Creato da aliasnove il 10/01/2013

IL LAVORO

Nell'era della globalizzazione

 

 

TUTTI I SOGNI DI UN CHIRURGO DI MILANO

Post n°355 pubblicato il 14 Agosto 2021 da aliasnove

Quando Soran venne travolto dallo scoppio di una mina aveva dodici anni. Era il 1996. In ospedale arrivò in trattore. Fu ricoverato al Centro chirurgico di Emergency a Suleymaniya, nel Kurdistan iracheno, il primo aperto in Iraq. I medici gli amputarono una gamba, poi gli costruirono una protesi. Qualche anno fa ha fatto visita a Gino Strada: oggi Soran è un avvocato e ha due figlie. Il paziente di cui non si sarebbe mai dimenticato, così Strada lo aveva chiamato.

IN IRAQ EMERGENCY era arrivata appena un anno prima. C’è ancora: soltanto lì ha curato 1,6 milioni di persone. L’impatto di un’organizzazione non la dovrebbero dare solo i numeri. Ma quelli raccolti negli ultimi 26 anni da un chirurgo di Milano sono talmente smisurati da far pensare che davvero sia riuscito a fare guerra alla guerra.

Gino Strada se n’è andato ieri a 73 anni, in Normandia, accanto alla moglie Simonetta. La notizia l’ha data la famiglia, provocando un dolore vero, palpabile nella pioggia di messaggi che hanno invaso i social. Impossibile scorrerli tutti. C’è ovviamente quello della figlia Cecilia, ex presidente di Emergency.

Lo ha scritto dal Mediterraneo, a bordo della nave ResQ People: «Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh ero qui con la ResQ-People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre». Poco dopo la nave avrebbe soccorso 85 migranti, portati da un barchino di legno.

Lo ha ricordato Emergency con la sua presidente Rossella Miccio: «Siamo frastornati e addolorati. È una perdita enorme per il mondo intero. Ha fatto di tutto per rendere migliore il mondo». E con lo staff, sparso per il pianeta: «A conoscerlo meglio si vedeva che sapeva sognare, divertirsi, inventare mille cose. Non riusciamo a pensare di stare senza di lui, la sua sola presenza bastava a farci sentire tutti più forti e meno soli».

QUANDO HA SOGNATO più forte, è nata Emergency. Nel 1994 in una serata milanese, a cena a casa con l’amatissima moglie Teresa Sarti, scomparsa nel 2009, e con l’amico Carlo Garbagnati. Cosa successe dopo quella sera lo raccontò Strada in un’intervista al Corriere, erano gli anni dei massacri ruandesi: «Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi arrivarono 850 milioni».

Ventisei anni dopo Emergency ha offerto cure chirurgiche di alta qualità a oltre 11 milioni di persone in 19 paesi, gratis. Una persona al minuto, in Afghanistan, Algeria, Angola, Cambogia, Eritrea, Iraq, Libia, Nepal, Nicaragua, Palestina, Repubblica Centrafricana, Ruanda, Serbia, Sierra Leone, Sri Lanka, Sudan, Uganda, Yemen.

E in Italia, dove dal 2006 gestisce ambulatori da nord a sud, da Marghera a Castel Volturno, perché la sanità di qualità è diritto di tutte e tutti. Una mole di esperienza tale che dal 2015 Emergency ha uno status consultivo al Consiglio economico e sociale dell’Onu.

NATO NELL’OPERAIA Sesto San Giovanni il 21 aprile 1948, Gino Strada si è laureato in medicina e chirurgia alla Statale di Milano, per poi specializzarsi in chirurgia d’urgenza. Sono gli anni dell’impegno politico con il Movimento studentesco, insieme a Mario Capanna, Sergio Cofferati, Salvatore Toscano.

Per lui che veniva da una formazione cattolica, è l’ingresso nella sinistra marxista extraparlamentare. Negli anni successivi studia e lavora nelle università di Stanford e Pittsburgh, in Inghilterra e poi in Sudafrica a Città del Capo.

LE PRIME ESPERIENZE umanitarie sono con la Croce Rossa tra Africa e Asia. Poi il genocidio in Ruanda cambia la prospettiva: l’associazione ristruttura e riapre i reparti di chirurgia e di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Kingali. Di lì a poco Emergency arriva in Iraq (1995) e in Afghanistan (1998), poco tempo prima della cosiddetta guerra al terrore lanciata da George W. Bush e dalla «coalizione dei volenterosi» dopo l’11 settembre. Conflitti barbari contro due popolazioni civili, centinaia di migliaia di morti, due Stati falliti le cui macerie non sono mai state portate via.

Solo ieri La Stampa pubblicava l’ultimo articolo di Strada, scritto mentre i Talebani proseguono senza ostacolo alcuno nella loro tetra avanzata, dopo il ritiro delle truppe occidentali. Ogni città conquistata, un nugolo di sfollati: «Ho vissuto in Afghanistan sette anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza mentre il paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi».

ALL’EPOCA, tra il 2001 e il 2003, Emergency fu in prima linea nel movimento contro la guerra. Con una posizione ben più complessa del mero pacifismo, una posizione attiva, politica, che aveva al centro la guerra alla guerra ma anche alle diseguaglianze sociali. Strada lo ripeteva sempre, «non sono un pacifista, sono contro la guerra».

La combatteva: negli ospedali, nei cortei, nelle campagne per la messa al bando delle mine anti-uomo, nelle critiche durissime a ogni governo italiano e alle politiche bipartisan di aumento costante delle spese militari. La giacca non se l’è fatta tirare mai, nemmeno dal secondo posto alle Quirinarie dei 5Stelle: quando formarono il governo con la Lega, la definì «una banda dove una metà sono fascisti e l’altra coglioni».

E COMBATTEVA le ingiustizie sociali ed economiche: con Libera dell’amico Don Luigi Ciotti («Un lottatore, un uomo che ha vissuto non solo per sé ma per gli altri», ha detto ieri) e con Alex Zanotelli e don Gallo, lui ateo convinto; accanto alla Fiom per i diritti del lavoro partita dalla Fiat di Pomigliano e proseguita con l’esperienza della Coalizione sociale di Maurizio Landini («Si vantava di avere in tasca solo due tessere: quella dell’Anpi e quella onoraria della Fiom», il ricordo del segretario della Cgil); con il lancio del “Manifesto per una medicina basata sui diritti umani” che insieme a undici paesi africani ha portato alla nascita dell’Anme (la Rete sanitaria d’eccellenza in Africa) e con un ospedale in Uganda disegnato da Renzo Piano perché «lo volevo scandalosamente bello».

Gli ultimi mesi lo hanno visto impegnato sul fronte anti-Covid, sempre su due piani, sanitario e politico. Vicino a diventare commissario straordinario della Calabria nonostante gli strali del presidente della Regione Spirlì («Strada? Incontro tutti tranne il demonio»), nel novembre 2020 ha virato sull’intervento di Emergency all’ospedale San Giovanni di Dio di Crotone per aumentare posti letto e personale: una tensostruttura, la gestione del reparto Covid2 e della subintensiva e la pressione per riaprire i tanti ospedali pubblici chiusi e porre un freno «ai viaggi della speranza di tanti calabresi».

IN PIENA PANDEMIA Strada ha battuto la strada della centralità del vaccino. Lo ha fatto aggredendo le diseguaglianze globali nell’accesso allo strumento di uscita dalla crisi. In un articolo per L’Espresso dello scorso febbraio chiedeva la cancellazione dei brevetti e la messa a disposizione delle dosi ai paesi poveri citando l’«apartheid vaccinale» coniata dall’economista indiana Gosh.

«Un’equa distribuzione dei vaccini è una questione di rispetto dei diritti umani e anche di lungimiranza. Se le vaccinazioni non procederanno speditamente e diffusamente ovunque, rischieremo che da qualche parte del mondo si sviluppino altre mutazioni del virus».

Una vita piena, che il premio Nobel alternativo, il Right Livelihood Award, vinto nel 2015 ha solo fotografato. A ridarla indietro sono undici milioni di pazienti e un avvocato iracheno.  Chiara Cruciati il manifesto

 
 
 

LA CULTURA DEL SOSPETTO COME FENOMENO POP

Post n°354 pubblicato il 25 Luglio 2021 da aliasnove

A volte i popoli impazziscono. O impazziscono piccole porzioni di popolo, come quelle che si ritrovano in piazza in questi giorni, segno di tempi deragliati. Indecifrabili nella loro composizione scomposta, con i leghisti e i fascisti mescolati ai bene-comunisti, ai dentisti e agli apprendisti o ai giuristi d’assalto, incarnazione di un’eterogeneità sociale accomunata solo dall’assurdità di una pretesa irricevibile: dalla rivolta contro un provvedimento-simbolo come il Green Pass che in tempi di pandemia mortale appare mera proposta di buon senso e senza dubbio male minore, e che invece viene identificato come attentato a una libertà confusa con l’affermazione dell’assoluto diritto al proprio personale capriccio.

Espressione, a sua volta, della rottura di ogni principio di responsabilità verso gli altri, del loro ben più sostanziale (e costituzionalmente sancito) diritto alla salute e alla sopravvivenza, come se l’affermazione che «la mia libertà si arresta dove comincia quella del mio vicino» avesse perso di significato, e ognuno si ergesse nella propria solitudine sovrana al di fuori e al di sopra di ogni legame sociale.

Sono, dobbiamo dircelo, piazze foriere di sciagura, gravide di presagi inquietanti e di ombre nere, con un pesante retrogusto fascistoide. Mi ha colpito il cartello levato in Piazza Castello a Torino, «Meglio morire da liberi che vivere da schiavi», perché ricorda il «Meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecore» di mussoliniana memoria.

Così come mi si drizzano i capelli quando sento i fascisti di Meloni o di Forza nuova levare il proprio inno alla libertà, perché so che la loro libertà è la pretesa degli autoproclamati Signori di vessare gli altri ridotti a Servi.

Ma quelle piazze non sono riducibili solo a quell’anima nera, sono molto più eterogenee, trasversali, articolate, coacervo di sentimenti contraddittori, e per questo tanto più preoccupanti, perché parlano di una «crisi della ragione» più vasta. Di un disorientamento più diffuso, se in tanti sentono di doversi mobilitare per danneggiare sé e gli altri, credendo di difendere giustizia e libertà.

Per questo tento disperatamente di seguire l’amletico motto che ci dice che, nonostante tutto, «c’è della logica in questa follia». O quantomeno bisogna cercarla. E il primo pezzo del dispositivo logico che sta dietro questo sconquasso si chiama «cultura del sospetto». O meglio il ribaltamento di essa da raffinato strumento filosofico in «fenomeno Pop». Con quell’espressione Paul Ricoeur aveva indicato il pensiero di «maestri» come Marx, Nietzsche, Freud, oltre a Schopenhauer che avevano insegnato, per vie diverse e divaricate, a non confondere le immagini di superficie con la verità, e a cercare «sotto» e «oltre» le narrazioni ufficiali.

Quell’approccio aveva alimentato il pensiero critico delle minoranze ribelli novecentesche, delle avanguardie culturali e rivoluzionarie, poi invece, nel nuovo passaggio di secolo, era diventato atteggiamento di massa, senso comune popolarizzato e aizzato dal web: diffidenza sistematica e disprezzo delle élites. Non senza ragioni (per spiegarlo): le menzogne del potere, delle sue classi dominanti, dei suoi mezzi di comunicazione sono sotto gli occhi di tutti. Ma senza l’uso della ragione per selezionare il vero e il falso. E per orientare i comportamenti di risposta che sono stati, appunto, quelli che vanno sotto il nome di populismo, orientati a una sorta di rozzo «fai da te» informativo e da una passiva dipendenza operativa dal demagogo di turno.

Le persone che riempivano quelle piazze erano state oggetto, per anni, per decenni, di false narrazioni da parte di detentori del potere che presentavano come progresso il regresso, come paradiso il deserto delle anime, come benessere il loro business. Per anni erano state vittime dei raggiri e delle malversazioni di Big Pharma (lo possiamo negare?). Ma nello stesso tempo, nella struttura materiale delle loro vite (flessibili, destrutturate e sempre più liquide) erano state private degli strumenti (dell’esperienza) per ragionarci sopra, per praticare l’arte difficile della separazione tra gli elementi di un fenomeno, cosicché oggi non ci possiamo stupire se non riescono più a distinguere tra la truffa sugli antidepressivi e la risorsa salvifica di un vaccino.

Tra la farmacologia come business e quella come cura. O, più in generale, tra la vocazione a mentire del potere così come praticata sistematicamente in questi decenni, e la necessità di alcune (rare) decisioni razionali di quello stesso potere, a cui sarebbe autodistruttivo sottrarsi.
Non dissolveremo le nuvole minacciose che salgono da quelle piazze con gli esorcismi o le deprecazioni.

Tantomeno confondendoci con quelle figure istituzionali che hanno enormi responsabilità nell’aver scavato l’abisso che oggi le separa da pezzi consistenti di società sfarinata. Se un luogo c’è, per quelli come noi, per lavorare, è al livello del suolo, dove le vite si compiono o si perdono, e dove solo il ricupero di esperienze autentiche di relazione e di lavoro può frenare la caduta.  Marco Revelli  il manifesto

 
 
 

CHI HA FATTO PALO?

Post n°353 pubblicato il 11 Luglio 2021 da aliasnove

Con le finestre aperte nelle sere d’estate ecco che arriva l’urlo lancinante: «Chi ha fatto palo». Dunque torna la stagione fantozziana sospesa tra subalternità, disperante comicità della diffusa solitudine, il tutto dentro un vuoto affluente dove il «palo» altro non è che la realtà mancante, la rete segnata che non viene…ma basta il palo per entrare nella magnificenza della verità televisiva. Si dirà che il goal poi è arrivato e arriverà a soddisfare l’empito di massa. Ma il vuoto resta. È quello del presente e del futuro del Paese.

Dove, a pandemia non ancora finita, gli appetiti dei privati sulla sanità pubblica tornano all’arrembaggio; mentre dovrebbe esser chiaro una buona volta per tutte che siamo vivi e salvi solo perché nonostante tutto è rimasto in piedi, grazie a lotte dimenticate, il servizio sanitario pubblico; e invece nei sistemi sanitari differenziati, quelli regionali – il modello Lombardia p.s. -, è un corri corri a spartirsi l’immensa torta che si prepara. Dov’è il misfatto? Che i privati nella sanità esistono quasi esclusivamente solo grazie ai finanziamenti pubblici sottratti alla salute collettiva.

E il vuoto resta sulle condizioni di sfruttamento del lavoro. Nei quattro giorni seguenti alla firma dell’accordo sullo sblocco dei licenziamenti, con tanto di « avviso comune» e «raccomandazioni», due aziende, una di Assolombarda e l’altra una multinazionale, hanno licenziato via mail 150 persone nel primo caso, 422 nel secondo.

Confindustria licenzia appena può. Tanto la «penale» sarà il soccorso integrativo dello Stato. Ormai il salario dei lavoratori è di fatto pagato dalla collettività anche per sostenere – questo è il paradosso – l’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione. Eppure in piena pandemia 20 milioni di persone hanno continuato a lavorare ogni giorno, in presenza e/o in telelavoro da più di un anno e mezzo. Meriterebbero riconoscimenti, invece sono minacciati dal «ritorno alla normalità», la nuova ideologia che sostiene gli interessi del finanz-capitalismo e che è il pane quotidiano dell’onnivoro governo di tutti, il governo Draghi, che rappresenta una rendita di posizione della destra: dalla residua Fi, alla sovranista Lega fino all’estrema destra di Fd’I che infatti fa – premiata – l’opposizione di sua maestà. E che dire della rendita di Matteo Renzi che, sicuro del «contributo» del principe assassino saudita bin Salman, decide che è «diseducativo» il pur modesto e povero reddito di cittadinanza e lancia un referendum per abolirlo?

Invece, con l’«occasione» della pandemia proprio nulla dovrebbe tornare come prima, e il lavoro dovrebbe essere garantito e sottratto alle logiche del mercato. Il sindacato con quell’accordo ha voluto giustamente misurato la sua forza contrattuale, ma stavolta è in gioco il rapporto di forze tra le classi. E se, come appare ormai evidente, nessuna raccomandazione è obbligo e vincolo e quell’accordo rischia di essere stracciato, non può fare altro che riaprire i tavoli della trattativa con il governo – non solo caso per caso, come sta accadendo – cominciando a chiamare alla lotta i protagonisti, i lavoratori stessi.

Nel frattempo si squaglia la principale forza del Parlamento, il M5S per effetto di un conflitto quasi familiare, sembra un Edipo non risolto, preparando una deriva a destra ancora peggiore. Il Pd che agita il cacciavite non dà segnali di alterità, a sinistra ci sono pietruzze non di un mosaico da ricomporre – solo pochi lavorano a comporlo – ma di un malmesso acciottolato. E così, sarà pure bello far l’amore da Trieste in giù, ma la democrazia italiana è perfino incapace di decidere su un importante e pur modesto ddl che enuncia e denuncia la libertà di amare chi si vuole e l’omofobia correlata all’integralismo legato a ogni religione.

Ma il vuoto affluente è macroscopico per quel che riguarda la crisi internazionale, in particolare l’Unione europea. Di Maio ha brindato nell’ambasciata Usa con il segretario di Stato Blinken sul «profiquo partenariato» con la Nato e gli Stati uniti. Ma gli fosse scappata una parola sul disastro afghano che si consuma sotto i nostri occhi, dove abbiamo impegnato in guerra per 20 anni migliaia di soldati e montagne di danaro al seguito della vendetta americana per l’11 Settembre 2001, contro un nemico che fino a poco prima era interlocutore degli interessi di Washington. E dove gli «effetti collaterali» dei raid atlantici hanno provocato tante vittime civili favorendo i talebani; ora, alla chetichella, ci ritiriamo senza «vittoria», com’era annunciato, mentre i talebani riconquistano il Paese e l’esercito da noi addestrato fugge. E fuggono in massa gli afghani. Che chiameremo poi «rotta balcanica». Ora l’Italia viene minacciata dall’Isis, che in Afghanistan combatte contro i talebani nostri nemici, mentre il governo corre ad aprire basi militari nel Sahel che la Francia in questi giorni sta chiudendo. Surrogata dalla Nato, non ha abbiamo una politica estera ma un «ottimo» import export di armi.

Il fatto è che Di Maio si accontenta, come ha denunciato Angela Merkel all’ultimo Consiglio europeo fallito su migranti e vertice con la Russia. «Penso – ha denunciato Merkel – che tra le prerogative della sovranità ci debba essere quella di rappresentare e difendere i propri interessi invece quello che è stato deciso qui è che ci dobbiamo accontentare di informazioni di seconda mano dagli Stati uniti».

Perdipiù in un vertice dove nessuno ha avuto il coraggio di chiedere al segretario di Stato Blinken le ragioni dello spionaggio americano ai danni di Merkel e Macron da poco svelato. Per una Ue che vedrà a settembre l’addio di Merkel, l’unico baluardo «social democratico-cristiano», nonostante l’ordoliberismo, di una realtà comunitaria che resta, dopo la Brexit e l’insidia dei sovranismi reazionari dei Paesi dell’Est, solo una grande deposito di carta moneta stampata da distribuire. Tanto che Mattarella – che, con rievocazione pertiniana, sarà presente alla finale di Wembley (il ciclo si chiude) – è corso da Macron per un «asse» vista l’incerta Unione che verrà (non è dato sapere se abbia chiesto o meno di Ustica al presidente francese).

Tranquilli. Ai profughi, alla grande migrazione epocale aggravata dalla pandemia, che origina da scarsità di risorse, clima al precipizio, miseria, diseguaglianze e nostre guerre «umanitarie», continueranno a pensarci la criminale «guarda costiera» libica e il Sultano atlantico Erdogan. È una notte magica. Chi ha fatto palo? Tommaso Di Francesco  il manifesto

 
 
 

I BUCHI NERI DEL CAPITALISMO E DEL SINDACATO

Post n°352 pubblicato il 19 Giugno 2021 da aliasnove

La logistica si sta rivelando ogni giorno di più come il vero cuore nero del capitalismo italiano. Il punto di snodo delle linee strategiche del modello produttivo dominato dalle grandi piattaforme, quello dove con maggiore intensità si scaricano i processi di accelerazione in corso e, di conseguenza, si esasperano i livelli dello sfruttamento e le tensioni nel rapporto capitale-lavoro.

La morte atroce di Adil Belakhdim davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate ne è una terribile conferma. Riproduce il profilo della più classica conflittualità sindacale in tempi d’imbarbarimento dell’agire padronale, quando si arriva a toccare la nuda vita, e a toglierla, in un contesto nel quale la logica del profitto mostra di non rispettare più nulla, né leggi dello Stato (di uno Stato che ha abdicato alla propria sia pur formale imparzialità) né della decenza.

Adil era il coordinatore novarese del Si Cobas, sindacato radicatissimo nel comparto ma spesso ignorato o marginalizzato ai tavoli negoziali, aveva 37 anni, due figli, e la dignità di chi non abdica ai propri diritti. Ora sappiamo che il presidente del Consiglio Draghi chiede di “fare piena luce”. E ci domandiamo: “su cosa?”. Basterebbe una sia pur fuggevole occhiata ai fatti, di oggi e delle settimane passate, per capire.

Qualche giorno fa a Tavazzano, vicino a Lodi, l’aggressione a un altro picchetto dei lavoratori Si Cobas da parte di energumeni sul modello tardo ottocentesco dei Pinkerton americani, a terra numerosi lavoratori, uno in gravi condizioni. E prima ancora, gli scontri a San Giuliano Milanese, sempre in quel triangolo incandescente della logistica che sta tra lodigiano, cremonese, piacentino – punto d’incrocio dei grandi assi autostradali su cui viaggiano, ininterrotti i flussi di merci – dove il nuovo far west del lavoro mette in scena il proprio mucchio selvaggio.

All’origine di tutto l’iniziativa della FedEx TNT, gigante della trasportistica globale – circa 400.000 collaboratori, 160.000 veicoli, 657 aerei, 22,4 miliardi di dollari di fatturato – grande beneficiata dalla pandemia, che fin da febbraio ha deciso di chiudere il proprio hub piacentino, dove i Cobas erano maggioritari, lasciando a casa centinaia di lavoratori e distribuendo le proprie sedi logistiche nei capannoni lodigiani e milanesi, dove appunto i licenziati hanno inseguito il proprio lavoro disperso e sono stati accolti a sprangate.

È un anticipo di come questi padroni intendono la “ripartenza” e interpretano la fine del blocco dei licenziamenti. Draghi, se vuole la luce, farebbe bene ad accenderla in casa propria. Ma questa storia non parla solo dell’imbarbarimento padronale. Parla anche di un fallimento storico del sindacato confederale. Del buco nero che il suo abbandono dei canoni più propri del sindacalismo classico ha lasciato scoperto.

Della sua incapacità di tutelare le fasce più sfruttate (spesso composte da lavoratori migranti, i più vulnerabili). Della sua pervicace volontà di
tagliare fuori le rappresentanze di base dalle trattative. Talvolta della sua, reale o apparente, connivenza con una controparte che non sanno, o non vogliono, contrastare come si dovrebbe.

Non si deve dimenticare che lo sciopero per cui Adil è morto si svolgeva nel quadro della giornata nazionale di mobilitazione della logistica proclamata da tutto il sindacalismo di base contro gli episodi di “squadrismo padronale” ma anche contro il contratto nazionale di lavoro di recente siglato dai Confederali e considerato, appunto, collusivo. Così come fa male, a chi ha conosciuto la Cgil in altri tempi, sapere che
l’intervento della polizia contro i picchetti dei lavoratori della FedEx TNT di Piacenza che all’inizio di aprile protestavano contro la chiusura, era stato richiesto da esponenti della Camera del lavoro locale, che infatti nei giorni successivi era stata circondata in segno di protesta da centinaia di lavoratori disgustati.

Spettacolo che dovrebbe far riflettere i tanti che ancora in Cgil credono nella propria storia, e che a me personalmente ha ricordato il luglio del’62 a Torino, quando migliaia di operai Fiat assediarono la sede della Uil, rea di aver firmato un contratto separato con Valletta. E fu, quello, l’inizio
del poderose ciclo di riscossa operaia che sarebbe culminato con l’autunno caldo. 
Marco Revelli  il manifesto

 
 
 

NELLA TRAGEDIA DI MOTTARONE AVIDITA' E VOGLIA DI CORRERE

Post n°351 pubblicato il 01 Giugno 2021 da aliasnove

Trascuratezza ed avidità stanno dietro tutti i crolli e gli eventi luttuosi che funestano, con cadenza costante, il nostro paese. L’elenco è lungo. La funivia Stresa – Mottarone e il ponte Morandi sono gli ultimi di una lunga serie. È difficile tenere il conto di quanti ponti, viadotti, case, ospedali, scuole si sono sbriciolati al suolo negli ultimi decenni. Anche quando si tratta di calamità naturali (frane, alluvioni, ecc.) con perdite di vite umane, spesso c’è di mezzo l’incuria e fa sempre capolino il dio denaro. Nella strage del Mottarone è un dato di fatto che non sia stata fermata una funivia difettosa e che, per non perdere l’incasso di poche centinaia di euro, un giorno di festa è stato trasformato in tragedia. C’è di che interrogarsi su come e con quali criteri si affida la concessione di importanti impianti pubblici a soggetti privati, che poi li usano come bancomat.

La fatalità c’entra poco o niente. Il movente è sempre lo stesso: il business e, insieme, i meccanismi corruttivi e le pratiche illecite che lo supportano. Si risparmia sulla qualità dei manufatti e sui costi di manutenzione. Più si risparmia più si guadagna. Su questi semplici presupposti, a pensarci bene, si basa anche la richiesta di allentare le maglie del codice degli appalti o l’aperta preferenza degli imprenditori per le grandi opere (tipo Ponte sullo Stretto). I programmi di messa in sicurezza del territorio, la manutenzione delle infrastrutture, la stessa sicurezza delle condizioni di lavoro, aumentano i costi e riducono i ricavi. Non soddisfano le esigenze di guadagno.

Ingordigia ed egoismo (self-interest) incarnano da sempre lo spirito del capitalismo, il suo ethos. Sono il collante dei rapporti di affari e di convenienza. Costituiscono la forza propulsiva di una società che fa dell’individualismo un valore fondante. Tutto diventa calcolo utilitaristico: dare ed avere, entrate ed uscite. E l’avido cerca sempre di accrescere le entrate. Avidità e calcolo sono diventati la bussola che orienta l’economia e la società.

Sul Foglio del 28 maggio si rifiuta qualsiasi accostamento tra avidità e capitalismo. Sarebbe improprio in quanto l’avidità c’è sempre stata, in tutte le epoche della storia, e sempre ci sarà. È vero. Il punto è che prima, fin dall’antichità, era considerata un vizio, mentre con il capitalismo è assurta al rango di virtù.

La tragedia del Mottarone è tutta dentro la civiltà in cui siamo immersi. Ci parla di valori, comportamenti, stili di vita fortemente incardinati nella nostra società. La quantità fa premio sulla qualità. La perdita di vite umane è archiviata alla stregua di un danno collaterale. Naturalmente, nell’immediatezza dei disastri o degli infortuni sul lavoro, le lacrime di coccodrillo vengono versate copiosamente e senza risparmio alcuno. L’importante è andare avanti. The show must go on (lo spettacolo deve continuare).

In nome dell’accumulazione capitalistica si giustificano la rapina delle risorse naturali del pianeta e lo sfruttamento degli uomini. Si nega l’evidenza dei cambiamenti climatici. Si tollerano nuove e vecchie povertà. Le grandi disuguaglianze territoriali e sociali sono il prezzo da pagare alla crescita. E quando a qualcuno viene in mente di proporre «qualcosa di sinistra», anche la più innocua, la bocciatura è immediata. Si grida al pericolo comunista. Persino gli accorati appelli di papa Francesco sono ignorati o, addirittura, derisi da una certa stampa. È meglio non parlare di solidarietà verso i più deboli, di accoglienza e rispetto verso gli immigrati, di lavoro, di estensione dei diritti civili.

Ora è il momento della «ricostruzione». C’è una gran fretta. C’è insofferenza e contrarietà verso tutto ciò che evochi rispetto delle regole, responsabilità e controlli. Liberare l’economia da «lacci e lacciuoli» è il mantra. La destra sente, in questi momenti, un’attrazione fatale per la «razza padrona». La coccola e ne coltiva i vizi. L’evasione fiscale è giustificata perché le tasse sono alte. La destra è in ansia per la fetta di torta spettante alle imprese con il Recovery plan. I contributi pubblici, naturalmente, sono meglio del rischio d’impresa. Spende parole buone in difesa di privilegi corporativi e di rendite di posizione.

L’importante è correre. Chi non sta al passo è fuori. Se uno nasce povero, peggio per lui. Da questa aberrante ideologia discende anche la negazione della vecchiaia. È meglio nasconderla in moderni lazzaretti. Anzi, per alcuni presidenti di Regione, è stato un errore vaccinare gli anziani prima degli altri. La priorità andava data al turismo e alla movida.

È il momento dei giovani. Si gioca a contrapporgli gli anziani. La retorica giovanilistica si spreca, è un leit motiv. Ma se gli eredi di grandi ricchezze finanziarie e immobiliari sono chiamati a contribuire al finanziamento di un pezzo di welfare per i giovani più svantaggiati si alzano al cielo forti lamenti sui comunisti che attentano alla proprietà privata. Forse l’avidità c’entra qualcosa.  Gaetano Lamanna  il manifesto

 
 
 

 

 

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