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Un mondo nuovo

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Messaggi del 01/02/2019

Non dimenticare

Post n°2922 pubblicato il 01 Febbraio 2019 da namy0000
 

Un giovane vede una ragazza, se ne innamora, le chiede un bacio, lei risponde: ‹‹Non adesso››. Potrà darglielo un anno e mezzo dopo. Prima di quel bacio ci sarà il viaggio verso Auschwitz, le camere a gas, la marcia della morte e la scomparsa di persone care.

Con una voce chiara che tradisce i suoi 91 anni, Raphaël ci racconta come ha conosciuto la moglie Liliane Badour, la ragazza di 19 anni che gli ha dato la forzadi sopravvivere ai lager.

‹‹Ho visto Liliane la prima volta a Drancy, un campo d’internamento vicino a Parigi e punto di partenza per le deportazioni dalla Francia verso Auschwitz, dove ero arrivato diciottenne il 26 gennaio 1944, arrestato perché procuravo documenti falsi alle persone, per aiutarle a fuggire in Svizzera. Me la presentarono i suoi fratelli Henri di 17 anni e René di 13. Lei era molto affascinante, e per me è stato un vero colpo di fulmine››. ‹‹Il più giovane dei suoi fratelli portava la divisa scout. Anche io lo ero, e mi sono avvicinato spontaneamente a loro. Ero stupito: appartenevano a un’associazione cattolica, gli Scout di Francia, ma erano lì con prigionieri ebrei e della Resistenza. Mi raccontarono che erano orfani di entrambi i genitori. Vivevano a Biarritz con i nonni materni di lontane origini ebraiche, ma erano di religione cattolica. Ho poi scoperto che il nonno, quando sono stati arrestati, ha fatto di tutto per far avere i certificati di battesimo alla polizia. Inutilmente. Quando i documenti giunsero a Drancy, il 4 febbraio del 1944, i suoi tre nipoti erano da 24 ore rinchiusi nei vagoni in viaggio verso Auschwitz››.

Finita la guerra, ‹‹Avevo saputo che Liliane era sopravvissuta, ma rivedere di persona la ragazza, che era stata a lungo nei miei sogni, è stata una gioia immensa. In realtà, non conoscevo i suoi sentimenti. Lei ha voluto che l’accompagnassi a Lourdes. Il nostro è stato un amore che si è costruito nel tempo. Diventando più forte e più reale durante la nostra vita››.

‹‹I due fratelli sono stati smistati e inviati alle camere a gas appena giunti a Birkenau. Liliane ne ha sofferto tutta la sua vita. Si è sentita sempre responsabile della loro morte››.

I primi anni, finita la guerra, sono stati molto duri. ‹‹C’era la felicità di aver ritrovato Liliane, ma era difficile ricominciare a vivere. Avevo problemi economici, studiavo ingegneria e faticavo a mantenermi. Ma, soprattutto, non amavo più gli uomini. Rispettavo le persone, ma non provavo nessun sentimento di vicinanza. Ho compreso allora che il valore di un essere umano lo si può capire solamente quando è spogliato di tutto. Per anni ho giudicato le persone secondo il “metro dei lager”: come si sarebbero comportate in un campo di concentramento››.

Io e Liliane non abbiamo parlato della deportazione perché ‹‹Volevamo proteggere le persone care da tanta miseria. Oggi mia figlia me lo rimprovera. Ma, ai tempi, pensavo: “Perché raccontare l’orrore?” Non volevo trasmettere infelicità››.

La memoria è diventata poi un dovere. ‹‹Lo è diventata per vari motivi: per prevenire, spiegando ai giovani quanto male può fare un uomo a un altro uomo, ma soprattutto per descrivere quel capovolgimento, impossibile da accettare, di tutti i valori umani che noi conosciamo. I tedeschi sono stati capaci di catturare e imprigionare uomini, donne, bambini, di condurli nelle camere a gas, di utilizzarli come schiavi o animali per gli esperimenti scientifici››.

‹‹Mi ha spinto a raccontare mia nipote Aurélie che mi ha convinto a scrivere il libro “La speranza di un bacio ci ha salvati”, edito da tre60››, dice Raphaël Esrail. ‹‹La forza per raccontare l’abbiamo ritrovata io e Liliane tra il 1970 e il 1980, quando hanno iniziato a diffondersi le ideologie negazioniste. Non si poteva più tacere›› (FC n. 4 del 27 genn. 2019).

 

 

Tatiana e Andra Bucci, a 81 e 79 anni, non sono più le gocce d’acqua che erano da bambine, ma si raccontano come se fossero una. I due anni e mezzo vissuti pericolosamente, tra il 1944 e il 1946, attraverso la deportazione a Birkenau, quando avevano 6 e 4 anni, l’orfanotrofio di Praga, l’accoglienza in Inghilterra, il ritorno a casa, a Trieste, dov’erano emigrate con la famiglia da Fiume, le hanno unite per sempre.

La somiglianza fisica di allora, invece, ha salvato loro la vita nel lager.

Nella stanza d’albergo fiorentina, in cui le abbiamo incontrate, il filo del racconto, che ora è anche in due libri (Noi, bambine ad Auschwitz, Mondadori, e La stella di Andra e Tati, De Agostini, per bambini) passa dall’una all’altra inestricabile come un canto corale. ‹‹Il fatto che sembrassimo gemelle ci ha evitato la camera a gas appena arrivate al campo››, destino che toccava alla maggior parte dei bambini (su 230.000, da Birkenau ne sono tornati 50). ‹‹L’essere insieme ci ha aiutate a resistere, ad adattarci presto all’anormalità di quel luogo››.

In quanto gemelle presunte sono state preservate in vista degli esperimenti del medico nazista Josef Mengele. Non sanno perché non siano mai state scelte, ma sanno chi le ha salvate: ‹‹La custode della nostra baracca, dura con gli altri, ci aveva prese in simpatia, forse le ricordavamo qualcuno di casa sua. Un giorno ci prese da parte e disse: “Verrà un dottore. Chiederà chi vuole andare dalla mamma. Non andate”. Altre volte, prima, ci aveva dato da mangiare e da vestire di nascosto. Un po’ fidandoci di lei, un po’ perché convinte che mamma, deportata con noi, fosse morta, abbiamo resistito all’istinto di andare incontro a quell’inganno crudele››. Hanno provato ad avvisare anche il loro cuginetto, Sergio, ma per lui l’istinto è stato più forte. Chi rispondeva di sì, non è tornato.

Il ricordo di Praga è evanescente: ‹‹Un orfanotrofio pieno e anaffettivo, pare impossibile esserci state un anno, ricordiamo poco. Ma è vero che abbiamo parlato ceco tra noi fino a casa. E sapevamo che la guerra era finita, tanto che quando sono arrivati gli inglesi a prenderci per portarci a Lingfield da Anna Freud, la figlia di Freud, non abbiamo avuto paura di dire che eravamo ebree››. L’Inghilterra ha la forma del ritorno alla vita: ‹‹Calore, profumo di dolci, canti, supporto psicologico. Ci sarebbe servito anche dopo, ma non è mai arrivato››. Hanno cercato da sole la strada dell’equilibrio. Ad ascoltarle ora, mentre parlano, inframmezzando sorrisi alla vibrazione di una commozione sobria, ma comunque salde, si capisce che sono riuscite a trovarlo. A casa sono tornate a due anni e mezzo dal treno piombato, riconoscendo una foto dei genitori. La mostrarono loro in Inghilterra: ‹‹”Sapete chi sono?”. “Sì, mamma e papà”. “Sono vivi e vi stanno cercando”. Diversamente, saremmo finite in un kibbutz in Israele. A casa, mamma ha rispettato il nostro silenzio e noi il suo. Abbiamo davvero capito la gravità di quanto abbiamo vissuto e l’enormità del suo dolore soltanto una volta diventate madri di figli della nostra età di allora. Il riserbo di mamma ci ha insegnato a guardare avanti, probabilmente abbiamo rimosso il peggio››.

La vita poi le ha separate. Tati vive a Bruxelles dal 1964. Andra invece negli Stati Uniti, vicino a una figlia. Ma il vento liberticida che sta soffiando in Polonia evoca loro un sentimento identico e simultaneo: ‹‹Paura››. Lo stesso che, a ora incerta, le coglie, a tradimento, quando passa un treno merci (FC n. 4 del 27 genn. 2019).

 
 
 

Drammi epocali

Stiamo attraversando un periodo di forte instabilità. I drammi epocali, una stagnazione economica, un uso indiscriminato dei social network stanno generando una mancanza di speranza e di fiducia. Il problema non è solo come affrontare i temi cruciali di oggi, ma che cosa sta nascendo nel cuore di tante persone. Viviamo nell’epoca del disgusto, dell’uno contro l’altro, della non accettazione di noi stessi, in un mondo che sembra incattivito. Conta gridare più forte e manifestare in piazza per ogni problema che emerge, grande o piccolo. Sembra un mondo che ha perso il proprio orizzonte, alla ricerca di salvatori che possano risolvere con la bacchetta magica i nostri problemi.

Così facendo, cadiamo nella depressione, nell’insultare l’altro, non vedendo il bene che ci circonda. E rischiamo di creare generazioni di giovani che la pensano allo stesso modo.

Eppure il mondo è fatto di tanta gente sincera e onesta che lavora senza essere citata, e di persone che si impegnano non tanto a offendere la parte avversa, ma a costruire concreti ponti e aperture verso il futuro. Il compito della società non è quello di essere contro qualcuno o qualcosa, quanto nel far rifiorire la bellezza e la vivacità della fede nella vita che rischiamo di smarrire. Il coraggio di guardare in alto senza strisciare per terra, vivendo i valori alti che la società e la Chiesa sono chiamati a indicare. Una stagione aperta alla positività e alla gioia, togliendo tutte quelle sirene di male che bloccano la crescita della nostra società. Questo auspico in un mondo che ha fame di verità e di autenticità – Luigi T. (Lettera pubblicata da FC n. 4 del 27 genn. 2019).

 
 
 

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