente, e altrettanto scientificamente si sono diffusi, misurandosi con città e situazioni diverse. Le preghiere di massa alla Mecca, durante e al termine di manifestazioni di odio antisemita, hanno costruito le condizioni per le dimostrazioni nei Centri di permanenza temporanea strapieni di disperati della terra, ma anche di integralisti islamici, a Lampedusa e ieri anche a Massa. Non è che la seconda fase di un progetto che non è audace ma solo onesto definire di intimidazione, sottomissione e infine di invasione culturale, sociale, religiosa, politica.

Partecipano attivamente al progetto i rappresentanti dei sedicenti centri sociali, le organizzazioni non governative, le associazioni più disparate, le sigle comuniste e pacifiste che da molti anni rincorrono la protesta estrema e la rivolta contro governi e forze dell’ordine come forme di battaglia politica. Partecipano pure, e duole constatarlo, gli esponenti di un’opposizione fiaccata e divisa, priva di qualunque idea progettuale, che si è ridotta a portavoce dell’islam, ad alzabandiera dei terroristi di Hamas, al logoro ritornello del rispetto del diverso, dell’accoglienza del rifugiato, recitato in litania sprezzante delle esigenze di sicurezza e delle aspirazioni all’identità dei cittadini italiani. Quando ha governato, il centro sinistra ha preso decisioni antipatriottiche disonorevoli. Un esempio per tutti è stata la decisione di aprire le frontiere alla Romania quando un rinvio sarebbe stato possibile e consigliabile, tanto che altri Paesi europei lo hanno scelto. Era il governo di Romano Prodi, era il ministro Emma Bonino, è bene ricordarne i nomi ogni volta che uno stupro, una rapina, un omicidio, hanno dei romeni come colpevoli. È bene anche ricordare i nomi di magistrati che in occasioni ripetute hanno emesso sentenze ignobilmente e insensatamente indulgenti nei confronti di clandestini delinquenti, stupratori, seviziatori e segregatori delle donne. Il risultato del lassismo, anzi della complicità, ci ha portato ai problemi feroci di oggi.

La sottovalutazione del pericolo rappresentato dalla penetrazione di stranieri priva di tetto e regole ha riguardato in passato anche i governi moderati e liberali, ancora oggi ci sono rigurgiti populisti, tanto è vero che è un sindaco del Movimento per le Autonomie a guidare la falsa rivolta del popolo di Lampedusa a fianco dei clandestini. Oggi non si può esitare, lo dico ricordando Oriana Fallaci, augurandomi ancora che si sbagliasse nella profezia di sventura inevitabile per la nostra patria.

 
 
 

De Benedetti, addio col trucco

Post n°2530 pubblicato il 27 Gennaio 2009 da Antalb
 


Articolo di Paolo Guzzanti su il Giornale di martedì 27 gennaio.


Ricordo la furia di Giorgio Bocca quando Eugenio Scalfari vendette la sua quota a Carlo De Benedetti e si svolse al quarto piano di piazza Indipendenza a Roma un’infuocata assemblea. Eugenio ci aveva venduto tutti e aveva monetizzato quel che aveva costruito mettendo in banca un bel pacco di miliardi. L’impero editoriale passava di mano, anche se restava ancora in piedi Carlo Caracciolo, compagno e sodale d’avventura di Eugenio. Ieri, puntata semi-conclusiva: Carlo De Benedetti - in apparenza – molla e lascia tutto.


Ma è un trucco teatrale: in realtà non lascia quel che più gli importa: il «sociale», come lo chiama lui e cioè il vero potere, come sarebbe più giusto dire: il diritto di nominare i direttori di Repubblica ed Espresso, nonché di nominare il nuovo presidente dopo la morte di Carlo Caracciolo, sottraendo questa facoltà al figlio Rodolfo che ha sempre sputato sopra questa mania del padre per i giornali, passione che ha portato soltanto disgrazia e ridotto i profitti. Lo scontro fra padre e figlio viene da tutti indicato come una dura resa dei conti terminata con l’uscita di scena del patriarca, ma non è così: le aziende che fanno soldi vanno al figlio, ma non hanno storia politica. Mentre il governo reale sui giornali se lo tiene il padre conservando e blindando il diritto monarchico assoluto di nominare il successore del principe Caracciolo, del direttore del settimanale e del successore di Ezio Mauro al quotidiano.


Si sa che la ragione profonda del conflitto fra padre e figlio non ha niente a che vedere con la questione generazionale – Carlo è ancora un leone, benché alla soglia dei 75 anni – ma con il potere politico. Però Repubblica va a rotoli, centinaia di migliaia di copie al macero, il prestigio della direzione e delle più aggressive firme sono ai limiti storici. Tuttavia, dice Carlo De Benedetti, il gioco resta ancora tutto lì, nei giornali, nelle radio, su Internet: soldi persi, è vero, ma anche soldi ben spesi. Rodolfo considera questa posizione del padre una mattana senile. Ma Carlo De Benedetti alla politica ci ha sempre tenuto. Fu per pesare in politica che volle entrare nell’editoriale L’Espresso in cui era un corpo totalmente estraneo, devastando l’immagine e l’identità di una casa editrice, di un settimanale e di un giovane quotidiano in sfolgorante successo.


Per questo ricordo Bocca con – è il caso di dirlo – la bava alla bocca gridare: «Eugenio ci hai tradito, ci hai venduto a un industriale che con noi non ha niente a che fare, ci hai messo sotto padrone». Eugenio spiegò con toni suadenti che De Benedetti era il miglior padrone possibile e che dunque dovevamo essere contenti e che lui avrebbe comunque mantenuto sempre un potere di supervisione generale che avrebbe garantito a tutti noi e insomma bla bla bla. Tutte balle.


Scalfari non poté garantire nulla e nel 1996 fu costretto a far buon viso a cattivo gioco e dovette farsi da parte per cedere il posto al rampantissimo Ezio Mauro che i debenedettiani avevano da tempo scelto come uomo del padrone al posto di Scalfari, che fu quindi relegato in una sorta di magazzino delle scope a scrivere editoriali domenicali consumando in tristezza il suo autunno di grande patriarca. Ezio Mauro fu spedito, prima di essere ammesso alla direzione di Repubblica, a fare il corrispondente da Mosca e poi tenuto in parcheggio alla Stampa mentre si consumava lo sprazzo finale dello scalfarismo.



La biografia industriale di De Benedetti è sterminata, ma io voglio ricordare quel che ho vissuto e riveduto anche per motivi di lavoro: De Benedetti fu accusato dal presidente George Bush, padre, di giocare molto sporco con il potere sovietico, cui avrebbe fornito l’accesso a merci strategicamente proibite. La lamentela del presidente americano fu espressa al presidente della Repubblica Francesco Cossiga e al ministro degli Esteri Gianni De Michelis nel corso di un loro viaggio a Washington: i due italiani difesero a spada tratta l’imprenditore italiano e fecero quadrato su di lui benché non lo amassero affatto. Poco tempo dopo però dalle colonne dell’Espresso partì una campagna di delegittimazione del presidente Cossiga che toccò il suo culmine con la richiesta di rimuoverlo dal Quirinale con certificato medico e sostituirlo con un comitato di saggi in attesa della nuova elezione. Cossiga aveva fatto cancellare i contratti della Olivetti al Quirinale sostenendo che le telescriventi di De Benedetti erano scarti di magazzino.


Di certo De Benedetti non ebbe alcun riguardo per il patrimonio tecnologico della Olivetti, l’unica compagnia informatica europea che avesse prodotto una eccellente e tuttora rimpianta linea di computer, anzi di «calcolatori», che gettò nel cassonetto delle immondizie per entrare invece nel core business della telefonia mobile ma senza una propria tecnologia, giocando soltanto sul commerciale. In questo modo De Benedetti distrusse il patrimonio culturale e sociale di «Comunità» di Adriano Olivetti, sbaraccò quel che restava dell’identità elitaria, radical-chic e borghese-rivoluzionaria del gruppo L’Espresso, si liberò dello stesso Scalfari e procedette come un rullo compressore con il dichiarato ed evidente scopo di dominare la politica attraverso l’editoria. Oggi De Benedetti si lamenta di aver subito due «scippi», quello della Sme e quello della Mondadori.


È storia vecchia: quanto alla Sme, è un dato di fatto che fu allora il presidente del Consiglio Craxi a rivolgersi a Berlusconi perché desse vita a una cordata alternativa a De Benedetti che aveva raggiunto un accordo molto personale con lo svenditore Romano Prodi. Come tutti sanno, alla fine non vinse né la cordata che a malincuore Berlusconi aveva cercato di metter su per far piacere a Craxi, né De Benedetti. Quanto alla Mondadori, De Benedetti rimpiange ancora un impero editoriale simile a quello di Carlo Quinto, sul quale non tramontasse mai il sole, ma fu costretto a contentarsi di una redistribuzione un po’ più pluralista. Di positivo c’è da dire che De Benedetti risplende per vitalità e combattività, benché abbia mascherato la ripartizione dei poteri annunciata ieri in Piazza Affari sotto le sembianze del ricambio generazionale.


È stata invece una concentrazione dei veri poteri politici nelle sue sole mani e un’offa per il figlio Rodolfo che mantiene quel che già ha, ma senza poter ficcare il naso nell’editoria dove il padre si è blindato e gli ha sbattuto la porta in faccia. Alla fine ho l’impressione che esca fuori tutt’altro che il melanconico addio che si voleva far finta di spacciare ieri con una cerimonia decorosa e affettuosa: ieri abbiamo assistito di fatto al rafforzamento del potere che conta nelle mani del vecchio (ma non troppo) padre e al ridimensionamento del figlio che riceve per ora una corona di latta. De Benedetti ha infatti detto che lui vivo L’Espresso non si vende (sconfitta di Rodolfo) e che si riserva di nominarne i capitani, cioè dettare la linea politica.



E qui va preso atto del fatto che De Benedetti ha fatto definitivamente marcia indietro dalla famosa «tessera numero uno» del Partito Democratico: «Sono sempre stato repubblicano visentiniano», ha detto, passato senza entusiasmo al centro sinistra. Ieri si era sparsa una voce che poi i fatti hanno ridimensionato ma non fugato: e cioè che il vecchio re Carlo volesse spogliarsi di tutte le province e degli orpelli per darsi alla politica in prima persona. Non è così. Ma in un certo senso è così lo stesso. De Benedetti non ha intenzione di «scendere in campo» alla sua età, ma ha voglia di seguitare a giocare duro la partita politica come se dovesse giocare a golf: quel campo a 18 buche è suo e non intende condividerlo con nessuno. Finché sarà vivo. Ha anche smentito di aver preso le decisioni di ieri come conseguenza della morte di Carlo Caracciolo e sarà anche vero.


Ma è sicuro che la morte del partner rivale lo ha rafforzato: la vecchia coppia Scalfari-Caracciolo non ha più potere sul suo campo da golf privato e tutto quanto Giorgio Bocca tanti anni fa temeva è accaduto: l’Olivetti è morta, l’editoriale L’Espresso è il nome di un’antica memoria, La Repubblica fa acqua da tutte le stive, ma il potere su quel che resta è assoluto e anzi confermato da ciò che è accaduto ieri tra brindisi abbracci e baci, e cioè un vero e proprio colpo di Stato in famiglia.




 
 
 
 
 

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