Creato da ditz il 21/02/2005

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Lettera aperta dei docenti precari

Post n°235 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da ditz
 

Caro blogger,

 

Per molto tempo si è discusso delle sorti del sud e della Calabria, dell'arretratezza del meridione d'Italia e del suo ennesimo mancato sviluppo, delle ragioni della "dimenticanza" dello Stato e, di contro, dell'antistato che sopravanzava. Sembrava, cioè, che tutto fosse meravigliosamente teso a un senso di giustizia, a una encomiabile speranza di riscatto, a un dibattere per trovare le ragioni del male e porvi rimedio. Tanta idealità, tuttavia, non ha prodotto – a detta di molti – grandi risultati. Partendo da questo presupposto, noi docenti precari abbiamo ritenuto necessario uscire dal senso di smarrimento che ci ha attanagliati in questi giorni per ripartire dalla concretezza spaventosa dei dati oggettivi e lasciando da parte ogni tensione ideale.

C'è un senso di solitudine e di inadeguatezza, di isolamento e di demonizzazione di una intera categoria, quella degli insegnanti, che ha visto  prendere corpo in queste ultime settimane quello che in estate era appena ventilato, a volte sottilmente, altre già più ferocemente.

La valanga dei licenziamenti che per il prossimo anno scolastico mortificheranno migliaia di "precari stabili" è un fatto senza precedenti. Nel sud della precarietà e della pendolarità, nel sud del lavoro onesto e responsabile, nel sud delle competenze e dell'umanità, della socializzazione e dei presidii dello Stato, si compie un "massacro culturale", uno scempio delle intelligenze, un attacco alla categoria che farà da capro espiatorio, da agnello sacrificale, nella più atroce delle ritualità pagane.

Alea iacta est. Oggi ci  hanno detto in faccia "Perché avete studiato una vita? Perché avete pensato di poter fare l’insegnante? Perché vi siete  lasciati fregare dalle illusioni?

Oggi ci  hanno detto in faccia che posto per noi e per i nostri compagni di strada non ce n’è. Oggi ci hanno elegantemente detto di non annaffiarlo più il giardino delle nostre speranze. Tanto ne usciranno fuori fiori marci. Sfioriti prima di nascere.

Ci hanno detto che noi precari possiamo cominciare a guardarci intorno, impauriti, per trovare un altro lavoro. Come se fosse una caccia al tesoro. Un gioco di dadi. Ci hanno detto che non serviamo più. Fate largo, amici, bisogna tagliare.  Per voi è tempo di cambiare! Eppure le nostre ossa sentono già il peso dei pochi e intensi anni di precariato e pendolarismo. I nostri occhi sentono di continuo il bruciore per aver scorso intere pagine di libri e di web per rendere le lezioni per i nostri alunni palestre di vita, boccate d’ossigeno e non show assordanti per distrarli dalla bruttezza del mondo. Che gara persa in partenza! Nemmeno il tempo di sentire il colpo della pistola dopo il three, two, one, BANG! Ritiro obbligato. Comparse mute rimaste dietro le quinte di uno spettacolo assurdo. Battute dimenticate. Copioni ridotti a brandelli. Costumi stracci stramazzati in strade sterrate. Dialoghi mutati in monologhi disperati e sordi. Cala il sipario. Una tromba grida la fine di uno spettacolo noioso. Le luci calano. La folla si ritira. Addio precario afflitto. Affamato e affannato affoghi i tuoi sfoghi in un afflato sfiatato. Cosa ti resta di quest’anno sfigato? Guardarlo ancora quel grigio mare caldo della tua terra dannata e amata nella folle corsa di treni fantasma diretti verso il vuoto di una speranza vana.

Abbiamo creduto in quello che stavamo facendo. Al punto che non è bastato laurearsi, abilitarsi, specializzarsi, masterizzarsi a migliaia di euro per volta. No, non è bastato per niente. Perché poi è arrivato il bello: entrare in classe, abituarsi all'idea non marginale che decine di alunni si aspettavano qualcosa da noi, che non bisognava deluderli, occorreva sapere e saper parlare con loro, farsi capire. Ecco cosa. Molti di noi ci hanno perso la vita a rincorrere questo mestiere, come a rincorrere i treni acchiappati all'ultimo momento alle cinque di mattina mentre il mondo  ignaro dormiva e forse non sapeva che cosa fosse insegnare: responsabilità, impegno, cura, affanni, attenzione, preparazione, correzioni personalizzate, pacche sulle spalle e qualche sgridata ogni tanto, discussioni, comprensione, pazienza, studio, letture, burocrazie varie. Ma c'è dell'altro. Al ritorno dal pendolarismo eterno su treni lenti, come solo da noi, in Calabria, sanno esserlo, preparare lezioni, discutere con altri docenti come fare, cosa fare. Leggere con loro della ministra che legge egìda per ègida e trionfanti lasciarsi andare a un mezzo sorriso amaro, soffocato subito dopo dalle mani congiunte a voler dire: vi rendete conto?

Leggere Philip Roth e Gadda, Ian McEwan e Diego De Silva, la recensione a La classe di Cantet o la prefazione di Umberto Eco a Il mio Dante di Roberto Benigni: a proposito, vivamente consigliato a tutti i docenti di lettere non foss'alltro perché Eco ci aiuta a leggere l'endecasillabo splendidamente. Tutto questo fanno i docenti? No, non solo. Un'altra cosa che fanno? Traducono, cioè prendono parole da un tempo lontano e memorabile e le portano a noi, in un tempo goffo e sciocco come il nostro. Corrono col pensiero, non gravitano a tempo perduto dentro i corridoi dei perditempo, i docenti. Nossignori, i docenti li vedi oberati e contenti del lavoro che fanno. I docenti di Lettere che hanno in mente Leopardi per tutta la vita, quelli lì, dico,  come fanno senza le "sudate carte ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte". Non ce la fanno. Non restano dentro avvilenti sterotipi da bar, restano casomai trasecolati, che poi che bello che è "trasecolare", non trovate? I "cocci aguzzi di bottiglia" di Montale bisogna che ce li facciamo scivolare addosso come canta Vinicio Capossela quando canta come solo lui può e sa: "Scivola vai via, non te ne andare". Bisogna che ci arrendiamo a questa nebbia, ci sembra di restarcene dentro Noia di Ungaretti con la nostra solitudine, "titubante ombra dei fili tranviari". Ma chi ce lo doveva dire? Noi che siamo rimasti gli ultimi a decrittare, che non ci siamo accontentati di uno studio pedissequo e solitario, e neppure abbiamo ceduto all'ansia da raccomandazione, quando ancora si poteva-si doveva per finire a smerciare fogli su scrivanie di enti regionali. Noi che siamo rimasti dentro aule gonfie di "inquiete tenebre / e lunghe". Noi con quell'enjembement di Foscolo addosso e con le capriole di fumo ungarettiane, mi sa che ci prende male. Lei ci capisce, caro blogger,  visto che sa raccontare e sa come e cosa dire. Ci prende male a essere trattati come il Male: noi che abbiamo finito per aggrapparci a un ossimoro, noi con la speranza di restare almeno precari stabili. E scusate se è poco, visto tutto quello che sappiamo e sappiamo come dire.

 

Comitato docenti precari di Reggio Calabria

 
 
 

Ci prende e ci porta via

Post n°234 pubblicato il 26 Ottobre 2008 da ditz

Graziano Biglia e sua madre appartengono al mondo degli stereotipi: gli stranieri riconoscono il mammismo assoluto nella scena che Niccolò Ammaniti costruisce sapientemente : l'uomo del sud fa ritorno a casa, nel paesino di Ischiano Scalo, e dice alla madre che vuole sposare una ragazza del nord, che questa ragazza arriverà l'indomani. Risultato immediato: svenimento della mamma di Graziano. No, non per dolore o disperazione di perdere il figlio, come potrebbero intendere gli stranieri con l'occhio vigile sulle vicende familiari italiane. La mamma di Graziano sviene per l'emozione e una volta che si è ripresa non parla più. Ma quale icuts, Graziano. Stai tranquillo. Non parla più per un voto alla Madonnina di Civitavecchia.

Nel romanzo Ti prendo e ti porto via Niccolò Ammaniti manipola destini opposti e li fa convergere dentro quel grande recipiente dove annaspa l'umanità tutta: l'amore. La storia dei due ragazzini provenienti da famiglie così diverse, il padre di Gloria direttore di banca e quello di Pietro pastore psicopatico, viene reiterata nella storia di Graziano e sua mamma alle prese con Erica Trettel, l'acciuga Erica Trettel, a voler essere precisi.

Nel tempio di casa Biglia, la mamma di Graziano sembra una sacerdotessa che sacrifica tutta se stessa sull'altare delle tre divinità cui rende omaggio: igiene, religione, cucina. Volete mettere un mondo di ragù, detersivi, voti alla Madonnina e stanzetta di Graziano con il poster di John Travolta in "La febbre del sabato sera"? No, non è quello che fa per Erica Trettel che scappa con uno che le promette mari e monti, che le fa credere che sfonderà nel mondo televisivo. Lei ci crede e invece di raggiungere Ischiano Scalo dove Graziano l'attende con la mamma affaccendata a sistemare, cucinare, ordinare, pregare, lei che fa? Supera il provino e diventa valletta del profetico programma "Chi la fa l'aspetti".

Altro che Ischiano Scalo. Altro che matrimonio con Graziano. Dopo mille tentativi di Graziano alle prese con la segreteria telefonica e i messaggi della Telecom i due finiscono per parlarsi al telefono. Lui la imbottisce di parolacce e ingiurie. Lei gli risponde con: "Piuttosto che sposarmi con te mi butto sotto un treno."

E nel pentolone dove il mestolo del destino gira vorticosamente la minestra delle vite quotidiane, Graziano finisce per ritrovarsi faccia a faccia con una professoressa, Flora Palmieri, tenuta a distanza da tutti, lì in paese.

 
 
 

R.E.M.

Post n°233 pubblicato il 26 Ottobre 2008 da ditz

Le bugie possono anche correre. Altro che gambe corte. Eppure non è che dobbiamo predercela con i bugiardi di professione. Lo fanno naturalmente. Una roba spontanea. Una piccola malattia della creatività. Uno spillo che fora la camera d'aria della verità e la camera d'aria in un battibaleno fiumm fiumm fiumm e crolla al suolo derelitta e stremata. Le bugie escono sempre vincenti. Hanno una loro autoctonìa. Rinascono felici e fenici. Non le scompagini mai. Vanno per sovrapposizioni. Hanno il loro da fare per costruire castelli in aria.

Che palle gli onesti. Quelli che vogliono sapere tutto per filo e per segno: alla fine li freghi sempre se solo danzi con la bambinaggine delle tue bugie prima di sprofondare nell'unico momento di sollecitazione del reale: la fase rem o giù di lì.

 
 
 

Avviso ai naviganti: più soldi alle banche e distruzione della scuola

Post n°232 pubblicato il 25 Ottobre 2008 da ditz

Era l'Ottantanove quando crollò il muro.

Oggi ne sta crollando un altro: fine del capitalismo. Anche se non ce lo dicono. L'hanno capito tutti. A destra come a sinistra.

Il lavoro è a 4 euro l'ora.

I precari della scuola? Specializzati per niente.

Tutti a casa da un ministro dell'istruzione che dice egìda al posto di ègida. "Sotto l'egìda del governo...".

Un capo di govero che dice agli studenti: "Vi mando la polizia".

Qui si muore di povertà. Altro che le sue ville. E la sua ricchezza.

Quel mondo surreale di veline e pagliacciate, di ministre bellocce e chieriche rinfoltite, nasconde una vergogna: più soldi alle banche. E a chi li togliamo? Alla scuola.

La cultura, la pazienza, lo sforzo, lo studio non sevono più a nulla.

Crolla quel mondo e invece di pensare a una rivoluzione cuturale si manda agli italiani questo messaggio: fatevela in culo!

Dirigenti scolastici senza diploma. E Brunetta dice che sono i docenti a guadanare troppo.

Vergognati, ministro, del minimo arrivismo

non mi fa specie. Mi dolgo solamente

del manipolo incosciente

di ministri incompetenti

di presidi ignoranti

di provveditorati stracolmi

di indaffarati nullafacenti.

Tutto è indifferenza:

la moralità nel culo del docente

è un filo che non gli fa niente!

 
 
 

Advocato

Post n°231 pubblicato il 20 Ottobre 2008 da ditz

Gli avvocati ce li siamo sempre immaginati in un certo modo. I maschi, per esemipo, eleganti e a modo, affabili e affabulatori, furbi e cinici, quando è il caso, di molte parole, sempre. E poi con una vita regolare, la moglie sempre altrove, sempre tiratissima, firmatissima, la sera qualche cena fuori più per dovere che altro.

Salta agli occhi, quindi, l'avvocato Vincenzo Malinconico di Non avevo capito niente. Salta agli occhi perché è un avvocato al contrario, nel quale persino noi-non-avvocati finiamo per riconoscerci. Ci cattura questo romanzo in prima persona perché non l' avvertiamo come un peso o una necessità egoistica la scelta della prima persona.

Vincenzo Malinconico parla in prima persona e noi ci rivediamo tutte le volte che abbiamo avuto qualche disavventura. Ci sentiamo di condividere i suoi pensieri proprio perché deragliano dalla strada normale di un avvocato nemmeno tanto avanti con gli anni.

Ci sembra che lo infastidisca quel mondo di sopravvissuti. Quel mondo fasullo. Stiamo dalla sua parte quando parte in quarta con le digressioni. Quando quella voce graffia sugli scranni di un mondo "cosificato".

 
 
 

Notizia notiziona: chiude la baracca scuola

Post n°230 pubblicato il 18 Ottobre 2008 da ditz

I giornali murati come strisce di cemento su una frase, una polemica gretta e meschina sugli insegnanti. Oppure pagine e pagine d'avorio mite sull'intervento dello stato fin dento l'anima del liberismo. L'ennesimo ossimoro. L'ennesima pigliata per il culo, meglio. Indulgenze a colpi di gossip frenano borse in picchiate come caccia bombardieri su città occidentali collassate dentro un urlo firmato. Piano piano risale dal mezzo della prima pagina una notizia come un sussurro di liberazione.

Docenti ribelli alla minstra. E anche le famiglie. E le Regioni.

La scuola bla. E poi bla bla. Una volta, il voto invece. Il grembiule, lo so. E via così. Fino all'ultimo licenziamento? Di chi, poi? Un-mio-amico-dice-ancora-che-lavoriamo-poco. Pensa ai prof di educazione fisica, forse. O di religione.

Quelli che pensano che i docenti non siano all'altezza forse dimenticano che medici ingegneri manager avvocati dentisti bancari ginecologi pediatri oculisti notai politici: NEMMENO LORO! Non hanno idea. Se un docente non sa spiegare ha il buongusto di aprire il libro, servirsi dell'aiutino. Se un medico sbaglia, che aiutino ci sarà?

La bellezza è che il precariato l'avevano voluto loro. E col tempo anche noi c'eravamo adattati a quella logica di stanziamenti instabili. Un anno e via. Un anno e via. Un anno e via. Le case in provincia si somigliano tutte. Le strade pure. La statale. Sempre dritta. Li taglia in due i paesini. Sembrano tante comari intorno a un pettegolezzo. Spropoli, un pugno a sproposito di case che si guardano di sbieco e poi la strada deraglia verso una pianura densa di celeste. Mare.

Il bello è che a fare i pendolari s'impara tanto. E presto. Viaggi in mezzo a  giacche verdi di ferrovieri entrati in ferrovia con quale mezzo? che esibiscono foto-riconoscimento. Sembri uno di loro, da come ti muovi sul treno. Dalla disinvoltura della postura ciondolante e lenta. Uno di loro. Ma in borghese.

Poi arrivi e il vociare della carrozza è già lontano. Ti si prospetta l'altra macchia fragorosa. La classe. I primi tempi che non sei allenato, QUELLI Sì CHE SONO TEMPI DURI e tutto costa troppo in termini di SILENZIO, ALLORA LA FINIAMO? VIENI INTERROGATO COSì VEDIAMO SE LA FINISCI UNA BUONA VOLTA!

Poi passa. Passa che deve passare. E basta. Non c'è cazzo. Una cosa buona è quando sei saltato da docente supplente a docente per un anno. Lì è già tanto. Sempre che sei vivo. L'hai superata, bene o male. Certo, i segni restano. C'è gente che in classe ha finito per giocare al gioco di Italia 1. Tutti nascosti sotto la cattedra. Un due tre: il prof grida: Italiaaaaaa? e tutti sbucano da laggiù col loro Uno spaccatimpani.

Chi s'inventa film. Canzoni. I più temerari osano ridere in classe. Se sei al triennio, con quelli più grandicelli, finisce che pensano che non hai voglia peggio di loro o che sei strano perché non urli come un forsennato e allora finisce che si schiantano sul banco. L'ultimo anno vale anche la regola dell'interrogazione rimandata causa festeggiamento 18esimo anno di vita. Vince l'inedia, di solito, al'ultimo anno.

Aspettano che passi. Nei loro occhi leggi tutta la paziente e contenuta voglia di fuuuuuuuugaaaaaaaa!!!

Fugggire. Se bastasse un verbo per i ragazzi dell'ultimo anno: FUGGIRE.  Oppure: EVADERE.

L'anno in cui le programmazioni dovrebbero indicare tra i contenuti non tanto la poesia tra Otto e Novecento. Casomai, l'uscita anticipata dalle 13,30 alle 12,40. La verifica sì che sarebbe una soddisfazione. Oppure i dieci minuti d'intervallo. O i quattro minuti d'assedio alla cattedra per ritardare il solenne eloquio.

La pigrizia del bradipo: questo è la classe.

Tu li invogli con appassionata arringa e i loro occhi emettono un sinestetico vaffanculo. Tu vai sul sicuro con qualche giocata ad arte, per esempio buttarla sul personale, azzardare un "mia moglie...". Lì, come per trasalimento, s'inaugura il new deal del rapporto tra insegnante e alunno.

Dura poco.

Al ritorno a casa i docenti di solito devono aprire la valvola di sfogo. Scaricano a mille la loro giornata affannandosi in commenti improperi risatine isteriche.

Detta così: è proprio un lavoro di mmerda.

In compenso, però... c'è chi ti porta una cosa scritta, chi ti pone una domanda intelligente e non per metterti alla prova, chi avanza una risposta fuori schema.

Ma la notizia notiziona è un'altra. Quella finale, schematica, numerica, da equazione, da lezioncina a pappardella, dalla ministra frittella: fine della scuola.

 
 
 

Notte bianca notte nera

Post n°229 pubblicato il 15 Ottobre 2008 da ditz

La ministra è stramiss

mi scappa stronz ma mi trattengo

se il troppo stroppia si rassegni

distratta non s'avvede dei cobas.

Lei pensa che il docente

è scellerato

non coglie che s'è rott pure o cazz.

Lei piglia e poltroneggia

poi s'assenta

ritorna spara numeri e s'assetta.

La vedi la ministra quanto è strana.

Lei gongola del taglio e del tailleur

scomoda i numeri, sciorina previsioni

mentre il nero della notte  ammutolisce i cuori,

ogni sapienza soccombe ammutinata

. E la grazia e l'arte e la bellezza

 rimangono raminghe tra i docenti

allo sconquasso.

S'aggrappano

impertinenti

e perdenti nel fondo della notte nera

poi s'allontanano

con una risma di sudate carte:

e di lor si spendea la miglior parte.

 
 
 

"Non avevo capito niente" di Diego De Silva

Post n°228 pubblicato il 12 Ottobre 2008 da ditz

Ci porta da qualche porta la voce di Vincenzo Malinconico. CI porta dentro impagabili digressioni. E ce lo dice subito quando ci dice che è "un narratore incoerente", uno che ha "una cattiva tenuta di strada dei pensieri". Che ci vogliamo fare? Punirlo? Protestare? Chiudere un occhio e andare. Così, come viene. In un'epoca di navigatori satelitari ci culliamo negli intermezzi neri e bui. Non c'è la via precisa, non c'è: per uno che s'è perso in una storia aggrovigliata come questa.

E ce lo dice subito. Nell'incipit. Mentre già ci seduce. Appena comincia a raccontare di quello che succede alla fine del suo amore. Del resto che potevamo aspettarci da uno che fa l'avvocato e in un'aula giudiziaria sbaglia la sola frase possibile e la inverte al punto da sciorinare un poetico Può in decisione passare al posto del tecnicamente corretto Può passare in decisione. Un avvocato, dunque, è questo Vincenzo Malinconico con il nome che è tutto un programma. Un avvocato poco morfosintattico. Un po' svitato? può darsi. Certo, sicuramente un po' sfigato visto che viene nominato d'ufficio difensore di camorristi famosi. Lui, che l'ultima causa penale l'ha fatta da più di tre anni. "Un pompiere che deve buttarsi in un incendio senza estintore", "uno studente impreparato diretto alla lavagna".

E visto che ci parla di altruismo fuori luogo nel cpitolo iniziale, quello in cui racconta quanto fa male sentirsi dire che "in fondo lo sapevamo tutti e due" oppure che è "troppo tardi per tornare indiero" e tutte quelle formule imbarazzanti e inadeguate di lei che molla lui: allora sì, lo seguiamo volentieri uno così, uno come l'avvocato Vincenzo Malinconico.

E lo ritroviamo nel capitolo intitolato "Flirtare con le ex", mentre tira fuori il cellulare, lo porta all'orecchio, risponde a un chiamante immaginario e se la dà a gambe, lontano da lei.

Eccolo.

Accelera.

Rallenta.

Poi accelera di nuovo.

Attraversa.

E finalmente se ne va.

E noi con lui. E con il suo pensiero sghembo, col suo linguaggio disarticolato, smembrato. Noi con lui, allibiti e sorridenti.

Come uno che non aveva capito niente.

 

 
 
 

La sera se è sera

Post n°227 pubblicato il 03 Ottobre 2008 da ditz

Non è neroplumbea. Non pesa.

Se sa di qualcosa sa di pentole.

Pentole a fuoco lento

acceso da tempo immemore

per addormentare i mormorii di fame.

Non è neroplumbea. Non pesa.

Se brucia

brucia su qualche nota di Capossela

mentre sventra la sensatezza perfetta

del giorno che pesa.

La sera: non è un intonaco

per tappare pareti luride e bucate

da inettitudine.

La sera se s'affaccia

s'affaccia a poco a poco

tra tintinnii di posate

che usano i bambini

tanto per usare, tanto per osare:

ogni din è uno sgominare bande di silenzi

in fila per due

comandati dai soldati pensieri,

dai pensieri assoldati.

La sera se odora non odora di fatal quiete:

è casomai un tango inventato sopra inquiete tenebre

e lunghe.

Se graffia, la mia sera, quando graffia,

è il graffio sulla padella

lo smacco del fato

sulla tavola apparecchiata

dalla vecchietta-ziatta gucciniana.

Si riconosce eccome, la sera quando è una sera unanime

come nelle finzioni borgesiane:

all'incrocio quando il viavai

si fa più lento e tace

dentro l'audacia d'un sogno ruvido

come la grattugia sul reale.

 
 
 

Domina(nte)

Post n°226 pubblicato il 01 Ottobre 2008 da ditz

Avete presente le mogli, no?

Appena dici una cosa. Tipo: forse piove.

Oppure: ma l'asilo dove mandiamo il bambino sarà poi così buono?

Graaaauurrrrrrrrrrrrrr.

Sono sempre cortesi e disponibili al dialogo.

Mi piace il loro modo di approcciarsi all'altro.

Non come noi uomini.

Graaauuuurrrr.

(Mi sgranchisco la gola).

Macché!

 
 
 

Sciopero e Schopenhauer

Post n°225 pubblicato il 28 Settembre 2008 da ditz

Lo so quello che pensano quelli che hanno un altro lavoro. Pensano che c'è andata bene per troppo tempo. Pensano che avevamo malattia retribuita e diritti. Pensano anche che in classe non facevamo niente come alcuni docenti di qualche decennio fa: quando si fumava nelle aule, per i corridoi, in presidenza. Quando volavano ceffoni e prese in giro.

Cristo santo. Hanno fatto bene quelli che se ne sono rimasti alla larga. Quelli che ci sfottevano per tutta la pazienza eroica con la quale appianavamo le irruenze giovanili.

Hanno fatto bene quelli che hanno rubato davvero i soldi allo stato. I furbetti, quelli senza educazione civica addosso. Li guardavamo dal'alto in basso solo perché sbagliavano congiuntivi, parlavano a vanvera, non avevano dimistichezza con il raziocinio, con il pensiero, con la cultura.

Avevano ragione a bivaccare presso uffici di consiglieri. Quelli che hanno sostituito la parola raccomandazione con segnalazione, mentre noi sgobbavamo a correggere decine di compiti.

Gli stipendifici: non credevo che la scuola potesse essere considerata macchina di stipendi. Stipendificio l'ho sempre associato a tanti altri posti di lavoro: lì si sono sempre adagiati culi stanchi alla nascita, con Gazzetta dello sport spalancata sulla scrivania, battutine beote, cervelli inani al pensare. E invece no. Hanno vinto loro.

Nel ciclo dei vinti quest'anno inserirò i docenti. Me ne fotto della programmazione. C'è stata una guerra. I docenti hanno perso. Ha vinto il terrorismo. Un terrorismo in tailleur.

 
 
 

Nessuno tocchi Latino

Post n°224 pubblicato il 25 Settembre 2008 da ditz

Aderisci con un messaggio. Facciamolo girare per le scuole.

Se qualcosa va tolto non è il Latino. Casomai, il modo di insegnarlo. Casomai, i programmi ministeriali. Se qualcosa va tolto, è insistere sulla regola, pretendere dal ragazzo che si specializzi.

Per il resto, chi solo per sbaglio lo pensa, allora no. Non ha capito una cosa che sta a cuore a tutti: la bellezza. Chi pensa che si possa vivere dimenticando che cos'è il Latino, allora sappia che sta subendo: sta andando sotto.

Quand'ero piccolo la bellezza la vedevo a tratti. Non sapevo, per esempio, che la parola collegio è bella. A me, adulescentulus, suonava male. Era sinonimo di lavoro per prof. E non andava bene.

Collegio è una parola bellissima nel significato di cum e lego. Raccolgo insieme. Metto insieme le voci, le idee, le parole, i fatti, i dati, gli umori, le urla, i capricci. E poi decido. Sempre insieme.

E decidere è un'altra parola bellissima perché a occhio e croce significa tagliar via ciò che non è una scelta. E lasciare solo la scelta. De e caedo. Se avete presente.

Il probema tecnico del ministro è che ha deciso per tutti. Senza collegio. Senza quei tutti. E quei tutti  ogni mattina aiutano i ragazzi a legere latinum, a raccogliere le parole da un tempo lontano e mitico per farle risuonare in un tempo vicino e goffo.

Ha a che fare con la bellezza, il Latino. E con la forza. E con la dignità. Con la sapienza. Con la lontananza. E con i gesti misurati. Ha a che fare con Quel che resta del giorno. Con la perfezione compassata di un maggiordomo. Nemmeno uno qualunque: Anthony Hopkins. Ha a che vedere con il Tempo: non sopporta, non tollera, né sostiene il peso del dimenticare. Si offende, se viene espunto. E si sporge da qualche millennio fa a ricordare, a dare ancora una volta il cuore.

Verrebbe da dire: Quo usque tandem abutere, Gelmina, patientia nostra?

Ma rovineremmo tutto con quel vocativo indecente.

Allora intoniamo il nostro: Nessuno tocchi Latino.

 
 
 

Ieri oggi domani

Post n°223 pubblicato il 24 Settembre 2008 da ditz

Quando morì Ottaviano Augusto alla veneranda età di 71 anni il potere se lo ritrovò in mano Tiberio. Ora va detto che Tiberio, tutto quel potere lì, non è che proprio ci tenesse particolarmente ad averlo. Anzi. Eppure lo ebbe e lo dovette gestire. Lo ebbe e lo dovette gestire per una fatalità. Una circostanza fortuita ma mica tanto: non c'erano altri eredi.

Così, il timido e schivo Tiberio, nonostante una naturale ritrosia al comando, si vide catapultato nelle vertiginose altezze del potere. Era diventato princeps: ma a differenza del suo predecessore non sentiva di poter incarnare poteri terreni e divini. Per dirla con le parole del Mazzarino, era un princeps ma non si sentiva né un dominus né un dio.

La sua idea della politica era chiara: evitare che il principato continuasse sui binari dell'assolutismo. L'uomo forte che concentra tutto il potere nelle sue mani era un'idea che non lo affascinava. Non ambiva al dominio, Tiberio. E siccome preferiva la strada della collegialità, cioè della res publica, alla fine pareva fosse un princeps dalla parte dei senatores.

Non era bravo a guidare Roma. E infatti si defilò andandosene a vivere a Capri; non era, insomma, quello che oggi si direbbe un decisionista.

Certo non era uno di quelli che si fanno rimpiangere. A meno che il successore non sia talmente pieno di sé da far pensare che forse era meglio l'altro. E Caligola era davvero troppo pieno di sé. Pensava di essere una divinità, un nume, un'entità sacra e intangibile. Il suo modo di guidare Roma fu l'esatto contrario di quello di Tiberio: fasti, cerimonie, sfarzi, elargizioni a pioggia, stravaganze, pazzie. Se non fosse che era princeps e che aveva il compito di governare Roma, alla fine sarebbe parso simpatico. Certo più simpatico di Tiberio.

Magari non c'entra niente. Ma se ci pensate sembra un po' la storia d'Italia degli ultimi anni. Uno abbastanza normale, anche troppo, a cui succede uno che di normale proprio...

 
 
 

Precario fregato

Post n°222 pubblicato il 16 Settembre 2008 da ditz

Si ricomincia. Primi giorni di scuola. Prime lamentele. I docenti si lamentano nell' ordine di:

- orario, ore buche, prime e ultime, giorno libero, caldo, alunni, preside, altri colleghi, treni regionali scandalosi (solo i pendolari: e qui ci sono pure io), orario dei consigli futuri, collegio docenti di maggio. Ex preside, genitori, circolari,  registro personale,  registro di classe.

Nessuno che parli mai di cultura, libri, sapere, conoscenze, poesie, equazioni, leggi fisiche, formule chimiche, fatti storici, luoghi geografici, etimologie, romanzi, film, quotidiani.

Solo lagne.

Non si lamentano tanto neppure della Gelmini perché molti di loro sono di ruolo e non hanno nessuna voglia di lottare per difendere diritti sacrosanti di pendolari ammutoliti dalla paura. Si fanno i cazzi loro. E le classi muoiono di inedia. La maggior parte dei docenti di ruolo se ne fotte: gli unici che nella scuola lavorano con umiltà e passione sono i precari.

Ma chi li difende, i precari?

 
 
 

Allenati con l'incipit  (Racconto a mille mani)

Post n°221 pubblicato il 01 Settembre 2008 da ditz

Alle otto il signor Burningstone esce. Si getta nella mischia e maledice il lavoro, il traffico e l'alba minacciosa di luce a casaccio sulle case ancora pitturate di notte. Alle otto e qualcosa il signor Burningstone sbaglia la frenata, arriva lungo al semaforo e decide in una frazione di secondo di passare col rosso. Alle otto e cinque il signor Burningstone arriva all'edicola, accosta, si sporge lungo lunghissimo dal finestrino, per poco non gli si blocca la schiena, un euro all'edicolante, il giornale in mano, soddisfazione. Riparte che sono le otto e sette.

Questo è tutto quello che sappiamo del signor Burningstone. Questo è tutto quello che fa ogni volta. Minuto più minuto meno. Poi sparisce dietro una montagna di traffico. In qualche buco nero di una qualsiasi tangenziale. Sepolto vivo nei grappoli di auto a singhiozzo dentro una statale qualunque, di un giorno qualunque. In un perfetto show dell'anonimato, nella vigilia rarefatta di bagliori lenti, di ribalte solo desiderate.

Chi è per l'appunto il signor Burningstone?

 
 
 

Blog Babol

Post n°220 pubblicato il 25 Agosto 2008 da ditz

I blog. Quei blog tutticolorati. Stellati. Dove prevale il rosa. Quei blog babol. Esatto. Proprio così. Quegli enormi blog rosati e profumati come palloni gonfiati da bocche iper allenate a Big Babol.

Quelle che appena entri ti maciullano con qualche pezzo di Celine Dion a palla. Tanto è sicuro che poco prima avevi seguito un filmato interessantissimo su qualche sito delicatissimo e siccome la voce arrivava e non arrivava avevi alzato il volume a 97.

Poi la curiosità ti dice. Ma sì. Vediamolo 'sto blog. Pare niente male. Clic.

BbbbbOOOOOOOaaaaato.

Ma chi cazzo mi mandava a me?

Ecco. Anche i Blog Babol non mi piacciono tanto. A me.

 
 
 

A me non mi piace

Post n°219 pubblicato il 24 Agosto 2008 da ditz

A me non mi piace che le trame dei film abbiano lo stesso canovaccio di quelle precedenti. E gli stessi attori, quasi tutti. Più che Saturno contro direi Contro Saturno.

Mi piace però il colore che Ozpetek ci mette. E mi piace pure la colonna sonora. A parte Remedios in continuazione. Mi piace Carmen Consoli in francese. E mi piace il tango Accorsi-Ferrari con  la camera che li segue fino alla porta a vetri e poi li lascia con una magnifica retromarcia d'autore. In attesa di vedere Un giorno perfetto.

A me non mi piace fare la trottola. Ho l'età della pantofola. Mi piace, combinazione, ritrovarmi a guardare Medea e la luna tra argonauti di ritorno dalla Colchide, col vello d'oro, e l'effrenata ambizione di Giasone, e il torpore urlato di Medea, e l'urlo ovattato della tragedia.

A me non mi piace la pizza alla napoletana. Mi piace quella sottile. E il pomodoro non finto e colorato. Doppio a me mi piace. E vero.

A me non mi piace la sinistra da una vita. M'è piaciuto tanto SignorinaEffe di Wilma Labate. Filippo Timi sfasciasentimenti sindacalista mi piace assai. A me. Chissà se è piaciuto alla sinistra. Sempre se l'ha visto.

A me mi piace l'incipit di un romanzo di Moravia: Gli indifferenti. Solo che non mi piace trascriverlo. Non ho pazienza: fatevi un copia e incolla d'ordinanza. E gustatevi la piccola Carla in balia dell'uomo navigato.

A me non mi piace la notizia della ministra Gelmini sui prof meridionali poco preparati. Mi piace la smentita della Gelmini sui prof meridionali poco preparati.

A me non mi piacciono le ipotattiche.  Non s'era capito.

E mi piacciono le forme d'enfasi. A me. Ma assai.

A me non mi piace il caffè zuccherato. Mi sa di minestra riscaldata.

Mi piace bello amaro e nero. Un bel caffè incazzato.

A me non mi piacciono i sandaletti in spiaggia. Mi piacciono gli infradito. I sandaletti no. Mi fanno cagare, i sandaletti. Gli infradito mi piacciono anche se ti fanno una spanna più nano di quello che sei. Allora, dici, ora provo con le Crocs. E ho provato con un paio di Crocs tarocche comprate l'anno scorso in un raptus di follia shoppinara tra i vicoli di Tropea.

Con tutto quel celeste mare di Tropea, dico, ma a me gli occhi mi dovevano inciampare proprio dentro i buchi neri delle Crocs?

 
 
 

A quattr'occhi

Post n°218 pubblicato il 24 Agosto 2008 da ditz

 
 
 

Sliding doors

Post n°217 pubblicato il 24 Agosto 2008 da ditz

 

 
 
 

Verde obliquo

Post n°216 pubblicato il 24 Agosto 2008 da ditz

 
 
 

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È RIDICOLO CREDERE

È ridicolo credere
che gli uomini di domani
possano essere uomini,
ridicolo pensare
che la scimmia sperasse
di camminare un giorno
su due zampe

é ridicolo
ipotecare il tempo
e lo è altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in piú tempi

e piú che mai
supporre che qualcosa
esista
fuori dall'esistibile,
il solo che si guarda
dall'esistere.



(Eugenio Montale, Satura; Satura II)

 
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TAMARA

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PARANOID ANDROID - RADIOHEAD

Please could you stop the noise
I'm trying to get some rest?
From all the unborn chicken voices in my head
What's that, what's that

When I am king you will be first against the wall
With your opinion which is of no consequence at all
What's that, what's that

Ambition makes you look pretty ugly
Kicking squealing gucci little piggy

You don't remember, you don't remember,
why don't you remember my name
Off with his head man, off with his head man
Why don't you remember my name?
I guess he does

Rain down, rain down, come on rain down on me
From a great height, from a great height, height
Rain down, rain down, come on rain down on me
From a great height, from a great height, height

That's it sir, you're leaving,
the crackle of pig skin,
the dust and the screaming
The yuppies networking
the panic, the vomit,
the panic, the vomit
God loves his children,
God loves his children, yeah

 
 

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