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Esprimere la poesia nel linguaggio comune. Perché no? E nella disciplina del verso trovare non solo una molteplicità di suggerimenti formali, bensì la rispondenza a quella autodisciplina che è propria di chi scrive per comunicare. Poesia della conoscenza avevo definito nei miei temi la grande poesia, quella di Sofocle, di Orazio e di Lucrezio, prima di quella di Dante, di Leopardi, di Shakespeare, del Belli. Non che rinunciassi, come fruitore, a gustare poeti meno filosofi, come il mio grande Ariosto o i romantici francesi e tedeschi o quel Garcia Lorca che con il sangue d’Ignazio mandava in delirio un paio di generazioni di ragazze.
Mi sforzavo di leggere e di capire anche i poeti contemporanei, trovando in alcuni un certo interesse iniziale, ma stancandomi terribilmente. Né ero il solo, se la loro poesia ormai se la scrivevano, se la pubblicavano e se la leggevano da soli.
Mi chiedo ancora spesso per quale motivo la poesia sia diventata un hobby elitario, estraneo alla vita della gente. Rari i casi in cui lo sperimentalismo non mi appaia come il pretesto del disimpegno dalla fatica del comunicare e perfino da quella di contare le sillabe, necessaria a chi non ha il metro e le sue varianti nell’orecchio. Ma quasi sempre vedo, con fastidio, nella ricerca di suggestioni formali e nei conati di fetare il subcosciente la tristezza narcisistica dei figli satolli della società del benessere; le contorsioni viscerali di chi, dopo aver mangiato anche la parte dei digiuni, chiusi gli occhi alla fame dei quattro quinti dell’umanità, non ha nulla da dire e null’altro da fare che rigettare addosso al suo secolo i consumi che ha immeritatamente ingurgitato.
Allo stesso modo cercavo di capire l’arte contemporanea, indottovi da nuovi amici di famiglia come i pittori Angelo Titonel e Pino Masci e la deliziosa esperta d’arte e gallerista Lela Djokich, l’amica serba di Antonietta (la figlia Maja era l’amichetta di Lucilla); ma finivo sempre col rientrare in quell’immenso museo aperto che sono chiese e palazzi di Roma a gustarmi i Raffaello, i Michelangelo e i Caravaggio del nostro umanesimo rinascimentale.
Avida di conoscenza e di rapporti che le restituissero la cultura di cui si sentiva deprivata, Antonietta mi secondava con la modestia e l’intelligenza di chi sa di avere sempre da imparare. E imparava prestissimo. A riconoscere i macchiaioli come i buoni pezzi di carne dal macellaio e le scarpe di buona pelle nei negozi. Assai meno condiscendente, io la tiravo via dalle vetrine; ma mi lasciavo trascinare a volte nel Ghetto, quando voleva acquistare qualcosa per me nei negozi ebrei: roba buona non firmata a buon prezzo, la loro. |
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