Creato da mcalise il 13/05/2013

Civis

Discussione sulla democrazia, cittadinanza e partecipazione

 

 

Per Napoli, una metropoli non basta

Post n°136 pubblicato il 10 Gennaio 2019 da mcalise
 
Foto di mcalise

Il 14 dicembre scorso si è svolto a Napoli l’interessante incontro ”Per Napoli” con il dichiarato intento di avviare una riflessione sullo stato della città, stimolare proposte e iniziative concrete. Il vivace dibattito mi ha spinto a scrivere queste righe.

Il mio discorso prende le mosse da un assioma: qualsiasi ipotesi sul futuro di Napoli non può che essere inquadrata in un contesto più ampio: il Mezzogiorno d’Italia. Tuttavia, per non cadere nell’astrattezza che spesso caratterizza i discorsi sulla “questione meridionale”, mi limiterò ad osservare la regione di cui Napoli è capoluogo.

La Regione Campania ha quasi sei milioni di abitanti ripartiti in ben 550 Comuni la stragrande maggioranza dei quali non ha le dimensioni necessarie per poter soddisfare le esigenze dei propri cittadini. Quali siano queste dimensioni minime lo stabilisce anche il legislatore nell’articolo 15 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali” (TUEL) che recita:Salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti”. In Campania ci sono ben 422 comuni al di sotto di questa soglia.

Partendo da questa evidenza l’Ente Regione ha la possibilità di inviare un segnale concreto e importante ai suoi abitanti e al resto d’Italia, ai singolo cittadini e agli enti privati e pubblici. Un segnale, “un buon esempio” di concretezza e innovazione ponendosi come Agente innovatore indicando la frammentazione territoriale come ostacolo ad una maggiore crescita economica e sociale.

Considerazioni astratte? Niente affatto. Nel quinquennio 2014-2018 ben dieci Regioni italiane hanno semplificato la loro articolazione amministrativa-territoriale con la riduzione del numero dei loro Comuni. Complessivamente, nel periodo indicato, ben 222 comuni si sono fusi creando 93 Comuni Unici. Ciò è stato possibile grazie all’istituto della “Fusione dei Comuni” previsto dal TUEL e regolamentato con leggi successive; esso che consente a comuni limitrofi di fondersi in un Comune Unico. Alle Regioni, nel rispetto del dettato costituzionale, spetta il compito di regolare per legge le modalità d’attuazione delle Fusioni; il referendum fra le popolazioni interessate è tassativo. Le Regioni italiane hanno emanato proprie leggi specifiche, qualcuna si è limitata a regolamentare, altre hanno assunto un ruolo di stimolo prevedendo anche ulteriori agevolazioni e finanziamenti.

I principali vantaggi per il Comune unico risultato della fusione sono:

·         finanziamenti statali aggiuntivi decennali;

·         maggiori economie di scala;

·         Riduzione dei costi degli organismi rappresentativi (sindaco, assessori e consiglieri);

·         La possibilità di razionalizzare il funzionamento degli uffici e dei servizi comunali;

·         Un maggiore grado di supporto allo sviluppo e all’integrazione di politiche di qualificazione del territorio, una diversa capacità progettuale e propositiva dell’ente comunale;

·         Un’aumentata possibilità di realizzare servizi per i cittadini creando, al tempo stesso, nuove opportunità di lavoro (es.: trasporti urbani, assistenza domiciliare, …);

·         … .

 È significativo che tutto ciò stia avvenendo, con poche eccezioni, solo nel Centro-nord del Paese.

Se tali iniziative in Campania non sono discusse ed attuate non può essere frutto di una “distrazione”; la qualità della classe politica meridionale che, pur nel panorama nazionale non esaltante, riesce a distinguersi per la sua colpevole inadeguatezza.

La Fusione dei Comuni è una possibile e concreta riforma strutturale che parte dai territori; una sfida soprattutto culturale. Non è un caso che trovano maggiori adesioni nelle Regioni dove le popolazioni hanno una forte cultura solidaristica e cooperativistica.

La sua applicazione porterebbe notevoli vantaggi non solo ai Comuni interessati ma a tutta la Regione: una minore frammentazione territoriale e amministrativa. Una rete di Comuni più “robusti” ed efficienti attornierebbe le città maggiori ed il capoluogo regionale con vantaggi diffusi che è facile immaginare.

Nell’incontro citato all’inizio più interventi hanno richiamato la necessità di essere ambiziosi. Uno degli obiettivi potrebbe, a parer mio, essere quello di pungolare la Regione affinché avvii un percorso di ristrutturazione amministrativa territoriale; una riforma concreta e strutturare che non mancherebbe avere di ricadute positive “Per Napoli” e la regione tutta. Non è semplice ma credo sia obbligatorio tentare.

 
 
 

La nostra storia: la fine del Regno delle due Sicilie

Mi sembra fosse Flaiano a dire “ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato”. Affermazione quanto mai attuale. Infatti mi sembra questo l’atteggiamento di molte persone che trovando poco soddisfacente il presente, poco propensi ad impegnarsi per modificarlo, si rifugiano in un passato mitizzato alimentando favole consolatorie e rancorose nostalgie con un uso strumentale non della storia ma bensì dei suoi singoli episodi. La Storia si presta a diverse visioni che portano, mi riferisco a coloro che non sono storici, a due diversi approcci.

Il primo suggerisce la ricerca, nella storia, di ciò che possa essere utile a spiegare il presente e a costruire il futuro, nostro e della comunità di cui facciamo parte. Una storia con la sua complessità dunque che, pur non essendo maestra di vita, ci faccia riflettere e ci sproni.

Il secondo approccio ci mostra alla ricerca di un passato da mitizzare, quest’ultimo spesso stroncato da forze malvage. Una visione consolatoria che induce al vittimismo, addossa ad altri tutte le colpe, ci autoassolve e ci inchioda ad un immutabile presente.

Infatti come considerare certa pubblicistica, certe notizie che affollano il web che ci descrivono, mitizzandola, la monarchia borbonica vittima dell’aggressione piemontese. Una narrazione che si appiglia o ai primati o a singoli episodi spesso tragici.

I primati isolati, fine a se stessi, non servono a nulla se non diventano normalità e rimangono eccezioni. Per esempio: inaugurare la prima ferrovia e poi non sviluppare una rete ferroviaria adeguata serve a poco. Così si potrebbe dire di altri primati veri o presunti.

Enfatizzare singoli episodi, per esempio la strage di Pontelandolfo e Casalduni (BN), senza contestualizzarli non da una idea precisa del processo storico da cui sono estratti. La storia è tragedia e la strage citata ne è un esempio ma lo sono altresì i moti del Cilento del 1828 che videro una feroce repressione e la distruzione della cittadina di Bosco da parte delle truppe borboniche. Non si tratta di un orribile comparazione di lutti ma di ribadire che le tragedie della storia non hanno visto, purtroppo, popoli, regni, stati innocenti.

Una lettura seria e attenta della fine del Regno delle due Sicilie ci dice che esso è imploso: più che Garibaldi ha potuto l’inettitudine dei sovrani borbonici.

Incapaci di unire veramente il loro regno: città/campagna, Sicilia/meridione continentale.

Incapaci di circondarsi di una burocrazia efficiente: hanno promosso funzionari solo perché fedeli e provocato l’esilio delle migliori intelligenze.

Incapaci di creare un esercito: generali vecchi, ricorso ad ufficiali e, addirittura, a truppe straniere.

Incapaci, al contrario di altri sovrani europei, di comprendere i “tempi nuovi”: Costituzioni concesse e rinnegate.

Incapaci di condurre una politica di alleanze: un regime che, con la sola eccezione del Papa, era isolato a livello internazionale.

Questa è, in estrema sintesi, la spiegazione della fine del Regno delle due Sicilie: una dinastia incapace di creare uno Stato nazionale come in Francia, in Inghilterra, nel Piemonte.

Allora meno male che l’unificazione c’è stata. Processo fortemente voluto da tanti patrioti ma imprevisto, improvviso e, anche per questo, denso di errori. È giusto ricordare errori e violenze senza spacciarle per novità e, soprattutto, senza trarre da singoli episodi spunti per argomenti antiunitari. Riflettiamo tutti, i neoborbonici in particolare, cosa sarebbe oggi, visione ipotetica e anacronistica, un Mezzogiorno completamente autonomo. Pensate: ancor oggi non emergono forze politiche locali capaci di porsi come classe dirigente, non si intravede una classe imprenditoriale capace di alimentare uno sviluppo endogeno. Ovviamente non mancano le eccezioni, appunto! Uno sguardo alla semplice cronaca, meglio ancora alle statistiche comparative fra la Regioni e Comuni meridionali con quelle del centro-nord dovrebbe spegnere ogni velleità autonomistica.

Sia chiaro: nessun evento storico deve essere taciuto e sicuramente la storiografia risorgimentale, quella affidata agli storici di professione, nulla tace. C’è stata una storiografia filo sabauda, ma è finita molti decenni orsono.

Una cosa è la narrazione di un fatto, altro è la sua interpretazione che non può decontestualizzarlo, ignorarne la complessità e la sua collocazione in un processo di lungo periodo. Non possiamo non vedere un uso pubblico, politico della storia: ossia il tentativo di accreditare una versione del passato che sia politicamente utile nel presente.

Tutto ciò dovrebbe indurre tutti ad atteggiamenti costruttivi, richiamare le responsabilità individuali e collettive per una consapevolezza che è presupposto indispensabile per rendere i meridionali protagonisti, non isolati, del loro destino. Non lasciamo che la storia sia utilizzata come alibi, per alleviare o mascherare i problemi attuali; rintuzziamo il tentativo di far restare il nostro sguardo fisso all’indietro anziché rivolto verso il futuro.

 
 
 

Elezioni amministrative 2017. Il futuro dell’Italia è nelle liste civiche?

Con i ballottaggi si sono concluse le elezioni amministrative del 11/25 giugno 2017. Il dato più evidente è la sconfitta del PD che sembra aver imboccato una strada in discesa ma emerge altresì un dato più strutturale, la conferma di una tendenza in atto da anni: la scomparsa, nelle elezioni locali, dei partiti nazionali sostituiti dalle liste civiche. Il dato risulta particolarmente marcato nei comuni con una popolazione fino a quindicimila abitanti.

A titolo di esempio, e a conferma di questo fenomeno nazionale, consideriamo alcuni dati della Campania: nella regione si è votato in 88 Comuni e solo una decina dei sindaci eletti sono espressione di coalizioni che comprendono i partiti nazionali. La crisi di quest’ultimi ha avviato un movimento centrifugo che esalta i localismi ma essi non sembrano preoccuparsene e badano soprattutto ad assicurarsi i pacchetti di voti che i notabili locali procurano in occasione di elezioni regionali e politiche. Risulta paradossale che, in alcune località, si scontrino liste i cui principali esponenti aderiscono allo stesso partito nazionale, e non mancano politici regionali e nazionali che si prodigano per sostenere una lista civica. Questi comportamenti dovrebbero essere considerati autolesionistici, come segare il ramo su cui si è seduti. È evidente, direi naturale, che qualsiasi formazione si candidi a elezioni comunali ponga i problemi locali in primissimo piano; il punto è se quest’ultimi possano essere inquadrati e risolti  solo dall’ente locale o se la loro reale soluzione non richieda progetti con un dimensione territoriale più ampia. Ancora: se le risorse messe a disposizione dall’Europa, dal Governo o dalla Regione debbano essere oggetto di contesa o investite con un’equa e lungimirante concertazione.

Indubbiamente i partiti nazionali hanno, o dovrebbero avere, una maggiore capacità di inquadrare problemi e soluzioni in un contesto più ampio e ,oltretutto, anche dal punto di vista simbolico, contribuiscono ad una maggiore coesione nazionale.

È difficile spiegare il generale disinteresse per il fenomeno che potrà essere diversamente considerato ma di cui difficilmente si potrà affermare la positività. Infatti se da una parte la rinuncia dei partiti appare poco lungimirante, d’altra parte è arduo ritenere che una comunità di poche migliaia di persone pensi di trovare esclusivamente in se stessa le risorse, la progettualità e gli strumenti necessari per ricercare il benessere collettivo.

Al sud in particolare hanno trovato rinnovato vigore i notabili che, da l’unità in poi, hanno gestito il potere locale basandosi sul familismo e le clientele; un “eterno passato” che sopravvive pressoché incontrastato. Un notabilato che ha spesso tenuto un atteggiamento questuante che non ha mai prodotto benefici duraturi per le popolazioni così mortificate.

Le liste civiche, oltretutto, possono contare su un “parco” molto ampio e non sono pochi a pensare che quasi ottomila comuni sono troppi! Rappresentano un peso, non solo economico, che non possiamo permetterci. Questa frammentazione, che è territoriale, istituzionale, amministrativa, politica e sociale, dovrebbe essere una delle principali preoccupazioni di una politica seria e lungimirante.

Gli strumenti per porvi rimedio ci sono; il più importante, a mio parere, è l’istituto della Fusione dei Comuni (articolo 15 del Decreto Legislativo 267/2000 TUEL “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”). Una soluzione strutturale che, in alcune parti d’Italia, incomincia a farsi strada. Si consideri che l’85% dei Comuni ha meno di 10.000 abitanti e ben il 25% ne ha meno di 1000!

In mancanza di un energico risveglio continueremo a vivere il paradosso di avere, da una parte, i partiti nazionali depotenziati e distanti dai bisogni reali dei cittadini e, d’altra parte, le liste civiche che nel localismo miope trovano i motivi della loro esistenza. Fra queste due dimensioni vi sono i problemi veri: il lavoro, le migrazioni, la lotta alla povertà, le reti infrastrutturali, la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, ecc. ecc.. Problemi seri ed urgenti che non si affrontano alimentando questo movimento centrifugo di liste civiche di ogni colore, in un gran calderone dove prosperano populismo, localismo e improvvisazione. Tutti sparpagliati verso le rispettive mete.

Un orizzonte ristretto che non aiuta, anzi, è il contrario di ciò che serve per governare la complessità in cui viviamo. Questa frammentazione, non solo politica,  costituisce un fardello che pesa e rende oltremodo incerto il futuro del nostro Paese.

 
 
 

A 50 anni da Cima Vallona: “che sappiano loro che sono partiti che noi tutti noi siam rimasti feriti”

Post n°133 pubblicato il 23 Giugno 2017 da mcalise
 

Francesco Gentile ha 37 anni, nasce “per caso”, come accade ai figli dei militari, a Udine da una famiglia napoletana di origine; Francesco, Franco per gli intimi, è stato allievo della Nunziatella.Anche il 25 giugno del 1967 è domenica e Franco, di primo mattino, nella sua casa di Belluno, si prepara per una gita con la famiglia. Trilla il telefono: c’è stato un attentato. Franco è Capitano dei Carabinieri, non esita, corre in caserma e al comando dei suoi uomini si reca, in elicottero, sul luogo dell’attentato. I terroristi sudtirolesi hanno fatto saltare un traliccio, c’è una vittima: l’alpino Armando Piva. Il capitano Gentile, con i suoi uomini, ispeziona la zona quando una mina antiuomo, subdolamente mimetizzata, esplode uccidendo lui, il sottotenente Mario Di Lecce, il sergente Olivo Dordi. Così sono quattro le eroiche vittime del vile attentato di Cima Vallona.Il capitano Francesco Gentile sarà insignito della medaglia d’oro al valor militare, alla memoria.Si unisce, con i suoi compagni di sventura, ai tanti, uomini e donne, che prima e dopo di loro, non in tempo di guerra ma in tempo di pace hanno rischiato e dato la loro vita per difendere, tutelare tutti noi, per garantirci una convivenza civile.Perché ricordare oggi, dopo cinquant’anni, quei tragici avvenimenti, quelle vittime?Certo ha un senso per i famigliari, per gli amici, per i colleghi dell’Arma; ma, io credo, lo debba avere per tutti noi cittadini italiani, essenzialmente per tre motivi.Il primo. Perché la memoria di quei fatti ci aiuta a comprendere meglio fenomeni attuali che, specialmente ai giovani, possono apparire senza precedenti. L’estremismo terroristico, nelle sue diversissime forme e motivazioni, ha avuto le sue manifestazioni in tutti i tempi, a tutte le latitudini ed ha visto come violenti protagonisti individui di tutte le fedi, di tutte le razze. La memoria ci aiuta ad evitare pericolose semplificazioni.Rievocando quegli eventi, è il secondo motivo, diamo una risposta, certo parziale, al senso di giustizia che dovrebbe accompagnarci come individui e come membri della medesima collettività: la Patria italiana. Rispetto e ricordo riconoscente per chi per essa ha lavorato, si è sacrificato e per i tanti che hanno dato la propria vita. Patria è una parola, un’idea da tempo accantonata per essere stata strumentalmente utilizzata da ciechi nazionalismi, da ideologie fasciste. Oggi, credo, dovremmo rimpossessarcene, senza retorica, per superare quella debolezza identitaria che è alla radice di tanti nostri mali. Infatti si ha l’impressione di vivere in una società spappolata dove prendono sempre più vigore gli individualismi e i localismi, certe ricorrenze, certe doverose rimembranza dovrebbero aiutarci ad osservare le cose nella loro giusta dimensione.Ultimo motivo, non meno importante. Quell’esempio dovrebbe essere, uno stimolo al civismo. Viviamo tempi difficili (pare che tempi facili non siano mai esistiti); ma se non partiamo da zero lo dobbiamo anche al lavoro, al sacrificio di tanti, lo dobbiamo anche a coloro che a Cima Vallona, hanno dato la vita per offrire a tutti noi un’esistenza migliore, più sicura da tanti punti di vista. Tanto ed estremo sacrificio dovrebbe farci arrossire rispetto alle nostre piccole titubanze e spingerci ad una maggiore attenzione, una maggiore responsabilità nell’impegno civico. E allora ripeto “Portategli il vostro sincero rimpianto, portategli il vostro ricordo soltanto, che sappiano loro che sono partiti che noi tutti noi siam rimasti feriti” (*).(*) Dalla canzone “Cima Vallona” scritta da Francesco Guccini e cantata da Caterina Caselli

 
 
 

Sapri, elezioni amministrative. La mutazione di Sapridemocratica

L’undici giugno, anche a Sapri, vi saranno le elezioni amministrative. L’amministrazione attuale sembra voglia tornare in campo rispolverando la lista Sapridemocratica (SD) con cui ha vinto le precedenti elezioni del 2012.

Il termine rispolverare è giustificato dalla scomparsa di SD dalla vita pubblica saprese dopo la vittoria elettorale. Con il suo ritorno in campo si sancisce definitivamente la mutazione avvenuta da associazione/lista civica, propostasi con un progetto di cambiamento disatteso e tradito, a cartello elettorale imbastito a poche settimane dal voto. Se qualcuno, in buona fede ma ingenuamente, ha coltivato l’illusione di un ripensamento oggi deve prender atto, meglio tardi che mai, di quanto siano stati usati strumentalmente i propositi di cambiamento dell’originaria SD.

I cittadini dovrebbero porsi alcune domande. Perché l’associazione SD non è sopravvissuta alle elezioni 2012? Quali le cause del suo fallimento? Perché molti dei suoi componenti, eletti e non, si sono eclissati senza dare conto del loro comportamento? Perché gli eletti, sindaco in testa, hanno abbandonato il progetto SD?

Il sindaco Giuseppe Del Medico si è rinchiuso in quella “torre d’avorio” che, giustamente rimproverava al suo storico avversario. L’azione amministrativa, ovviamente non priva di aspetti positivi, potrebbe essere considerata il frutto del programma di qualsiasi lista civica (esempio “Insieme per Sapri”) ma non di SD che aveva proposto una visione più lungimirante ed ambiziosa e per questo foriera di cambiamenti effettivi e duraturi nella vita saprese.

Lo scostamento fra l’impegno preso e quanto realizzato emerge dalla lettura dei documenti di SD: “Un modello di sviluppo economico e sociale per Sapri” (linee guida), il programma elettorale e il codice etico.

Perché è stato disatteso l’impegno di promuovere la partecipazione di tutti i cittadini?

Come dimostra anche l’iniziativa “Cittadini in Comune” del 12-4-2013; promessa con cadenza trimestrale e mai ripetuta, un impegno disatteso senza dare alcuna pubblica e doverosa giustificazione. Una prova di come, nei fatti, il sindaco sottovaluti i propri concittadini, la loro dignità e memoria.

L’attivismo di fine mandato ne è un ulteriore riprova e dovrebbe risultare sospetto ai più accorti; il principio rivendicato è stato, in passato, esplicitato così: “In politica: in una settimana cambia tutto”. Un’altra testimonianza di come poco si valutino i propri concittadini.

Ma queste sono solo alcune delle domande possibili.

Oggi, facendo leva sull’emotività, si propone un “cambio di stagione” come si trattasse di tirar fuori dall’armadio le vesti appropriate alla nuova tornata elettorale. Il tentativo di riproporsi nascondendo il passato, anche recente, è poco credibile.

Inoltre sorgono anche dubbi di liceità: infatti si utilizza un nome, un simbolo di una associazione regolarmente registrata (Sala Consilina 27-6-2012) senza che il suo Comitato direttivo sia stato mai convocato soprattutto a causa dell’inattivo presidente Raffaele Grisolia. Il rispolvero e l’esibizione di quest’ultimo per l’attuale campagna non risolve, anzi evidenzia ancor più l’opacità dei comportamenti messi in atto.

Abbiamo assistito, e tuttora assistiamo, alla completa mutazione di SD; certo non sarà un cartello elettorale a resuscitare esperienze che non hanno alcun sostegno né ideale né progettuale. Credo che proprio perciò sia necessario un atto di onestà intellettuale, un sussulto da parte di coloro che nel progetto SD hanno sinceramente creduto; occorre non avallare questa mutazione, questa involuzione ormai compiuta. Ciascuno sia custode delle proprie idee, dei propri valori e della propria dignità.

 
 
 

Salerno, elezioni amministrative 2017: un torneo di fantacalcio?

Ad oggi non è stata fissata la data delle elezioni amministrative 2017 che, comunque, dovrà collocarsi fra il 15 aprile ed il 15 giugno. Nella provincia di Salerno i Comuni interessati sono 32 di cui 4 con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Delle amministrazioni uscenti 4 sono commissariate, le rimanenti sono espressione di liste civiche e che solo in un caso (Agropoli) sono alleate con partiti nazionali. Quindi una prevalenza di liste civiche che si riproporrà nel voto amministrativo ormai prossimo.

È arduo credere che liste civiche possano esprimere la progettualità, reperire le risorse e mettere in campo gli strumenti necessari per ricercare il benessere collettivo. Gli amministratori comunali spesso adottano la “politica dei due forni”: un rapporto con i politici regionali o nazionali che si basa sullo scambio di voti con provvedimenti favorevoli al proprio territorio e che garantisca a loro, personalmente, un futuro politico. Nulla di nuovo, come se non vi fosse una storia ad attestare che la pratica non ha portato vantaggi consistenti e duraturi alle collettività che l’hanno permessa. Sicuramente se ne sono avvantaggiati i suoi artefici: i notabili locali che gestiscono il potere basandosi sul familismo e le clientele; creano le liste civiche, ne determinano gli obiettivi, i programmi, scelgono i candidati fra i loro fedeli. Così si aumenta il populismo e l’unico valore premiante è la fedeltà a discapito del merito. Spesso, più che di liste civiche, si dovrebbe parlare di cartelli elettorali che nascono o rinascono alla vigilia dalla scadenza elettorale. In poche settimane si mette in piedi un programma ed una squadra che già sul nascere può contare sul voto dei fedelissimi.

La crisi demografica non aiuta; assistiamo a un calo della natalità, alla continua emigrazione giovanile, all’invecchiamento della popolazione. Tutti fattori che determinano un elettorato passivo vecchio, purtroppo non solo anagraficamente.

Un discorso simile può riproporsi per l’elettorato attivo, che se è attivo lo è solo in prossimità delle scadenze elettorali. In questa situazione è assurdo parlare di voto di opinione; si tratta di un voto di appartenenza, ma non ad una idealità bensì alla propria fazione. Tanti cittadini non hanno alcun interesse per l’impegno civico e per la partecipazione; credono che il loro unico dovere sia delegare con il voto, una scelta a cui si presumono preparati nonostante il loro disimpegno.

In molti Comuni, è il caso di Sapri, sembra di assistere ad un torneo di fantacalcio: pochissimi gruppi si contendono le figurine (i candidati) nella speranza di realizzare una squadra capace di raccogliere voti; le candidate donne sono particolarmente ricercate. Di tutto ciò si avvertono solo le chiacchiere, il sentito dire; tutto si svolge in modo opaco. Persino l’amministrazione uscente non si è presentata ai cittadini né per un bilancio del suo mandato né per ricandidarsi o meno alle imminenti elezioni; neppure il sindaco uscente ha sciolto il nodo della sua eventuale ricandidatura. Non si tratta di eccezioni. Sono comportamenti diffusi dovuti ad una mentalità vecchia solo appena velata da una modernità apparente che provoca ed è provocata dall’assenza di qualsiasi forma di associazionismo civico che aggreghi i cittadini attorno ad obiettivi comuni, che li alleni al dialogo e al confronto.

La democrazia non è sentita come presupposto imprescindibile per uno sviluppo socio-economico ma come uno strumento di cui si può fare a meno, si può barattarla con un piatto di lenticchie se il risultato immediato e individuale può sembrare addirittura positivo. Da ciò la fortuna di tanti leader casarecci, dei micronotabili che al localismo devono la loro sopravvivenza. Ma oggi che le sfide sono sempre più globali e complesse, le opportunità più contese e difficili da cogliere, avanzare sparpagliati sembra il modo migliore per soccombere. Subiamo una politica con il respiro corto, che coglie le opportunità solo se spendibili elettoralmente e non pongono in discussione i poteri e le abitudini consolidate. Purtroppo questa realtà, pure evidente, non suscita quella civile, duratura, forte, razionale e necessaria reazione.

 
 
 

Sapri, elezioni amministrative 2017

Post n°130 pubblicato il 18 Marzo 2017 da mcalise
 

Le elezioni amministrative  sono previste agli inizi di giugno; mancano meno di tre mesi e a Sapri tutto tace; nemmeno gli eletti in carica manifestano le loro intenzioni. L’imbarazzo è evidente: la lista che ha espresso l’attuale amministrazione, “Sapri democratica” con le sue idee e i suoi progetti, è stata affossata da Giuseppe Del Medico a risultato elettorale conseguito nel 2012; certo ora non potrà credibilmente resuscitarla e pare che fatichi a sostituire i giovani che lo hanno lasciato. Gli impegni che l’attuale sindaco aveva preso possono essere divisi in due categorie:

  • quelli che, per il loro mantenimento, richiedevano fondi (denari)
  • e quelli, a costo zero, che richiedevano capacità e soprattutto una sincera volontà.

Mentre per quelli della prima categoria qualcosa è stato fatto nulla è stato nemmeno seriamente tentato per quelli della seconda. Mettere mano al cambiamento sociale, restituire dignità alla cittadinanza con la partecipazione; cose che non richiedevano fondi ma, primariamente, un sincero e serio impegno. Era un impegno preso, scritto nei documenti SD; ma questa volontà è mancata come è testimoniato anche dall’abbandono, sul nascere, dell’iniziativa “Cittadini in Comune”.

Giuseppe Del Medico si è rinchiuso in quella “torre d’avorio” che, giustamente, rimproverava al suo “nemico” storico; ha messo in pratica una sua convinzione: “in politica, in una settimana cambia tutto”. Così si spiega l’iperattivismo degli ultimi mesi del mandato; valutando poco la memoria e il discernimento dei suoi concittadini.

Purtroppo non si intravede alcuna iniziativa, le dichiarazioni d’amore per il proprio paese si infrangono timidamente si fronte alla necessità d’impegnarsi, di far sentire la propria voce.

Occorrerebbe almeno un’alternativa positiva, ponderata, credibile ed organizzata; non sono cose che si improvvisano in pochi mesi, tantomeno in poche settimane.

Per completezza devo citare la presenza del gruppo “Sapri  sono anche io – Sapri cantiere aperto – Rinascita Acquamedia – Sapri cambia” ma la buona volontà non basta; non mi sembra che abbia i requisiti minimi citati per un’alternativa.

Forse bisogna rassegnarsi al vecchio: delegare, affidarsi completamente a “l’uomo della Provvidenza”; come si fa da sempre. Purtroppo se non si forma una consistente cittadinanza attiva ciò sarà inevitabile. 

 
 
 

Sapri: cosa occorre al paese

La mia presente riflessione non pretende di indicare alcuna ricetta; ritengo che nessun individuo, da solo, possa produrre seriamente soluzioni, e relative priorità, per una collettività. Piuttosto credo di poter indicare un metodo, l’inizio di un percorso che se imboccato da persone di buona volontà, convinte che da solo nessuno si salva, potrebbe portare a risultati concreti.

Occorre partire da un’analisi, seppur sintetica, dell’attuale situazione.

Sapri è un paese triste, con una vita sociale, culturale quasi inesistente, con un diffuso malessere economico e sociale. Il livello di partecipazione civica (non mi riferisco al pubblico anch’esso scarso) è pressoché nullo. L’immagine della città, la sua pulizia, il suo decoro urbano rispecchia la scarsa attenzione collettiva al bene comune.

In questo quadro, con apparente contradizione, non manca un certo associazionismo. Associazioni spesso “personali” e con una vita effimera; organizzano passeggiate, a piedi o in pullman, erezione di statue, stesura di fili, eventi, … . Ma, purtroppo, è assente l’associazionismo civico che organizzi e stimoli la cittadinanza attiva. La vita politico/amministrativa, solitamente assonnata, diviene uno scontro fra fazioni nell’imminenza delle elezioni,. Le appartenenze hanno il sopravvento sulle idee. Potrei continuare ma credo che tanti siano consapevoli dell’arretratezza culturale, sociale ed economica del territorio.

Ma allora quali le cause? Di chi è la colpa di tutto ciò?

Molti sapresi, individualmente o associati, pensano che la colpa sia degli altri, che loro non fanno parte delle cause. Chi sporca la spiaggia? Sono “chille e fore’”. Chi è responsabile della situazione politico/amministrativa? La fazione avversa o “nemici” lontani.

In una società sempre più complessa e con risorse scarse i problemi si risolvono con il concorso dei più e ciò si potrà ottenere solo se tutti hanno la dignità di protagonisti, ossia di cittadini. Insomma si tratta di creare una coesione sociale che, al momento, è perlomeno carente.

Chi deve farlo? La risposta è semplice: tutti! Ma, realisticamente, occorre che qualcuno faccia da battistrada, rompa il silenzio, non tema di criticare ed essere criticato. Esiste un ceto medio, persone di discreta cultura e con una posizione economica tranquilla; sono loro che, a mio avviso, sono venuti meno e sono loro che dovrebbero intraprendere un’iniziativa che coinvolga tutti ma che difficilmente potrà avere come primi promotori i disoccupati spesso sotto ricatto o coloro che vivono nell’indigenza.

E come? Realisticamente si inizia in pochi ma con l’obiettivo primario di coinvolgere più cittadini possibile ; incontrarsi, organizzarsi, discutere senza temere di dividersi e confrontarsi; ma sulle idee, sui progetti che servono al paese.

Basta con atteggiamenti sterili: lamenti, mielose dichiarazioni d’amore, rifugiarsi i n un passato mitizzato, cantare le bellezze naturali come fossero un nostro merito. Nascondere gli aspetti negativi della nostra realtà è un atteggiamento conservatore che provoca immobilismo.

E immobilismo e conservatorismo impediscono di afferrare opportunità che pur esistono, di trarre insegnamento dall’esperienze altrui.

Propongo discontinuità e continuità come parole chiave. Discontinuità con l’abbandono di vecchie logiche localistiche, familistiche e clientelari, continuità nell’intraprendere e mantenere un dialogo organizzato e produttivo. Il declino è nelle nostre menti prima che nelle cose.

 
 
 

Superare la piaga della disoccupazione, la ricetta di De Luca: assumete!

La disoccupazione è un problema molto serio; anzi è il problema. Un dramma sociale prima che economico, essa è avvilente per chi la subisce ed è, al tempo stesso, effetto e causa di un impoverimento collettivo. In Campania i giovani di età fra 15-24 anni sono in totale700.000, il tasso di disoccupazione giovanile è del 53% (ISTAT indicatori territoriali 2015). Dati terribili.

Il problema, per dimensioni e gravità, richiede un approccio serio, una opportuna progettualità che preceda qualsiasi annuncio che possa alimentare illusioni.

Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania, ha chiesto, a più riprese, 200mila assunzioni nella Pubblica amministrazione.

Chiara la reazione del ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda: "Sono contrario a dare dei numeri. Non si possono promettere 200 mila posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Sono invece d'accordo sulla necessità di interventi pubblici nel Mezzogiorno. Al Sud serve lavoro vero, no a misure sociali di questo tipo".

È difficile pretendere una valutazione pacata da chi, disperato, è senza lavoro. Tuttavia è indispensabile, per evitare cocenti delusioni, almeno saggiare la credibilità della proposta di De Luca. Essa è più grandiosa della promessa fatta da Berlusconi agli italiani di un milione di posti di lavoro; infatti si tratta di 200mila posti solo in Campania! Come si regoleranno, eventualmente, le altre Regioni possiamo solo immaginarlo.

Sorgono tante le domande per le quali, al momento, non è prevista risposta; eccone alcune.

Quali sono gli enti della PA che dovrebbero assumere? E per fare cosa, ossia a quali compiti sarebbero destinati i neo assunti? Duecentomila posti solo in Campania o solo per i campani? Per quanto tempo e con quali costi?

Insomma la proposta, che fa sicuramente leva sulla disperazione dei disoccupati, ripropone in sostanza una ricetta vecchia; quella dei tempi passati dove le assunzioni nella PA e le pensioni fungevano da ammortizzatori sociali e alimentavano contemporaneamente serbatoi di voti e spesa pubblica. Una ricetta che ha contribuito a generare l’attuale grave situazione del Paese; un ritorno al passato per mascherare l’incapacità di progettare un concreto futuro.

Gustavo Zagrebelsky ha insegnato che la qualità delle parole è importante: ” ... Le parole non devono essere ingannatrici, il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo ... ” Le parole usate da De Luca, parlando dal palco di Città della Scienza, sono: "rigore ma anche coraggio, creatività, innovazione” (La Repubblica 10/2/ 2017).

Le sottoscriviamo e gli daremmo anche ragione se rispecchiassero comportamenti coerenti; ma una infornata improbabile di 200mila assunzioni non finalizzate va nella direzione opposta.

Alla Campania, al meridione tutto, occorre altro. Occorre una classe politica che guardi al futuro valorizzandone il territorio e, soprattutto, il capitale umano. Bisognerebbe puntare su pochi obiettivi dando la priorità a ricerca e innovazione; quindi creare un ambiente favorevole ad attirare, far nascere e rimanere al sud aziende innovative. Occorrerebbe una classe dirigente che, appunto, pratichi il rigore, il coraggio, la creatività, l’innovazione; ma davvero!

 

 
 
 

Il giorno della memoria. L’arte antidoto contro l’indifferenza

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale che il 27 gennaio di ogni anno commemora le vittime dell'Olocausto. Molte sono le iniziative per ricordare quei terribili eventi, mi sembra che tutte abbiano un filo conduttore: non dimenticare può accadere di nuovo.

Ma era già accaduto, agli inizi del novecento, con il genocidio degli armeni; ce lo ha ricordato Antonia Arslan nel suo commovente libro “La masseria delle allodole”.

Altri lo hanno seguito: nel luglio 1995, a Srebrenica, migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi dalle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic.

Sono solo esempi; qualsiasi elencazione sarebbe ingiustamente incompleta, viziata anche dal nostro eurocentrismo. A volte condivido il pessimismo che Francesco Guccini esprimeva in “Auschwitz”, intensa canzone uscita nel 1966: “Io chiedo quando sarà che l'uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare ”.

In queste ricorrenze la retorica è in agguato; un modo per evitarla è legare il passato con il presente ed il futuro. Ossia partire dalla storia per meglio agire nel presente e per progettare il futuro.

La mia riflessione odierna ha preso le mosse dalla visione de “Il giardino dei Finzi-Contini” trasmesso, pochi giorni orsono, su Rai Storia. Il film, tratto dal libro di Giorgio Bassani, narra la storia di alcuni giovani ebrei ferraresi e la tragica fine dei Finzi-Contini all’epoca delle leggi razziali fasciste. La leggerezza calviniana con cui il regista, Vittorio De Sica, dirige il film fa risaltare ancor più “la banalità del male”.

Seppur operazione ardua, comunque arbitraria, l’estrazione di spezzoni di dialogo dall’opera mi consente di evidenziare particolarmente la sua attualità. Due frasi di Giorgio, il coprotagonista.

La prima. Discute col padre, ebreo fascista illuso, delle persecuzioni in atto e gli dice: “ma stiamo stati zitti quando non toccava a noi”.

La seconda. Al direttore della biblioteca comunale che lo espelle sostenendo che è “costretto” risponde amareggiato: ”lei ha famiglia, tutta l’Italia ha famiglia”.

Ecco che ritroviamo il clima attuale, gli atteggiamenti nei confronti degli altri, degli immigrati in particolare. È l’indifferenza, il silenzio dei più, che dà spazio alla inumanità.

Ancor oggi ci commuovono le storie dei nostri emigranti vittime dell’indifferenza altrui (toccava a noi, ai nostri), ora tocca ad altri e la nostra indifferenza (non tocca a noi) li rende vittime dell’inumanità di una, per ora, minoranza. E la seconda frase si collega ricordandoci l’italico “tengo famiglia”. Aveva ragione Piero Gobetti sostenendo che il fascismo ha contribuito fortemente a modellare il carattere degli italiani: “Ma il fascismo è stato qualcosa di più; é stato l'autobiografia della nazione” (Rivoluzione liberale n. 34 del 1922).

Non dobbiamo dimenticare che lo spirito discriminatorio si diffonde come un veleno, se l’alimentiamo quando colpisce altri dovremmo anche pensare che potremo, un giorno, esserne vittime.

Ma la cosa più importante è non perdere la nostra umanità, non rinunciare ai nostri valori morali e civili; la Storia, pur non essendo maestra di vita, manda segnali utili che emergono anche nelle opere di tanti artisti. Film, libri, canzoni, l’arte nelle sue molteplici forme stimola i nostri sentimenti, le nostre riflessioni, allarga gli orizzonti. Le opere citate ne sono solo un piccolo esempio.

In conclusione un auspicio. Il Giorno della Memoria non sia occasione di effimeri eventi ma segni una tappa, un punto di arrivo e di ripartenza, per un check-up dei nostri sentimenti individuali e collettivi, dello stato della nostra civiltà.

I riferimenti da cui partire, a mio avviso, possono essere tre semplici, grandi idee fra loro connesse ed oggi un po’ appannate: Liberté, Égalité, Fraternité. Una base minima alla quale ancorarsi per far divenire la nostra “non-indifferenza” palpabile e diffusa quotidianità.

 
 
 

Il Paese invecchia, quale ruolo per i pensionati?

È noto che, in Italia, la popolazione sta invecchiando: le persone di 65 anni ed oltre che nel 2005 erano il 19,5% della popolazione oggi sono il 22% e, contemporaneamente, si procrea di meno.

Ciò comporta un aumento della pressione sia sul sistema pensionistico sia sul sistema sanitario. Si vive di più ed in condizioni di salute migliori per cui non sono pochi gli anziani che possono condurre una vita attiva, soddisfacente.

È facile prevedere che i giovani non potranno usufruire dell’attuale welfare e ciò dovrebbe imporre ai pensionati l’obbligo morale di essere socialmente impegnati, attivi nelle loro comunità.

È difficile fare un discorso generalizzato: nella categoria rientrano soggetti con situazioni economiche diverse; ci sono pensioni che non garantiscono neanche la sussistenza e ci sono le cosiddette pensioni d’oro. È giusto ricordare che molti pensionati, specialmente nel centro-nord, sono impegnati in attività di volontariato e spesso, in tutta l’Italia, sostengono figli e nipoti. Tutto ciò non può far pensare che un buon familismo, naturalmente temporaneo, possa supplire all’esigenza di garantire alle future generazioni, almeno in parte, quel welfare di cui i pensionati attuali usufruiscono ma che per il futuro è a rischio.

Purtroppo al sud, specialmente nella provincia, una diffusa carenza di civismo fa prevalere una certa indolenza che sembra dire “io il mio l’ho già fatto, cos’altro volete da me”; una chiusura, una riluttanza ad impegnarsi per qualcosa che non ci tocchi direttamente.

Per i sindacati di categoria vale quanto ha scritto Alessandro Manzoni “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Ossia hanno rinunciato a quella funzione aggregante/formativa che era tipica dei corpi intermedi, a mantenere vivo o a creare uno spirito civico; le loro articolazioni territoriali si dedicano perlopiù a compiti burocratici, all’assistenza nelle pratiche fiscali , previdenziali e sanitarie.

Eppure l’apporto dei pensionati alla vita civile potrebbe essere fondamentale giacché essi vantano una posizione economica, probabilmente modesta, ma sicura. Potrebbero far sentire liberamente la loro voce in ambienti fortemente conservativi, dove la critica è malvista e il lavoro precario, più che altrove, diviene strumento di ricatto.

Certo toccherebbe soprattutto ai giovani attivarsi per garantire a loro stessi un futuro almeno vivibile ma, sovente, sono bloccati dal timore e dalla sfiducia. Al sud per loro l’alternativa all’emigrazione consiste in una “fatica” precaria che li rende ricattabili; spesso diventano comparse in mano al notabile locale. In tale contesto i pensionati potrebbero avere un ruolo fondamentale tutelando i giovani, garantendo loro spazi democratici, denunciando inefficienze, soprusi e strumentalizzazioni. Certo non è facile vincere la pigrizia, informarsi, impegnarsi e organizzarsi ma i miei coetanei potrebbero orgogliosamente essere protagonisti nei loro territori sostenendo non solo le proprie esigenze ma anche quelle generali della collettività.

L’impegno gioverebbe anche la loro salute, al corpo e, soprattutto, alla mente; perciò desidero concludere con una frase di Marcello Marchesi: “L'importante è che la morte ci trovi vivi”.

 

 
 
 

Un’ipotesi di Fusione dei Comuni nel Cilento

Da tempo la Fusione dei Comuni (D. Lgs. n. 267 del 2000 TUEL, Art. 15) rappresenta un modo per affrontare la crisi persistente e garantire un futuro migliore ai cittadini. È ormai noto che si tratta di una opportunità concreta, peraltro finanziata, che è colta solo dai Comuni del centro-nord d’Italia. Allora, senza voler dettare ricette, voglio abbozzare un ipotesi che possa essere d’esempio e base di discussione per i cittadini cilentani.

Ho considerato tre comuni limitrofi: Sapri, Torraca e Tortorella. Perché questi Comuni? È una scelta arbitraria, in effetti potevano essere altri, ma questi, oltre a essere limitrofi, hanno, a mio avviso, caratteristiche complementari e non concorrenti (es.: mare/collina).

Prendiamo in considerazione i dati della tabella seguente.

 

Sapri

Torraca

Tortorella

Popolazione 2016

6.770

1.263

523

Superfice kmq.

14,20

16,01

34,22

Densità abitanti/kmq. 2016

477

79

15

Indice di vecchiaia 2016

191,9

166,1

303,4

Variazione popolazione 2001/2016

-265

39

-79

Saldo naturale 2015

-29

-1

-9

 Le differenze di superfice e densità abitativa già suggeriscono la necessità di un riequilibrio territoriale che potrebbe avvantaggiare tutti. Torraca e Tortorella potrebbero sfruttare (con prudenza e lungimiranza) la loro estensione territoriale e trasformare la scarsa densità abitativa in una opportunità, Sapri potrebbe sopperire alla scarsa disponibilità di superfice utilizzabile. Tutto ciò potrebbe avere più ricadute positive: per esempio sulla varietà dell’offerta turistica.

Molti sono i fattori che dovrebbero far unire le forze ma la spinta maggiore dovrebbe venire dai preoccupanti dati demografici; essi indicano un grave invecchiamento della popolazione e uno spopolamento che minaccia addirittura l’esistenza di alcune comunità.

L'indice di vecchiaia italiano dice che, nel 2016, ci sono 161,4 anziani ogni 100 giovani. È un valore già preoccupante che, tuttavia, è negativamente superato dai Comuni considerati; a Tortorella è addirittura raddoppiato.

Quindi la popolazione invecchia e, contemporaneamente, diminuisce: come ci indica anche l’andamento del saldo naturale (nascite – decessi) negativo.

Sapri e Tortorella registrano un saldo negativo dall’anno 2002 con l’unica eccezione del 2005. Torraca alterna anni positivi e negativi; gli ultimi saldi disponibili (2014 e 2015) sono negativi.

Questa breve sintesi, ovviamente, non ha nessuna pretesa di esaustività e, tantomeno, vuole precostituire soluzioni ma vuole essere di stimolo affinché le popolazioni locali prendano in mano il loro destino. In primo luogo i Sindaci, in questo caso: Del Medico, Bianco e Tancredi. Non si tratta di stilare delibere o di organizzare eventi; occorre avviare un percorso di informazione e sensibilizzazione.

L’invecchiamento, la bassa natalità e l’emigrazione stanno causando un’emorragia di capitale umano che ci spinge sempre più in basso, da ogni punto di vista.

La Fusione dei Comuni è un modo strutturale (duraturo) e concreto per arrestare il declino e per costituire le basi di un rilancio. Certo che è difficile! Le iniziative serie e concrete, che si propongono un impatto positivo e duraturo, non possono essere semplici. Se si vuole la semplicità si possono fare ogni anno convegni su enogastronomia, sul turismo, ... . Ma risolvono!?. L’esperienza, ma addirittura la storia locale, dice di no.

 
 
 

Fusione dei Comuni, per uno spazio a misura di cittadino

Anche questa volta, esaminando l’anno appena terminato, constatiamo un notevole interesse dei politici locali e dei cittadini per la Fusione dei Comuni (D. Lgs. n. 267 del 2000 TUEL, Art. 15). Ricordiamo che con essa più Comuni limitrofi possono decider di costituire un Comune unico; un approccio strutturale ai problemi del territorio previsto dalla legge, finanziato dallo Stato e, anche, da alcune Regioni. Nel triennio 2014-2016 sono stati creati 60 Comuni Unici con la conseguente soppressione di149 Comuni, pertanto il loro numero totale è diminuito di 89 unità. Tale riduzione procura, anche, un beneficio per l’intero “sistema Paese”; si consideri che circa il 75% dei Comuni italiani ha meno di 10.000!

Le Fusioni hanno riguardato le Regioni: Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Trentino-Alto Adige, Veneto.

È facile osservare come in nessuna regione meridionale è stata colta questa opportunità e nel 2017 sembra, purtroppo, che sarà confermato questo disinteresse. Eppure i Comuni meridionali più di altri avrebbero bisogno di mettere in pratica il semplice principio “l’unione fa la forza”; il maggior ostacolo è culturale: la scarsa propensione alla cooperazione.

Il processo di Fusione, che non è semplice, dà al Comune Unico costituito numerosi vantaggi che possono essere riassunti in una più efficiente gestione del territorio e più strutture e servizi per la cittadinanza; insomma un maggior benessere per i propri cittadini , ciò che dovrebbe essere la maggior preoccupazione delle istituzioni locali.

A tal proposito mi soffermo su un aspetto specifico: l’habitat in cui viviamo. Esso è composto anche da una pluralità di luoghi: casa, scuola, azienda, palestra, parco, banca, uffici pubblici, mercato, biblioteca, discoteca, locali pubblici, cinema, teatro, ospedale, chiesa, … . Tutti questi luoghi sono connessi da piazze, vie, scalinate, ponti, … . Poi vi sono varie tipologie di reti ed altro ancora. Tutto ciò costituisce la parte materiale del nostro habitat; poi vi sono i servizi e, importante: le nostre relazioni, i nostri rapporti umani. Insomma un complesso di strutture e servizi la cui presenza ed efficienza determina la qualità delle nostre vite. L'Ente comunale ha un ruolo essenziale per la loro creazione e gestione diretta o, se di altrui competenza, per incentivarli, sostenerli e controllarli.

È interesse dei cittadini impegnarsi e vigilale affinché questo habitat sia il più rispondente possibile alle aspettative di ciascuno; lo strumento principale di tale attività è la partecipazione politica ed il voto. L’interlocutore primo, il più prossimo, è il Comune

Ora, specialmente nei centri minori, facilmente si verifica che la possibilità che il cittadino ha di incidere sul suo ambiente è impedita dalla mancata coincidenza del suo habitat con il territorio del Comune dove risiede (e vota). Abita in un Comune ma lavora in un altro, la sua palestra è in un altro ancora, in un diverso Comune è la scuola di suo figlio, ecc. ecc.. Insomma la frammentazione del territorio da una parte rende difficile alle Amministrazioni locali la realizzazione dei servizi necessari (es.: trasporti pubblici) e dall’altro toglie ai cittadini la possibilità di incidere sull’ambiente di loro interesse.

Quindi anche un’Amministrazione seriamente impegnata a migliorare il benessere dei propri cittadini, e che disponga delle risorse necessarie, non potrà farlo poiché occorrerebbero strutture e servizi anche in territori che non sono di sua competenza.

È evidente che il fenomeno descritto, la mancata coincidenza, non è totalmente eliminabile ma la fusione dei comuni potrebbe, anche per questo aspetto, essere una significativa risposta; una riorganizzazione per adeguare i territori alle esigenze dei cittadini.

Al sud, purtroppo, persiste l’atteggiamento dei politici e amministratori locali che, contrariamente agli omologhi del centro-nord, ignorano la concreta opportunità offerta dalla Fusione, è facile capirne, per quanto meschini, i motivi; è più difficile comprendere l'inerzia dei cittadini meridionali che sembrano preferire una tranquilla mediocrità ad un faticato benessere. Eppure è in gioco la concreta possibilità di ottenere strutture e servizi per migliorare la propria vita. 

 
 
 

Il NO ha vinto, e l’Italia?

Post n°120 pubblicato il 05 Dicembre 2016 da mcalise
 

La campagna referendaria ha offerto un reality show poco edificante; la voce di tanti che, su entrambi i fronti, si sono impegnate sinceramente convinte di fare l'interesse del Paese è stata sommersa da un vociare scomposto. Si sono confrontati due populismi: quello irriflesso meglio rappresentato da Salvini e quello opportunista icasticamente espresso dall’immagine del Presidente del Consiglio che fa rimuovere la bandiera europea alle sue spalle.

Ha vinto il NO ed è facile immaginare che molti interpreteranno il risultato come un evento da festeggiare e anche questa vittoria, presunta, avrà molti padri.

Ovviamente è legittimo che chi ha votato NO consideri positivamente il risultato elettorale. Certo le tante persone che lo hanno fatto responsabilmente e coscienziosamente potranno rallegrarsi dello scampato, dal loro punto di vista, pericolo ma dovranno convenire che il Paese non ha fatto alcun passo innanzi! Sarebbe stato più arduo sostenere la stessa cosa se avesse vinto il SI ma anche in questo caso: quante macerie! Sarebbe passata una riforma poco condivisa e definita pasticciata anche da alcuni di coloro che l’hanno votata.

Abbiamo vissuto una campagna referendaria lunga e brutta dove la povera Costituzione è parsa più un pretesto che l’oggetto di differenti e appassionate attenzioni.

L’affluenza è stata superiore alle aspettative di molti, quasi il 70%. Capire quanta parte di essa sia dovuta alla democratica voglia di partecipare o alla rabbiosa voglia di dire no è importante per il futuro dell’Italia.

È sperabile che, acquisito il risultato, tutti comprendano che il Paese ha perso! Quanto meno ha perso tempo prezioso. Le colpe sono attribuibili, in misura diversa, ad entrambe le parti in competizione.

A mio avviso la vicenda dovrebbe insegnare a tutti almeno tre cose:

  • Le riforme costituzionali sono necessarie ma non sono una priorità. Non è l’ingegneria costituzionale la panacea dei nostri mali;
  • non solo non bisogna tentare di limitare la sovranità popolare ma non bisogna dare nemmeno l'impressione di volerlo fare;
  • i quesiti referendari, di qualsiasi tipo, devono essere rispettosi dei cittadini che devono potersi esprimere su singoli e chiari punti.

 Ora ci attendono delicati passaggi politici ed istituzionali. Il Presidente del Consiglio ha annunciato le sue dimissioni e molti protagonisti del no invocano elezioni immediate trascurando, spero solo nei proclami, che, in pratica, manca una legge elettorale. L’atteggiamento del PD saprà determinante ed è auspicabile che in un momento così difficile saprà ritrovare la sua unità.

Al Presidente della Repubblica l’arduo compito di far ripartire, dal punto di vista istituzionale, un Paese incagliato.

Ora più che mai è il momento della responsabilità, i problemi del Paese incalzano: economia, lavoro, Europa. Sono questi i principali dossier ancora aperti

Sono tempi più che mai incerti e le semplificazioni e le scorciatoie convengono solo a coloro che credono di avere la ricetta in tasca. Di quest’ultimi è meglio diffidare, ora tutti dovremmo, responsabilmente, voltar pagina.

 
 
 

Le élites meridionali: Vincenzo De Luca

Post n°119 pubblicato il 20 Novembre 2016 da mcalise
 

Impressiona vedere, in vecchi filmati in bianco e nero, i politici di un tempo nemmeno tanto remoto: sembrano maturi professori che espongono le loro idee. Un po’ ingessati, noiosi; con qualche rara manifestazione d’irruenza di cui sono pur capaci gli appassionati signori.

Potevano piacere o meno ma certo componevano quella élite politica che, fino alla fine degli anni sessanta, ha diretto la ricostruzione del nostro Paese sottraendolo da una condizione di emarginazione e facendolo divenire uno dei maggiori paesi industrializzati al mondo.

Un patrimonio dissipato dalle successive generazioni di politici che, a confronto dei predecessori, sembrano i chiassosi avventori del bar sport e, soprattutto, dimostrano di essere inadeguati a gestire i gravi problemi che affliggono la nostra società.

Insomma il linguaggio politico simboleggia la carenza di valori e la pochezza delle idee; è di scarso sollievo pensare che non è un problema solo italiano.

E scendendo, scendendo arriviamo ai politici meridionali fra cui spicca Vincenzo De Luca, il Presidente della più importante regione del sud.

Quest’ultimo ci ha ormai abituato ad una serie di imbarazzanti esternazioni rivelatrici della sua personalità. Solo negli ultimi giorni occorre registrare due episodi.

Primo. Le parole inaccettabili, ancora una volta, nei confronti della Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi; non occorre dire molto, esse denotano un senso di responsabilità molto tenue.

Secondo. Il sito “Ilfattoquotidiano.it”, con un articolo del 18-11-2016 firmato da Fabrizio Esposito, rivela un documento-audio che registra la voce di De Luca che invita, in una riunione, i trecento amministratori campani presenti a mobilitarsi per il SI al prossimo referendum. Appello legittimo se non fosse che gli argomenti e i toni utilizzati sono stati un’esaltazione della clientela e del voto di scambio. Inoltre emerge un’idea di futuro che pone come priorità il cemento e i “posti” nella Pubblica Amministrazione; una posizione di retroguardia e di corto respiro. Una sola frase potrà chiarire il clima dell’incontro: “Prendiamo Franco Alfieri, notoriamente clientelare. Come sa fare lui la clientela lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda. Che cosa bella. Ecco, l’impegno di Alfieri sarà di portare a votare la metà dei suoi concittadini, 4mila persone su 8mila. Li voglio vedere in blocco, armati, con le bandiere andare alle urne a votare il Sì. Franco, vedi tu come Madonna devi fare, offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht, fai come cazzo vuoi tu, ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso”.

Il messaggio che passa è che le regole sono lacciuoli, tutto è lecito per ottenere consensi, potere; i metodi consigliati sono quello clientelare e del voto di scambio. L’arroganza e la volgarità fa audience. Quale esempio! Parole e atteggiamenti dolci come il miele per chi ha in dispregio la legalità, per  gli evasori e gli abusivi di ogni specie.

Recentemente anche Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, è intervenuto per stigmatizzare le parole di De Luca che attribuivano alla lotta alla corruzione il blocco dell’Italia.

È la vecchia politica che si ripropone con vesti nuove e, nonostante qualcuno la definisca “politica del fare”, ha impedito al mezzogiorno di colmare il divario socio/economico che lo separa dal resto del Paese. Ma i nodi verranno al pettine, forse. Infatti quello che manca è il pettine: il vaglio informato, severo dei cittadini. Quale selezione potrà scaturire dalla cabina elettorale se il voto non è preceduto dall’abitudine dei cittadini ad informarsi ed a confrontarsi, in poche parole a partecipare?

Abbiamo, specialmente al sud, una classe politica che i populismi li rincorre anziché contrastarli. Essa contribuisce a dissipare un capitale sociale già scarso, anzi ne sta creando uno cattivo fatto di familismo spinto, di clientelismo e di localismo miope. Non è la collettività e il suo capitale sociale che interessa a i politici come De Luca ma un capitale di consensi. Per sé e per i suoi.

 
 
 

La politica al tempo dell’antipolitica

Non “Basta un si!”. Certo un si non basta, ma non ne occorrono milioni, bensì poche centinaia. Infatti sarebbero stati sufficienti poche centinaia di voti per ridurre i costi del nostro Parlamento, aumentarne l’efficienza (regolamenti parlamentari) senza mortificarne il ruolo.

Così non è stato; a ricordarcelo è stata la proposta di legge del Movimento 5 Stelle per tagliare gli stipendi ai parlamentari.

Tutti dediti a parlare alla pancia del Paese: a “Se voti SI cancelleremo poltrone e stipendi” si risponde con una proposta che, secondo i proponenti, farebbe risparmiare di più.

È l’antipolitica, un fenomeno non nuovo, basti ricordare il movimento dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini che ebbe un discreto seguito nella seconda metà degli anni ‘40. Oggi, mi sembra più che mai, sono i politici che si contendono i consensi brandendo l’antipolitica con un miope masochismo.

La semplificazione imperversa e fa da humus a tutto ciò.

La comunicazione politica si è trasformata in slogan prodotti, grazie anche ai social networks, a getto continuo; ne ricordo alcuni: “L’Italia cambia verso”, “Bella l’Italia che riparte”, “Forte l’Italia che decide”, ecc. ecc..

Si aggiunga la continua delegittimazione degli avversari che diventano "gufi" da rottamare e il prevalere di atteggiamenti divisivi anche da parte di chi detiene, legittimamente, le leve del comando. Tutto ciò delinea uno scenario sconfortante.

Dovrebbero far riflettere i sondaggi che segnalano una diffusa sfiducia nei confronti della politica, dei partiti e, perfino, delle Istituzioni.

Il Rapporto Demos & Pi (dic. 2015) “Gli italiani e lo Stato” evidenzia dati preoccupanti. Solo il 5% degli intervistati ha fiducia nei partiti ma colpisce ancor più, in una repubblica parlamentare, che solo il 10% ha fiducia nel Parlamento! Diminuiscono perfino coloro che credono “la democrazia preferibile a qualsiasi altra forma di governo”.

Quindi non possiamo meravigliarci del diffondersi del dannoso mito della società civile buona e della casta politica cattiva e dei partiti visti come il male assoluto. Anziché riformarli, li abbiamo lasciati deperire; come se i degenti di un ospedale che non funziona ne chiedessero la chiusura invece di pretenderne il corretto funzionamento.

Così semplificando, delegando, slogan dopo slogan siamo arrivati a “Basta un si!”. Cosa ci vuole!

Ma si potrà mai, con questo approccio semplificato, affrontare seriamente la complessità del presente? Si potranno varare politiche lungimiranti che possano farci guardare al futuro con minore apprensione?

Purtroppo non basta legiferare per sopperire alla carenza culturale ed etica del ceto politico, al prevalere di un senso civico carente, di una debole identità nazionale e di una scarsa cultura democratica. Non siamo antidemocratici ma ademocratici, indifferenti alla democrazia.

E non saranno un “Basta un si!” o “Basta un no!” a cambiare le cose.

 
 
 

Fusioni dei comuni. Il “Referendum day” dove i cittadini fanno sentire la loro voce

In Emilia-Romagna, il 16 u.s., si è svolto il “Referendum day” per la Fusione dei Comuni. Circa 60.000 cittadini di sedici Comuni hanno votato per approvare o meno la costituzione di sei Comuni unici. Il risultato è stato inferiore alle aspettative.

I cittadini hanno votato no a quattro delle fusioni proposte: di Borgo Tossignano, Fontanelice e Casalfiumanese; di Campegine, Gattatico e Sant'Ilario d'Enza; di Bettola, Farini e Ferriere e di Ponte dell'Olio e Vigolzone.

Per l'esito finale della fusione fra Mondaino, Montegridolfo e Saludecio si dovrà attendere una decisione dell'Assemblea legislativa regionale.

Invece vi è stato un sì netto alla fusione tra i comuni di Mirabello e Sant'Agostino che  istituiranno un nuovo comune unico. Per quest’ultimo, nello stesso referendum, i cittadini hanno scelto il nome “Terre del Reno”.

Terre del Reno è il nono comune unico costituito in Emilia-Romagna negli ultimi due anni e potrà usufruire di contributi statali (decennali) e regionali (quindicinali) per quasi 11 milioni di euro complessivi.

La Regione Emilia-Romagna è, come altre regioni del centro-nord d’Italia, fortemente impegnata a stimolare, supportare e finanziare la fusione dei comuni. Infatti sono convinte che con la costituzione di Comuni unici si avvantaggino fortemente le popolazioni e si agevolino i rapporti fra le istituzioni locali; in particolare fra i Comuni, che si rafforzano ma diminuiscono di numero, e la Regione stessa. Questi avvenimenti provocano due osservazioni.

La prima consiste nel constatare l’enorme importanza e positività del fatto che i cittadini si informino, discutano e poi decidano con il voto l’avvenire delle loro comunità; al di là del risultato che, ovviamente, non potrà accontentare tutti, si tratta di una concreta prova di maturità democratica.

La seconda osservazione ci costringe a rilevare come, ancora una volta, la Regione Campania, con altre regioni meridionali, sia in ritardo nel promuovere politiche attive di riassetto del territorio. Questa colpevole assenza non solo priva le comunità locali di una opportunità concreta di sviluppo ma causa anche la perdita di preziosi finanziamenti statali.

 
 
 

Ho sognato il referendum day per la Fusione dei Comuni in Campania!

Un modo un po’ surreale per rammentare come, per quanto riguarda la Fusione dei Comuni, la Regione Campania brilli per inerzia.

 

Ho avuto un sogno! Si ho avuto un sogno!

Io ho sognato che migliaia di cittadini campani prendevano coscienza che unendosi potevano impedire il declino dei loro Comuni minacciati dalla crisi economica e demografica.

Io ho sognato che in tanti volevano partecipare, uniti, per garantire un futuro prospero ai propri territori.

Io ho sognato che questo processo partecipativo fosse stimolato, accompagnato e incentivato dalla Regione Campania.

Io ho sognato che alcuni politici campani si impegnavano per le fusioni ritenendola  una opportunità di sviluppo delle comunità locali.

Io ho sognato che tanti cittadini campani votavano ai referendum per decidere la costituzione dei Comuni unici.

Si, io ho sognato che sia i cittadini favorevoli che i contrari alla fusione erano consapevoli di essere protagonisti di un processo partecipativo e democratico, della sconfitta dell’apatia e del fatalismo.

Mi sono svegliato, era solo un sogno! Probabilmente provocato da una cena abbondante e dalla lettura serale della notizia che in Emilia-Romagna, in una unica data domenica 16 ottobre 2016, vi saranno le consultazioni per approvare o meno sei progetti di fusione. I Comuni interessati sono sedici, i cittadini oltre 60.000.

Giova ricordare che nella Regione Emilia-Romagna già sono state realizzate otto fusioni che hanno, tra l’altro, ridotto il numero dei comuni della regione di quattordici unità.

Sono sogni irrealizzabili? Non credo ma certo l’inerzia della Regione Campania non giova, anzi. Bisognerà trovare il modo di darle la sveglia!

Ringraziamenti. Per questo mio modesto articolo devo ringraziare la Regione Emilia-Romagna e sedici dei suoi comuni: Mondaino, Montegridolfo, Saludecio, Borgo Tossignano, Casalfiumanese, Fontanelice, Mirabello, Sant’Agostino, Campegine, Gattatico, Sant’Ilario d’Enza, Bettola, Farini, Ferriere, Ponte dell’Olio e Vigolzone. In ultimo ma non ultimo: Martin Luther King.

E i ringraziamenti alla Regione Campania? Beh, per ora non è il caso.

 
 
 

Giovani in fuga, il declino è alle porte?

In questi giorni alcuni notizie si sono poste all’attenzione dell’opinione pubblica, nessuna rappresenta una novità assoluta ma viste insieme delineano un quadro preoccupante.

Prima notizia. Il rapporto della Fondazione Migrantes rileva come siano 107.529 gli italiani espatriati nel 2015; il 36,7% sono giovani tra i 18 e i 34. Non è dato sapere quanti di loro siano espatriati per una libera scelta di vita e professionale, come è giusto e fisiologico che sia, oppure costretti da necessità.

Seconda. Vi sono altri giovani, virtualmente, in fuga: i Neet, giovani che, fuori da qualsiasi percorso formativo, non cercano un impiego. L’eterogeneità di questa categoria renderebbe necessario uno studio per comprenderne meglio la composizione e le possibili cause. Ma resta il fatto che la nostra percentuale di Neet è la più alta in Europa, un triste primato.

Terza. La disoccupazione giovanile, specialmente al sud, ha raggiunto livelli insopportabili. La percentuale di giovani italiani fra i 15 e i 24 anni disoccupati è del 40% (fonte ISTAT 2015) e nel Mezzogiorno schizza al 54%!

Quarta. L’Italia diviene sempre più un paese di vecchi. Indice di vecchiaia 2015 è 157,7, significa che per ogni 100 ragazzi di età fino a 15 anni vi sono 157,7 ultrasessantacinquenni.

Lo stesso indice nel 2005 era 137,8, circa venti punti di differenza.

Sono numerosi gli indicatori che segnalano una strutturale debolezza del nostro Paese ma già queste quattro notizie, viste complessivamente, ci dicono che mentre siamo concentrati sul presente stiamo perdendo di vista il futuro. Qui le dichiarazioni accorate si sprecano.

C’è solo un aggettivo per definire la situazione: tragica. E non sono convinto che vi sia, a tal proposito, una consapevolezza sincera e diffusa.

Due pesanti interrogativi si pongono: cosa fare e a chi tocca farlo.

Cosa fare, nessuno ha la ricetta in tasca. Certo che la dimensione del problema mal si concilia con la dispersione degli interventi (e delle scarse risorse) in tanti rivoli (compresi i vari bonus) che se, forse, possono alleviare il presente non rassicurano sul futuro.

Un settore che dovrebbe essere assolutamente potenziato è quello della ricerca e sviluppo in cui l’Italia, ampiamente superata dagli altri paesi dell’Unione Europea, investe solo lo 1,3% del Pil. Uno spreco enorme considerando che, nonostante ciò, abbiamo una ricerca di qualità che produce un elevato numero di pubblicazioni scientifiche.

Insomma, a mio avviso, l’imperativo dovrebbe essere mettere in ordine in casa (debito pubblico, lotta agli sprechi, maggior efficienza della Pubblica Amministrazione) e pensare al futuro delle nuove generazioni. Pochi interventi massicci e mirati che accrescano, fra l’altro, la necessaria fiducia. Selezionare gli interventi significa scontentare qualcuno. E qui si arriva alla seconda e ancor più complicata domanda: a chi tocca farlo?

Occorrerebbe una classe politica autorevole che aggreghi il Paese su obiettivi precisi e sia anche capace di dire dei no. Nessuna strizzatina d’occhio all’antipolitica! La classe politica è parte integrante della cosiddetta società civile. È quest’ultima che ha rinunciato, anche per motivi comprensibili, alla partecipazione politica che non può essere limitata alle elezioni che pure registrano un alto numero di astenuti. Un ritorno alla politica cominciando dalle realtà locali, una forte pressione dell’opinione pubblica per mirati interventi a favore delle nuove generazioni, la disponibilità a non far prevalere gli interessi di parte o, peggio, personali sono gli ingredienti necessari. Solo così potremo arginare il declino ormai alle porte.

 
 
 

Referendum, il 4 dicembre si vota: si, no, non so

Post n°114 pubblicato il 27 Settembre 2016 da mcalise
 

Il Consiglio dei Ministri ha deciso la data del referendum costituzionale: il 4 dicembre gli italiani dovranno pronunziarsi con un si o un no. Da più parti si leva l’invito a votare valutando la riforma nel merito, ma è possibile? E, nel dubbio, è giusto astenersi?

L’ipotesi accantonata di spacchettamento del quesito referendario (v. “Referendum costituzionale, una riforma per il Paese”) avrebbe consentito una valutazione articolata e di merito della riforma e, allo stesso tempo, contribuito alla spoliticizzazione del voto.

Ora, i cittadini dovranno scegliere se approvare o respingere in blocco la riforma.

Si tratta di una riforma complessa e poco condivisa che, anche per ammissione di alcuni suoi sostenitori, non è il massimo della leggibilità. Ciò non fa presagire nulla di buono vista anche l’esperienza della riforma del 2001 che, con la modifiche al titolo V (Le Regioni, le Provincie, i Comuni), ha provocato una mole impressionante di ricorsi alla Corte costituzionale: le Regioni contro leggi dello Stato e lo Stato contro leggi delle Regioni.

Il sondaggio di EMG Acqua per TG LA7 ( 26 sett. 2016) prevede che il solo 56% degli italiani andranno votare per dire NO il 35,5%, SI il 29,6% e ben il 34,9% “non sa” ancora.

Partendo da questi dati, probabilmente destinati a mutare, il 65,1% dei votanti ha un idea precisa su come votare; si tratta veramente di una valutazione di merito? Basata su documenti di non di parte come, ad esempio; i due testi elettronici del Servizio Studi della Camera (ben 379 pagine complessive)?

Certo i voti si contano e non si pesano ma mi chiedo quale base condivisa potrà mai rappresentare una Costituzione votata dai più solo per sostenere la propria parte o, viceversa, per contrastare la parte avversa. Sono da comprendere, ed addirittura apprezzare cittadini dubbiosi, i “non so”; coloro che pur sentendo il dovere di non mancare ad un appuntamento tanto importante stentano, comprensibilmente, a capire cosa ci porterà questa riforma una volta approvata.

C’è tempo e molti di quest’ultimi potranno farsi un’opinione decisa; ma chi, nonostante gli sforzi, rimane nel dubbio come dovrà regolarsi? Deve astenersi dal votare?

Credo di no. È doveroso votare e nel dubbio, non dovuto ad inerzia, credo si debba dire no ad una riforma incapace di fornire un testo comprensibile e condiviso. Se il detto che la saggezza popolare suggerisce "Non lasciare la strada vecchia per la nuova" non può essere una regola, poiché a volte occorre rischiare, su aspetti basilari come la Costituzione conviene, a mio avviso, prudenza.

 
 
 
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