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PAPERE E PANNOCCHIE

O PAPERE E PANNOCCHIE...

 

 

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Post N° 2211

Post n°2211 pubblicato il 18 Marzo 2008 da Earthlessheartless

Caserma di Bolzaneto...e la notte della democrazia.

 

http://images-srv.leonardo.it/progettiweb/vederedentro/blog/munch-urlo.jpg
C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo


ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri


l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione


dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini


compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti,


carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali,


ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione


penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai


"prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di


sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a


disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di


passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon


cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo


a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto


a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia


di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a


55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi


e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli,


greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre


statunitensi, un lituano.Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche


professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I


pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati


hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio


prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è


andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a


tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la


testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha


trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di


adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani,


alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro


Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in


faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro


arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre


anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe


che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della


prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto


scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio,


possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né,


contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte


in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di


dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che


pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di


trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci


è già appartenuta.Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero


sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo


fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo


mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo


la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13


si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza


fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di


libertà"La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta


gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna",


modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità


cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un


"Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un


campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri"


accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni,


calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo?


Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella


inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001


risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una


biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume


italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato


la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di


piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti


verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o


quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il


garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra,


due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è


costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto


chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se


stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).A una
donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei


figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A


un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.


Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D.


si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto.


Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è


accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti


hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima,


perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e


denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per


accertare la presenza di oggetti nelle cavità".Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre


giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" -


sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella


struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di


entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del


trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera -


è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte


tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati


all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde)


sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un


gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di


attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia


alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di


quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati


gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella


palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In


ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la


schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.




Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi


alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle


donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un


gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o


ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia


penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui


genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere


le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è


chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo


spappolamento della milza. A.




D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare


nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli


fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo


minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il


viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è


chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non


picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli


viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del


martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in


piedi.Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli


ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora,


un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?".


S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A.


F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare


pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte".


S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a


denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo


obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia


penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con


sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a


spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti


alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la


testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli


agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la


schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina.


C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi,


minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie


perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia


penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a


restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia


penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le


operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing


venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a


rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a


quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute


offensive, le risate, gli scherni. P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la


perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne


fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si


avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in


infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al


necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.


Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in


sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i


prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che


sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un
po'.Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno
di


assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale


appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una


maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta.


L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.


E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al


bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la


insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le


dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti


piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano


allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì,


nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria


perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche


il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e


spinto".Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della


mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella


cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il


suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per


la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice


bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei"


con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini,


"indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue.


Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno


preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non


ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo


medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo


trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto.


Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un


poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani.


Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G.


A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza


anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno


straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava


accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno


omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel


trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia


dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le


pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento,


però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E


raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella


sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la


dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già


dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a


stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto


politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono


macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose


delle torture di Bolzaneto.Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le


governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma


diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e


donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero


far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri


vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso


cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia


alla coerenza"? /Da Repubblica.it del/17/03/2008 di GIUSEPPE D'AVANZO
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