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Messaggi del 21/02/2019

Una storia iniziata

Post n°2939 pubblicato il 21 Febbraio 2019 da namy0000
 

Una storia iniziata il 2 gennaio 2018, con una bicicletta. Da un piccolo paese con poco più di 3.000 abitanti, Castelnuovo Don Bosco, in provincia di Asti, mio fratello Filippo, ingegnere aerospaziale, laureatosi al Politecnico di Torino nel 2013, e ospite del collegio San Giuseppe durante i suoi studi, è partito per il viaggio più importante della sua vita. Non penso sappia che vi sto scrivendo, ma questa storia è ancora in corso.

Da Castelnuovo è passato per Alba, ha proseguito per Santo Stefano al Mare, per continuare poi lungo tutta la costa francese e spagnola, e prendere il traghetto che lo avrebbe portato in Marocco. Da lì, sempre in bicicletta, ha proseguito per la Mauritania, il Senegal, la Guinea Bissau, la Sierra Leone, la Liberia, la Costa d’Avorio fino ad arrivare, con molta calma e serenità, dov’è ora, in Camerun, passando anche per la Nigeria, con l’obiettivo di arrivare alle coste del Sud’Africa. Grazie al nostro don Bosco, è stato più volte ospitato presso le strutture salesiane africane che ha incontrato lungo la sua strada. Un’esperienza preziosa, pur nell’impossibilità di paragonarlo al “viaggio al contrario”, l’ha portato a sentirsi l’altro, lo straniero, che si è messo in discussione come una volta nella vita dovremmo fare tutti. Come sostiene anche lui, la non conoscenza porta istintivamente a chiudere le porte, a minimizzare i contatti. L’esercizio sta proprio nel provare l’opposto, ad aprirsi e ad accogliere. Questo è proprio il segreto della felicità. Si può sopravvivere di quello che si riceve, ma si vive di quello che si può donare. Questa è una grande lezione di Mamma Africa. Ecco uno dei suoi ultimi post pubblicati sulla sua pagina A-Roun About (https://m.facebook.com/aroundabout2018). ‹‹Sono su una nave che mi sta accompagnando fuori dalla Nigeria, verso nuovi mondi. E ho una parola in mente: accoglienza. Di cosa necessita una persona che arriva in un luogo a lui sconosciuto, da una situazione difficile, magari con un lungo viaggio alle spalle? Probabilmente ha fame, deve riposare, o ha freddo. Ma soprattutto ha bisogno di qualcuno che gli scaldi il cuore, magari che gli rivolga la parola e gli regali un sorriso. Non voglio assolutamente paragonare la mia esperienza con il viaggio che migliaia di anime intraprendono verso un nuovo mondo e una nuova speranza su camion derelitti e barche fatiscenti. Eppure, nel mio piccolo e per pochi giorni soltanto, ho percepito per la prima volta, nella mia fortunata vita, cosa voglia dire sentirsi esclusi, essere l’altro, senza un’apparente ragione, se non magari il colore della pelle. Ho cercato lo scambio, ho inviato sorrisi. Bianco. Sono stato allontanato e mi hanno urlato contro. Nero. E ho provato freddo al cuore. L’unico modo che ho per proseguire nel viaggio è attraverso l’accoglienza, sentendomi benvoluto e mai abbandonato. Umanità. È sempre stato così nei miei giorni africani, dove siamo tutti uomini, tutti uguali. Questa magia si è interrotta per pochi giorni, ma già ora ha ripreso a funzionare. Pochi giorni sono stati sufficienti per mostrarmi la necessità dell’accoglienza, per poter essere tutti umani e sentirsi tutti insieme in questo mondo›› - Martina (Lettera pubblicata da FC n. 7 del 17 febbr. 2019).

 
 
 

Che vergogna!

Post n°2938 pubblicato il 21 Febbraio 2019 da namy0000
 

Mentre le scrivo queste parole, mi sento fortemente egoista. Ci sono nostri fratelli e sorelle in balia delle onde e dei capricci d politicanti razzisti e ignoranti. E io chiedo loro scusa perché ho un tetto che mi protegge dalle intemperie e non ho nessuno alle calcagna che mi perseguiti per i miei credi religiosi e politici o per il colore della mia pelle. Perdonatemi, ma ora non riesco a trattenere più la rabbia e la frustrazione, comune a gran parte dei miei coetanei, nati negli anni 1980.

Abbiamo studiato, abbiamo raggiunto alte vette, siamo laureati, specializzati, con dottorato di ricerca e con master. Siamo spesso stati studenti Erasmus, abbiamo vissuto un clima di apertura e collaborazione all’Europa. Abbiamo imparato perfettamente altre lingue e collaborato con prestigiose università straniere. Ma, a meno di non fuggire a gambe levate dal nostro Paese, tutto questo in Italia non basta.

Possiamo fare facilmente lavori per i quali non è prevista la laurea, ma ogni qualvolta aspiriamo a qualcosa di più, dobbiamo superare concorsi su concorsi, selezioni su selezioni. E anche qualora abbiamo il merito di vincere un concorso pubblico, siamo sempre dei poveri precari, a cui rinnovano il contratto di 8 o 9 mesi per volta, senza possibilità di sapere se mai si verrà stabilizzati. Chi ha già avuto dei figli si trova a dover spostare l’intera famiglia nella sede di destinazione per soli 9 mesi, poi tornare a casa, pregare per il rinnovo, spostarsi nuovamente, ritornare a casa, attendere e rispostarsi.

Non so, forse non siamo temprati nell’acciaio, ma io trovo tutto questo estremamente destabilizzante per il lavoratore e la sua famiglia, in genere con bimbi piccoli, costretti continuamente a cambiare scuola e ambiente. Chi, come me, i figli li vorrebbe, non può avere questa aspirazione. Come si fa, se ci si vede con il proprio marito o compagno per due giorni scarsi a settimana? Come si può programmare un futuro sapendo che non si sa dove ci si troverà di lì a pochi mesi? Come si può, già in partenza, privare il padre dello stare con i figli e con la propria moglie? Dov’è qui l’idea di famiglia, di condivisione del quotidiano? Perché la mia vita deve svolgersi lontana dal mio compagno? Mi si potrà dire perché non c’è lavoro e bisogna accontentarsi. Il lavoro c’è, ma ci sono dirigenti che decidono per te.

L’anno scorso ho chiesto un trasferimento per il quale il mio dirigente non ha concesso il nulla osta. Non ha mai risposto alla richiesta, nonostante i solleciti. Un capriccio, un mero capriccio senza giustificazione. Quest’anno sarà la stessa cosa, dovrò stare nuovamente da sola, lontana da casa e dal mio compagno, lontano dalla mia famiglia. Ho iniziato ad avere attacchi di panico e crisi depressive al solo pensiero di riprendere servizio nella sede dell’anno scorso. Dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per studiare e fare esperienza, dopo l’impegno economico che abbiamo richiesto ai nostri familiari, ritengo che questo non sia un bel trattamento. Alla soglia dei 40 anni, dopo gli studi e le esperienze intraprese, vorremmo solo poter avere dei figli e una famiglia, vorremmo poter contare su uno stipendio minimo, ma stabile, vorremmo non doverci continuamente spostare, continuamente dimostrare che sì, siamo bravi e con esperienza perché ci siamo sempre impegnati. Vorremmo che le nostre vite non dipendessero dagli egoismi, le gelosie e le ripicche tra dirigenti. L’Italia non è il paese adatto per la mia generazione. Ho resistito finora, ma credo che sia giunto il momento di andare via. Anzi, è già tardi, sono già vecchia. Perdoni lo sfogo – Lettera firmata (Lettera pubblicata da FC n. 7 del 17 febbr. 2019).

 
 
 

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