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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 13/02/2019

Al Sunday Times

Post n°2931 pubblicato il 13 Febbraio 2019 da namy0000
 

“Al Sunday Times, dove lavorava Marie Colvin, giornalista statunitense, uccisa nel 2012 in Siria dalle bombe a Homs, non c’erano personaggi “buoni”” che si preoccupavano del suo bene. C’erano solo direttori e caporedattori che chiedevano scoop a costo di mettere a rischio la vita dei loro giornalisti”.

“Ero convinta che bisognasse dare testimonianza delle atrocità ed ero motivata da un forte senso di giustizia. Ma più di ogni altra cosa, volevo avere una famiglia. Sognavo la stabilità e l’equilibrio che in quanto corrispondente di guerra non avevo. Dopo vent’anni in zone di conflitto, dopo aver assistito all’assedio di Sarajevo, alla caduta di Grozny per mano delle forze russe, ai genocidi a Srebrenica e in Ruanda, ai bambini soldato che avevano cercato di uccidermi in Liberia e in Sierra Leone, ero completamente esaurita. Volevo una cucina in cui preparare la cena per il giorno del ringraziamento. Volevo dire ai miei amici di venirci a trovare e volevo restare con loro, invece di lasciare un biglietto sulla porta con scritto che all’ultimo momento mi avevano chiamato per andare in Congo o a Timor Leste…”

“Quando cominciai a fare la giornalista, il disturbo da stress post-traumatico non era molto comune tra i corrispondenti di guerra. Dopo una missione particolarmente estenuante in Bosnia fui contattata dal dottor Anthony Feinstein, uno psichiatra canadese che si basò sulla mia esperienza e su quella di alcuni miei colleghi per uno studio triennale sugli effetti dei traumi sui giornalisti che lavorano in prima linea. I risultati del suo lavoro furono pubblicati sull’American Journal of Psychiatry e poi in un libro, Dangerous lives (Vite pericolose) che è diventato una sorta di manuale per le testate giornalistiche su come tutelare i loro reporter. Quando Feinstein mi chiamò nel suo ufficio a Londra per il mio ultimo consulto, mi disse che non soffrivo di disturbo da stress post-traumatico, nonostante le terrificanti allucinazioni che mi perseguitavano dopo essere stata in Sierra Leone (vedevo persone amputate dappertutto). Diceva che avevo una forte capacità di ripresa. Interpretandola erroneamente come una benedizione, decisi di spingermi ancora più in là, su strade ancora più desolate, in missioni ancora più pericolose, sempre più vicina alla morte. Come se non bastasse, il giornale per cui lavoravo all’epoca mi spingeva a rischiare sempre di più pur di avere un grande servizio da pubblicare. Sono stata rapita. Ho subito una finta esecuzione in Kosovo. Non si contano le volte che stavo per essere stuprata. In Costa d’Avorio, un soldato ubriaco mi ha puntato un Ak-47 senza sicura al cuore mentre cercavo di trascinare un uomo ferito in ospedale. Sono stata minacciata di morte dal governo di Foday Sankoh in Sierra Leone per aver trafugato documenti collegati ai diamanti insanguinati. A Grozny sono stata in mezzo a bombardamenti così feroci che pensavo che mi esplodessero i timpani. Certamente i miei nervi ne hanno risentito. Ero tornata al mio appartamento a Londra e avevo cercato di riprendermi, di rimettere insieme i pezzi della mia vita. Molti miei colleghi erano rimasti completamente devastati da quello che avevano visto. Chi torna dal fronte deve fare i conti con l’alcolismo, l’abuso di stupefacenti, il divorzio, la separazione, l’infelicità, la sofferenza. C’è stato un periodo della mia vita in cui non riuscivo a tollerare di andare a una festa e sentire quelle che alle mie orecchie erano le banalità della vita quotidiana. Io e i miei colleghi avevamo rifiutato il mondo tradizionale, e ne stavamo pagando il prezzo”…

“In realtà, piangevo anche per me stessa e per quello che mi stavo perdendo. E così, qualche anno dopo, mentre guardavo cadere la statua di Saddam Hussein a Baghdad, presi una decisione drastica: giurai che avrei avuto una vita normale. Ero fidanzata e stavo per sposarmi con un altro corrispondente di guerra, che avevo conosciuto durante l’assedio di Sarajevo. Volevamo avere un figlio, rischiarare il buio delle nostre vite, trovare un riscatto”.

“Quando la troupe di Kopple venne a riprendere il nostro matrimonio, nelle Alpi francesi, dov’era cresciuto mio marito, ero incinta. Mentre mi stavo vestendo, guardai le notizie e la mia felicità svanì: il quartier generale dell’Onu a Baghdad era stato colpito da un attentato. Io e mio marito ci mettemmo a guardare la tv, sconvolti, ma anche combattuti perché non eravamo lì, nel cuore degli eventi”.

“Il Times, il giornale per il quale lavoravo allora, non era entusiasta del mio nuovo ruolo. ‘Ho una corrispondente di guerra che non può andare in guerra’, protestò il capo degli esteri, padre di cinque figli. ‘Come faccio a raccontare quello che sta succedendo?’. Quando gli suggerii di mandare qualcun altro andò su tutte le furie: ‘Non posso mandare gente inesperta! Quello che sai fare tu è andare in posti dove gli altri non riescono ad andare!’. All’improvviso mi resi conto che per lui ero carne da cannone. Mi costrinse a tornare in Iraq mentre stavo ancora allattando, perché sosteneva che il mio contratto diceva così. Piansi sull’aereo con la foto del mio bambino infilata in tasca. E piansi nel mio ufficio di Baghdad, quando dovetti tirarmi il latte e buttarlo nello sciacquone del bagno. Sentii un mio collega maschio dire trionfante al telefono: ‘Ha avuto un figlio e adesso se la fa sotto!’. Mi mandarono comunque a Sadr City in un momento particolarmente pericoloso, mentre il mio corpo si stava ancora riprendendo da una gravidanza a rischio e da sei mesi a letto. Ma il mio collega maschio aveva ragione: ero cambiata. È stato sempre difficile per me assistere alle sofferenze estreme dei bambini e degli innocenti. All’inizio della mia carriera, in Bosnia, quando vidi un bambino, a cui avevano sparato nell’addome, che urlava agonizzante senza antidolorifici, vomitai. Ho provato a essere più forte, ma non sono mai riuscita a costruirmi una corazza abbastanza solida. Con la maternità mi è diventato quasi impossibile veder soffrire i bambini, come ho constatato nelle ultime guerre che ho documentato in Siria e in Yemen. Per riprendermi, tornavo a casa e giocavo con mio figlio, interpretando il ruolo della casalinga anni cinquanta, con tanto di grembiule e torta nel forno”… ma sono orgogliosa del mio lavoro e di quello dei miei colleghi, soprattutto per le prove che forniamo ai tribunali per i crimini di guerra. Ma so anche che la mia professione getta un’ombra sulle persone che mi sono più care… Ma non voglio che le ragazze pensino che fare la corrispondente di guerra sia un lavoro favoloso. Non lo è. Se vogliono conoscere la realtà cruda e sgradevole – il dolore, gli aborti spontanei, i postumi emotivi – dovrebbero dare un’occhiata anche al documentario del 2004 di Barbara Kopple (Janine di Giovanni, giornalista statunitense corrispondente di guerra, Internazionale n. 1292 del 1 febbr. 2019).

 
 
 

Consumatori responsabili

Post n°2930 pubblicato il 13 Febbraio 2019 da namy0000
 

Riconosciamoci «potere forte». Il latte sardo e una lezione francese

Leonardo Becchetti, Avvenire, martedì 12 febbraio 2019

La protesta drammatica dei pastori sardi che sversano litri di latte per strada mette in luce un problema ben noto. Pagare al produttore meno di 60 centesimi al litro non ripaga nemmeno i costi e spinge al gesto disperato di distruggere il frutto del proprio lavoro. Certo c’è un problema di economie di scala, di qualità e progresso tecnologico delle filiere, ma anche e soprattutto di basso potere contrattuale dei produttori della "materia prima". E il prezzo basso al consumatore, che ci fa credere di vivere nel migliore dei mondi possibili, è un’illusione che in altro modo paghiamo a caro e carissimo prezzo. Come ha recentemente ricordato Michael Pollan, «il cibo a basso prezzo è un’illusione. Non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte. E se non lo paghiamo alla cassa, lo pagano l’ambiente e la nostra salute». Oltre che il produttore.

Esiste un destino ineluttabile per il quale siamo condannati a vivere in un modello con queste contraddizioni? O forse c’è la possibilità di mettere assieme qualità del prodotto, dignità del lavoro, tutela dell’ambiente e salute? Se Karl Marx avesse oggi diritto di parola con tutta probabilità cambierebbe il suo slogan più famoso in "Consumatori di tutto il mondo unitevi". Riconoscendo anche lui che il lato forte da cui risolvere le contraddizioni del sistema economico è oggi quello del potere del consumatore. Poiché governi globali dell’economia non esistono e non si vedono all’orizzonte, il consumatore è oggi l’unico "portatore d’interesse" che ha la forza potenziale per realizzare un modello di creazione di valore sostenibile.

E per quale motivo dovrebbe accontentarsi di essere influenzato dalla pubblicità o al massimo, nei casi più "evoluti" e consapevoli, di esercitare individualmente il proprio "voto col portafoglio" cercando di districarsi nella giungla delle valutazioni e delle offerte per premiare i prodotti più sostenibili? In Francia, il "voto col portafoglio" ha fatto un passo avanti importante. E un’associazione di circa diecimila consumatori ha stabilito di voler decidere a monte quale tipo di prodotto concepire e commissionare ai produttori. In questa nuova filiera i consumatori vengono coinvolti con dei questionari nella costruzione delle specifiche del prodotto. Una volta definite le caratteristiche il prodotto è commissionato ai produttori e proposto alle catene della grande distribuzione. Si è partiti proprio dal latte e i consumatori hanno optato per un latte da mucche allevate al pascolo almeno 6 mesi all’anno con foraggi prodotti nel raggio di 70km, naturali non Ogm e con una remunerazione equa ai produttori.

«C’est qui le patron?!» (la Marca del Consumatore francese) ha debuttato a fine 2016 vendendo più di 95 milioni di litri di latte a più di 8 milioni di consumatori in dodicimila punti vendita della grande distribuzione francese. Riconoscendo ai produttori 20 centesimi in più al litro (esattamente quello che chiedono con la loro protesta i pastori sardi). L’idea della Marca del Consumatore (che è nel frattempo diventata un movimento internazionale che sta nascendo proprio in questi giorni anche in Italia) ha le potenzialità per segnare un passo avanti decisivo nella storia dell’azione dal basso dei consumatori responsabili.

Riducendo alcuni degli ostacoli tradizionali del "voto col portafoglio" come la capacità di coordinare le scelte dei singoli cittadini e i limiti d’informazione sulle caratteristiche dei prodotti. E il prodotto ha conquistato una quota di mercato importante nonostante il prezzo finale sia del 20% superiore a quello medio dei concorrenti. Ovvero facendo leva sulla partecipazione, e riducendo le asimmetrie informative, è possibile far crescere l’economia riuscendo a capitalizzare la disponibilità a pagare dei cittadini per la remunerazione equa del lavoro, la tutela dell’ambiente e la salute.

Un principio fondamentale dell’economia civile stabilisce che il progresso sociale verso il bene comune ha bisogno di quattro mani: il mercato, istituzioni lungimiranti, cittadinanza attiva e imprese responsabili. Smettiamola di aspettare il cambiamento solo da un leader illuminato o dall'avvento di un improbabile governo mondiale dell’economia. Il 'potere forte' dell’economia di mercato siamo noi. Se solo impariamo ad organizzarci e a rendere più generative e ricche di senso le nostre scelte.

 
 
 

Il codice Frankestein

Post n°2929 pubblicato il 13 Febbraio 2019 da namy0000
 

…I software che hanno la capacità di apprendere e svilupparsi da soli hanno dato vita a un sistema che rischia di sfuggire al controllo degli esseri umani.

In un certo senso, abbiamo perso il controllo. Quando scriviamo il codice di un programma e l’algoritmo comincia a creare nuovi algoritmi, la cosa sfugge sempre di più al controllo umano. Il software finale è un universo di codici che nessuno capisce fino in fondo ”. Se queste parole vi sembrano agghiaccianti, è perché lo sono, visto che le preannunciate Ellen Ullman che, oltre a essere una programmatrice nota fin dagli anni Settanta, è anche una delle poche persone che scrivono cose illuminanti sul processo di codifica. “Qualcuno dice: ‘E allora Facebook? Crea algoritmi, li usa e può cambiarli’. Ma non funziona così. Una volta partiti, gli algoritmi imparano, si modificano e si gestiscono da soli. Facebook interviene ogni tanto, ma non li controlla davvero. E certi programmi non solo si gestiscono da soli: attingono a librerie software, a sistemi operativi profondi”.

Cos’è un algoritmo?

Di poche cose in questo momento si discute così spesso e con tanta passione come degli algoritmi. Ma cos’è un algoritmo? Dalla nascita di Internet, negli anni Novanta, il concetto è cambiato molto. Di base, un algoritmo è una cosa semplice: una regola che rende automatico il trattamento di un certo tipo di dati. Se succede A, allora fai B, altrimenti fai C. È la logica dell’informatica classica. Se un utente dichiara di avere 18 anni, consentigli di accedere al sito, altrimenti scrivi: “Mi dispiace, devi avere 18 anni per entrare”. I programmi informatici sono essenzialmente composti da una serie di questi algoritmi. Se ci sembra che i computer facciano miracoli è perché sono veloci, non perché sono intelligenti.

Parallelamente, negli ultimi anni, è emerso un significato più ambiguo e misterioso della parola “algoritmo”, che ormai indica qualsiasi grande sistema in grado di prendere decisioni complesse, qualsiasi mezzo per raccogliere una serie di dati in ingresso e valutarli velocemente in base a una serie di criteri (o regole). Una cosa che ha rivoluzionato alcuni settori della medicina, della scienza, dei trasporti e delle comunicazioni. Gli algoritmi hanno migliorato la nostra vita in molti modi.

Così nel 2016 ha cominciato a prendere forma una visione più sfumata degli algoritmi. Se tendiamo a parlarne in termini quasi biblici, come entità indipendenti dotate di una vita propria, è perché siamo stati spinti a vederli in questo modo. Grandi aziende come Facebook e Google hanno venduto e difeso i loro algoritmi promettendo l’oggettività, la capacità di soppesare un insieme di condizioni con distacco matematico e senza nessun coinvolgimento emotivo. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se questo uso degli algoritmi per prendere decisioni si è esteso alla concessione di mutui, cauzioni, indennità, posti nelle università.

Solo che ormai non accettiamo più così docilmente le strategie pubblicitarie per venderci questo tipo di algoritmi nel suo libro uscito nel 2016, Armi di distruzione matematica, Cathy O’Neil, un’ex ragazza prodigio della matematica, che ha lasciato Wall street per insegnare e oggi cura l’ottimo blog Mathbabe, ha dimostrato che gli algoritmi potrebbero ingigantire e rendere ancora più radicati i pregiudizi umani. D’altronde i software sono scritti in prevalenza da uomini ricchi bianchi e asiatici, e riflettono la loro mentalità. Perché un pregiudizio produca dei danni non è necessaria la malafede e, a differenza di quanto facciamo con le persone, non possiamo chiedere a un algoritmo di spiegarci perché ha preso una certa decisione. O’ Neil vorrebbe una “revisione degli algoritmi” di qualsiasi sistema influisce direttamente sul pubblico. Contro questa richiesta sensata, però, l’industria tecnologica lotterà con le unghie e con i denti, perché vende algoritmi.

La buona notizia è che la battaglia è cominciata…..

(Internazionale n. 1292 del 1 febbr. 2019).

 
 
 

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