Quando lunedì 28 settembre, alle 10 di mattina, lui mi ha mollato, a freddo, quello schiaffo in faccia sotto forma di sms, lì per lì ho pensato che nemmeno mi faceva tanto male e sono rimasto persino sorpreso dall'aplomb con cui l'ho incassato. Mi sbagliavo, perché il bruciore mi è venuto fuori durante il giorno, tanto più cocente quanto più ci pensavo su. Un misto di rabbia e di umiliazione. Rabbia per avergli concesso di colpirmi, con mira infallibile, proprio nel punto in cui sono più vulnerabile, lì dove s'incontrano diverse mie paure. Il bruciore si è poi trasformato in febbre - se fosse febbre reale o soltanto percepita non saprei dirlo, ma l'effetto non cambia - e poi in mal di testa. Quella sera mi sono buttato a letto alle nove e mezzo, con venti gocce di Lexotan a favorirmi il sonno.
Ma già durante il giorno, da una specie di fonte sorgiva che non pensavo di avere dentro di me, si è fatta sentire, timida, una voce, senza che io la evocassi. Quell'antigene stava producendo il suo anticorpo specifico. La voce mi diceva: "Se non ti vuoi bene tu, nessuno te ne vorrà al posto tuo". O meglio: "Almeno tu hai il dovere di volterti bene: non affidare la tua serenità agli umori di uno stupido". Perché è così: io con me devo trascorrerci tutto il tempo che mi resta da vivere e sempre, non soltanto una parte. Non ho scelta: il mio primo matrimonio è con me stesso. E' bene quindi che mi ami, almeno un po'. E forse - mi sono detto - dovrei essere grato a lui che, con la sua insensibilità e con l'innocente crudeltà di chi colpisce e non se ne cura, mi ha ricordato questa lezione.
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il 01/12/2013 alle 16:37
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il 21/08/2013 alle 09:54
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