Creato da aliasnove il 10/01/2013

IL LAVORO

Nell'era della globalizzazione

 

 

UNA RIPRESA SENZA FRENI: COME PRIMA, PIU' DI PRIMA

Post n°350 pubblicato il 28 Maggio 2021 da aliasnove

Come prima, più di prima, è la canzone che nel 1957, decreta l’esordio del cantante “urlatore” Tony Dallara. E alcune delle sue strofe recitano: «Tutto il mondo sei per me, e a nessuno voglio bene come a te». Le parole della canzone si riferiscono probabilmente ad un amore ritrovato, ma, oggi, possiamo ritenerle indirizzate al dio profitto.

Perché sulla tragedia della funivia del Mottarone sembra ormai accertato che una delle cause sia stata la deliberata intenzione dei manutentori di sbloccare i freni di emergenza, per «evitare disservizi e blocchi della funivia», che avrebbero (a causa della rottura della fune di traino, che resta ancora sconosciuta) impedito che la cabina scivolasse all’indietro causando la morte di 14 persone.

E perché? Semplice, per accelerarne la riapertura. Ma non era questa del Covid 19 l’occasione per ripensare il nostro modello di sviluppo e di produzione caratterizzato dalla voracità del profitto e della crescita insensata?

All’inizio della pandemia alcuni ci avevano sperato visto che la voce che circolava era «mai più come prima». Ma oggi quella auspicata speranza è svanita letteralmente, anzi il «liberi tutti» ha accentuato più di prima la tendenza alla costruzione di opere (inutili), alla cementificazione, alla tecnologizzazione, alla modernizzazione che poi significa sblocco delle procedure di sicurezza (impatto ambientale, massimo ribasso dei prezzi rispetto alle aste pubbliche) che dovrebbero accompagnare ogni opera. Accelerare, velocizzare, sveltire ogni aspetto della vita in base al principio della santa competizione. E che questo comporti qualche “danno collaterale” è un prezzo che bisogna pur pagare.

Basta guardare cosa intende fare il Ministero della transizione ecologica: si continua a trivellare gas davanti alle coste dell’adriatico, si affida ai piani di trasformazione (green?) dell’Eni il progetto di catturare la CO2 prodotta nella sua area industriale di Ravenna e pomparla, sotterrandola nei suoi giacimenti dell’Adriatico (la tecnologia Carbon Capture and Sequestration), pur di continuare a utilizzare i fossili; si ritorna a parlare di nucleare sotto forma di piccoli reattori, magari costruiti nel proprio giardino di casa (al posto del barbecue) per risolvere i problemi energetici. Si chiama green washing, ovvero una lavata di verde per nascondere il marketing, un ambientalismo liberista, produttivistico, aziendalistico e di mercato, questa per ora la transizione ecologica che ci propone il ministro Cingolani.

Nulla dunque è cambiato e il «mai più come prima» s’intende, «più veloci di prima» per ritornare a massacrare le nostre città assaltate dai turisti mordi e fuggi, dalla cementificazione, dalla civiltà dell’automobile, per non perdere punti di Pil. Questo il senso della tragedia del Mottarone, così come per «velocizzare» il lavoro di 200 braccianti agricoli di nazionalità indiana un medico di Sabaudia somministrava ai lavoratori un farmaco stupefacente.

Ma questa non è l’Italia uscita dal Dopoguerra dove pure a fronte del disastro c’era la speranza di costruire, sulle macerie, un modello di sviluppo e di convivenza nel quale ognuno poteva apportare il proprio contributo.

La pandemia è stata originata da cause ben note, come i disboscamenti, gli allevamenti intensivi di animali, la cementificazione e il consumo di suolo che alla fine hanno consentito lo spillover, ovvero il salto di specie di un virus dagli animali all’uomo. E probabilmente ce ne saranno ancora, anche se gli Stati uniti (e magari buona parte dell’opinione pubblica manipolata dai media) sono convinti che esso è uscito dai laboratori di Wuhan.

Il pensiero riduzionista è sempre vincente e le idee ultrasemplificate prevalgono sempre su quelle complesse. Meglio pensare che questa pandemia è stata scatenata da qualche scienziato pazzo cinese che mettere in dubbio il nostro modello di vita e di produzione che non è mai negoziabile.  Enzo Scandurra il manifesto

 
 
 

FESTA DEL NON LAVORO: 900 MILA POSTI IN MENO DA INIZIO PANDEMIA

Post n°349 pubblicato il 02 Maggio 2021 da aliasnove

Ilprimo maggio di quest’anno è la festa del lavoro che non c’è. Sono quasi 900 mila gli occupati persi dall’inizio della pandemia fino a marzo 2021. E il calo prosegue nei primi mesi dell’anno, con il primo trimestre che vede la scomparsa di 254 mila lavoratori, secondo gli ultimi dati Istat. Nel frattempo però Pil italiano meglio del Pil tedesco nel primo trimestre dell’anno. La sorpresa arriva alla vigilia del primo maggio e ringalluzzisce tutte le componenti della composita maggioranza Draghi. Ripresa italiana rinviata al secondo trimestre, ma la flessione dei primi tre mesi dell’anno è inferiore di quella della Germania, che con il suo brusco calo zavorra tutta l’Europa.

LA GIRANDOLA DEI DATI macro della giornata restituisce una foto con luci e ombre per la crescita italiana a patto che le vaccinazioni procedano senza intoppi. Secondo l’Istat il pil italiano nel primo trimestre del 2021, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è sceso dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dell’1,4% in termini tendenziali. Crolla la crescita della locomotiva tedesca sotto il peso degli ultimi lockdown per contenere la terza ondata del Covid. L’economia di Berlino si contrae dell’1,7% congiunturale nel primo trimestre, contro un’attesa del -1,5% e contro il +0,3% del quarto trimestre del 2020. E la Germania condiziona il risultato del resto di Eurolandia: il pil dell’Eurozona si è contratto dello 0,6% nei primi tre mesi dell’anno rispetto al trimestre precedente e dell’1,8% su base annua.

SUL FRONTE DEL MERCATO del lavoro se prosegue anche a marzo 2021 «la lieve crescita dell’occupazione registrata a febbraio», secondo l’Istat che censisce 34 mila occupati in più rispetto al mese precedente (+0,2%), rispetto a marzo 2020, il primo mese di lockdown, però il conto resta decisamente negativo: gli occupati sono 565mila in meno. Un bilancio che peggiora ancora se si pone il paragone prima della pandemia: sul febbraio 2020, gli occupati sono quasi 900 mila in meno. L’Istat conferma che la crisi ha colpito più duramente i meno tutelati: «L’occupazione è diminuita per tutti i gruppi di popolazione, ma il calo risulta più marcato tra i dipendenti a termine (-9,4%), gli autonomi (-6,6%) e i lavoratori più giovani (-6,5% tra gli under 35)».

RESTANDO AI DATI MENSILI, la crescita dell’occupazione coinvolge gli uomini, i dipendenti a termine, gli autonomi e quasi tutte le età. I 35-49enni diminuiscono così come le donne e i dipendenti fissi. Il tasso di occupazione sale al 56,6% (+0,1 punti) e risulta più basso di 2 punti rispetto al livello pre-Covid.

Il tasso di disoccupazione scende al 10,1% (-0,1 punti) e sale tra i giovani al 33,0% (+1,1 punti).

Venendo ai dati annuali, l’Istat rimarca che i crolli mensili degli occupati che sono andati avanti dall’inizio della pandemia allo scorso gennaio «hanno determinato un crollo tendenziale dell’occupazione (-2,5% pari a -565mila unità). La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-353mila) e autonomi (-212mila) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione scende, in un anno, di 1,1 punti percentuali».  Nina Valoti  il manifesto

 
 
 

QUANDO C'ERANO I PRODUTTORI PUBBLICI DI VACCINI

Post n°348 pubblicato il 03 Aprile 2021 da aliasnove

L’Unione europea sta fallendo sulle vaccinazioni. Lo dice anche la sezione regionale dell’Oms. Ad oggi, secondo la tabella di marcia, doveva essere vaccinato l’80% degli ultraottantenni e del personale sanitario. Siamo al 27% per gli uni e al 47% per gli altri. Nel frattempo, il numero giornaliero di morti e contagi rimane da paura. A Bruxelles dicono che la colpa è delle case farmaceutiche che producono poco e dei piani nazionali che non decollano. Ma davvero è solo una questione organizzativa? Troppo semplice.

Per cominciare, dovremmo chiederci perché i singoli Paesi membri, quasi tutti economicamente avanzati, non sono in grado di produrre i vaccini per i loro popoli. O li producono solo per conto terzi, per i colossi di Big Pharma. Cuba sì e l’Italia no? Eppure, in passato non è stato sempre così.

Fino agli anni Settanta, in Europa esisteva una pluralità di produttori pubblici di vaccini. Ma anche gli istituti privati assolvevano, come in Italia (valga il caso dell’Istituto Sclavo), ad una funzione pubblica, nel quadro delle strategie nazionali di politica sanitaria. La svolta arriva negli anni Ottanta. La rivincita delle teorie economiche neoclassiche travolge anche il settore sanitario e farmaceutico. La sanità diventa «aziendale», i farmaci solo fonte di profitto, al pari di tutte le altre merci.

In pochi anni tutti gli istituti pubblici di produzione di vaccini che erano sorti a partire dagli anni Cinquanta vengono smantellati. Fine di una storia. Quella che nei decenni passati aveva fatto conseguire risultati clamorosi nella lotta alle più insidiose malattie endemiche, a partire dal vaiolo (quelli di una certa età ne portano il ricordo per i segni dell’«innesto» sul braccio).

È il trionfo del privato. Un pugno di multinazionali acquisisce il monopolio della produzione farmaceutica su scala mondiale ed anche i vaccini vengono interamente assoggettati alla logica del mercato. Da «valori d’uso» si trasformano in meri «valori di scambio». Come per altre merci, la loro produzione non è più finalizzata al soddisfacimento di un bisogno (in questo caso il bisogno di salute), ma alla realizzazione del più alto profitto possibile. Il processo è quello che si può riassumere nella formula Denaro-Merce-Denaro.

Processo capitalistico per eccellenza. Nel I libro de Il Capitale, Marx porta il lettore a ragionare sulla duplice natura delle merci. «Come valori d’uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d’uso», è la sua caustica conclusione. La traduzione è semplice. In un’economia capitalistica la differenza tra un vaccino che salva la vita e un diamante che serve a soddisfare la vanità di una persona è data soltanto dal loro diverso «valore di scambio».

Il loro prezzo. Il processo economico capitalista non contempla la produzione di utilità sociali, ma solo la realizzazione di un sovrappiù per chi detiene i mezzi di produzione, dopo aver reintegrato i mezzi per la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori e quelli necessari alla ripresa del processo produttivo. Dopo più di tre secoli siamo ancora qui, per quanto si voglia insistere con la storiella che «ormai è cambiato tutto, anche il lavoro e l’impresa».

La pandemia è arrivata alla fine di un lungo ciclo di ristrutturazione delle società occidentali. Anni in cui il mercato è stato fatto entrare dappertutto, finanche dove insistono, per dirla ancora con Marx, «valori d’uso senza valore» (acqua, aria, ecc.). Tutto è stato assoggettato a «determinazione economica». E tutto è stato riassorbito in un processo fine a sé stesso di produzione di denaro a mezzo di denaro. Compresa la politica e le istituzioni democratiche, la cui autonomia rispetto all’economia è pari a zero, ormai.

Un esempio recente, legato proprio alla questione dei vaccini, è quello del mancato accordo in seno al Wto a proposito di una deroga sui brevetti. Si sono schierati contro gli Usa, il Regno Unito, la Commissione Ue e tutti i 27 Stati membri dell’Unione, compresa l’Italia. L’Occidente ricco unito a sostegno dei profitti privati sui vaccini, e contro i diritti elementari delle persone. Tutto maledettamente razionale nel capitalismo.  Luigi Pandolfi  ( il manifesto)

 
 
 

RIACCENDERE I LUMI CONTRO L'OSCURITA' DEL POPULISMO

Post n°347 pubblicato il 27 Marzo 2021 da aliasnove

L’articolo di Stefano Bonaga (il manifesto, 17 marzo), indica giustamente nel populismo il nemico peggiore della «isocrazia» intesa come desiderabile sistema politico, capace di assicurare a tutti una «cittadinanza attiva». Poiché il populismo de-politicizza la società, per sconfiggerlo occorre ri-politicizzarla. L’idea ha stimolato un ampio dibattito su queste pagine cui vorrei contribuire mettendo in luce i meccanismi con cui avviene questa de-politicizzazione e indicando alcune condizioni indispensabili per ri-politicizzare.

La personalità di ciascuno di noi è composta da una sfera razionale e una sfera emotiva. Il nostro comportamento, compreso quello politico, è determinato da un gioco mutevole di entrambe. A sua volta, la sfera razionale è composta da conoscenze e abilità, mentre quella emotiva è composta da emozioni, sentimenti, opinioni e atteggiamenti. Se si agisse solo in base alla razionalità, nessuno comprerebbe un pacchetto di sigarette su cui è scritto che «il fumo nuoce gravemente alla salute» o nessuno passerebbe quando il semaforo è rosso. Per modificare un comportamento – nel nostro caso, per ri-politicizzare la società – occorre mettere in atto una complessa azione psico-pedagogica capace di agire insieme su tutti i fattori comportamentali: emotivi e razionali, individuali e collettivi, consci e inconsci.

Tutta la storia umana è segnata da un rapporto dinamico tra emotività e razionalità. Ogni volta che è sorto un problema, in un primo momento ne abbiamo adombrato la spiegazione attraverso racconti, poesie, favole, miti e superstizioni dettate dalla nostra sfera emotiva; poi, in un secondo momento, ne abbiamo raggiunto le soluzioni attraverso la filosofia e le scienze esatte, elaborate dalla nostra sfera razionale. Per secoli la luce – cioè il giorno, la notte, il crepuscolo, lo spettro, la diffrazione, ecc. – è stata spiegata ricorrendo a miti fabulosi: dal greco Zeus che arrossava l’aurora col suo carro infuocato all’egizia Ra, suprema divinità solare che viaggiava su due barche per andare dal mattino alla notte. È stato necessario attendere Newton per spiegare la luce con la teoria corpuscolare, poi Young e Fresnel con la teoria del movimento ondulatorio, poi ancora Planck e Einstein con la teoria dei quanta.

Il populismo non è altro che una spiegazione primitiva della società e della politica in termini rozzi, emotivi, mitici, infantili, pressappochisti, che riporta il popolo a una fase anteriore all’Illuminismo. In Occidente, infatti, è con l’Illuminismo che la realtà socio-politica è stata analizzata abbandonando i pregiudizi emotivi per trasferirne l’essenza dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. È l’Illuminismo che elabora e afferma il primo modello di società costruito dall’uomo facendo a meno dell’aldilà e ricorrendo all’uso laico della ragione nella ricerca filosofica e scientifica. «L’Illuminismo – dice Kant nel 1784 – è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro».

Dunque, il contrario dell’illuminismo è il populismo: ignoranza, pigrizia e viltà dei subalterni; disonestà intellettuale, arroganza e cinismo dei dominanti. I quali, «dopo averli in un primo tempo instupiditi come fossero animali domestici e avere impedito accuratamente che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori del girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole».

Da questo passo di Kant, sintesi di tutto il movimento illuminista, trae origine la nostra identità di moderni e di postmoderni. Quando lo Stato era in mano al Re Sole, convinto di derivare la sua onnipotenza direttamente da Dio e dotato del potere di vita o di morte su ogni suo suddito, quando la Chiesa disponeva di un apparato persecutorio occhiuto e spietato come l’Inquisizione, quando qualsiasi minima trasgressione era pagata con il rogo o con la decapitazione, una ventina di giovani geniali e coraggiosi – da Voltaire a Diderot, da Kant a Jefferson, da Genovesi a Beccaria, da Montesquieu a Rousseau e a d’Alembert – coraggiosamente sostennero che il potere del re deriva dal popolo, che Dio non esiste e tantomeno il suo vicario in terra.

Poi, in coerenza con la propria auto-definizione di «lumi», si votarono a diffondere la loro rivoluzione culturale con un’opera pedagogica a tutto campo: dalla letteratura al teatro, dalla vitalità dei salon a quel monumento ineguagliabile che resta l’Encyclopédie. Diderot pagò questo suo coraggio col carcere, Voltaire col carcere e con l’esilio, Rousseau con una vita fuggiasca, Condorcet con la vita.

Gli Illuministi vinsero la battaglia, non la guerra, che resta perenne tra il ragionamento razionale e la pulsione emotiva, tra il populismo infantile e la democrazia matura, l’isocrazia proposta da Bonaga. E vinsero la battaglia perché nella loro Parigi, come annotò un viaggiatore tedesco dell’epoca, «tutti, e specialmente le donne, hanno un libro in tasca. Donne, bambini, operai, giovani di bottega leggono nei posti di lavoro… I lacchè leggono dietro le carrozze, i cocchieri a cassetta, i soldati nelle caserme e i commissionaires ai loro posti».

Oggi quelle donne, quei bambini, quegli operai, quegli apprendisti, quelle badanti, quegli autisti, quei soldati, quei manager si acculturano tramite la televisione dove una ventina di anchormen gestiscono tutta l’informazione e la formazione nazionale infarcendola di luoghi comuni, trucchetti manipolativi e pubblicità, proprio per depoliticizzare la società e costringerla all’anomia.

Combattere il populismo comporta una lunga marcia in cui la prima tappa consiste nell’elaborazione di un nuovo modello di società intorno al quale aggregare i «sottoproletari e i proletari postindustriali» di tutto il mondo. Senza un modello utopico e scientifico al tempo stesso, non si va da nessuna parte perché, come diceva Seneca, nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare. Elaborarlo è un’impresa titanica ma ineludibile, che esige lo stesso rigore metodologico sperimentato dagli illuministi nel Settecento, dai comunisti nell’Ottocento, dagli scienziati nel Novecento.

Ogni grande costruzione sociale – confuciana, induista, classica, cristiana, luterana, liberale, socialista, comunista, e così via – è nata su un modello ad essa preesistente. Il Sacro Romano Impero traeva il suo modello dai Vangeli e dai Padri della Chiesa; gli stati centrali del Sei e Settecento lo traevano dai testi luterani; gli stati liberali dell’Ottocento dai saggi di Smith e Montesquieu.

Nessun modello è sotteso alla nostra attuale società postindustriale. Essa è solo un patchwork sgangherato di bisogni e desideri affastellati alla rinfusa ed evocati di volta in volta dai politicanti in base al loro tornaconto. E quando non si dispone di un modello cui parametrare le nostre azioni, è impossibile distinguere il bene dal male, il vero dal falso, la sinistra dalla destra. La seconda tappa della lunga marcia per vincere il populismo ri-politicizzando la società, è di natura pedagogica e consiste nella paziente formazione dei cittadini per una doppia vittoria sull’analfabetismo culturale e sull’analfabetismo politico.

L’Atene di Pericle poté consentirsi la democrazia diretta perché tutti i suoi 40.000 cittadini liberi erano alfabetizzati, avevano studiato nell’accademia di Platone o nel Lyceum di Aristotele e ogni ateniese a quarant’anni aveva assistito ad almeno 300 rappresentazioni teatrali di autori del calibro di Sofocle o di Euripide. Invece nell’Italia di oggi ogni quarantenne, oltre ad aver frequentato scuole sgangherate, ha assistito a centinaia di trasmissioni di Barbara D’Urso o del Grande Fratello.

L’Isocrazia proposta da Bonaga è un apice cui dobbiamo tendere. E l’impresa sarà compiuta solo quando il populismo sarà messo nella impossibilità di smerciare le sue cianfrusaglie ideologiche a eterni minorenni per scelta, che hanno delegato a un solo capo il compito di pensare. Dunque, la nostra sfida consiste nel farli diventare maggiorenni.  Domenico De Masi  il manifesto

 
 
 

IL DEPISTAGGIO COGNITIVO DELLA SOCIETA' MERITOCRATICA

Post n°346 pubblicato il 10 Marzo 2021 da aliasnove

Il governo Draghi è stato invocato come dei “capaci e meritevoli” o dei “migliori”. Ma al di là dell’evidente copertura narrativa di una realtà perfino opposta a quella dichiarata, è utile rilevare come il richiamo alla “meritocrazia” non sia stato affatto secondario nel mood della recente svolta politica. Lo dimostra la decisione di chiedere una consulenza alla McKinsey sul Recovery plan. Roger Abravanel, autore del best seller Meritocrazia, che proponeva di disseminare l’Italia di test d’intelligenza per monitorare le performance dei soggetti al lavoro, a sua volta consulente di Maria Stella Gelmini quando era ministro dell’istruzione, considera le pratiche selettive della McKinsey un modello ideale.

Nel discorso di Draghi in parlamento è risuonato l’appello ad una sorta di darwinismo sociale, volto a promuovere un debito sano diretto a premiare soltanto le imprese competitive. Maria Elena Boschi, nella discussione sulla fiducia ha messo l’accento sulla necessità di tornare a valorizzare il rischio contro la regressione a politiche assistenzialistiche. E’ stato nominato fra i ministri – oltre alla stessa Gelmini – Renato Brunetta, che nella riforma del 2009 della pubblica amministrazione promuoveva criteri premianti meritocratici legati alla prestazione. Infine Draghi ha chiamato come stretto collaboratore Francesco Giavazzi, che ha sostenuto la necessità di non investire sui dipartimenti universitari in difficoltà, aumentando le risorse per la ricerca, bensì direzionarle sull’eccellenza e licenziare o sottopagare i docenti “incapaci”.

Tutto ciò non è casuale. Matteo Renzi ha raccolto la spinta degli ambienti confindustriali e mediatici a non mettere in discussione una politica economica tutta basata sulla stimolazione selettiva dell’offerta (aiuti alle imprese competitive) con un ritorno ad alimentare la domanda (investimenti pubblici, ammortizzatori sociali, redistribuzione). Ecco perciò la necessità di invocare un ritorno alla meritocrazia rispetto ad una politica sociale stigmatizzata come assistenzialistica (ristori a pioggia, reddito di cittadinanza etc..). La meritocrazia garantisce consenso perché rimanda ad una moralizzazione della vita pubblica basata su regole certe di assegnazione delle risorse contro favoritismi e corruzione, in un depistaggio cognitivo che fa rimuovere lo sfruttamento spesso perpetrato in forme del tutto legali, all’insegna del rispetto ordoliberale delle regole del gioco della concorrenza.

In realtà il termine meritocrazia è stato inventato da Michael Young negli anni cinquanta del Novecento, in un romanzo sociologico distopico in cui la società è divisa fra un’élite di meritevoli selezionata con un sistema di testing e una massa di lavoratori manuali, tendenzialmente felici di servire in quanto il potere è appunto determinato dal merito, sebbene questo sia poi in realtà legato repressivamente ai valori produttivistici che svalutano ad esempio i meriti dei lavori di cura.

Nel suo ultimo libro Thomas Piketty spiega bene come sia potuto succedere che il lemma abbia assunto una valenza positiva: si tratta infatti di giustificare la riapertura della forbice delle diseguaglianze, ma in un contesto giuridico in cui è tutelata l’uguaglianza dei diritti. La stessa analisi aveva fatto anche Papa Francesco, in un discorso all’Ilva di Genova nel 2017: la meritocrazia colpevolizza il povero come demeritevole e deresponsabilizza il ricco nei suoi confronti, con la conseguente “legittimazione etica della diseguaglianza” e la considerazione del talento non come un dono, ma come un motivo per primeggiare sugli altri.

Questa ideologia ha basato il suo appeal sull’idea che privilegiando meriti e talento, questi avrebbero poi portato l’intera società a migliorare il suo benessere: strategia fallita per le conseguenze della finanziarizzazione per cui l’aumento dei profitti non produce né occupazione né fiscalità da trasformare in servizi. Inoltre è ormai chiaro come il ceto medio americano sia stato letteralmente ucciso dai sistemi meritocratici basati sui test di accesso ai college, determinando di fatto una società di casta.

Quando si parla di meritocrazia difficilmente si indicano quali dispositivi attuare per creare pari opportunità di partenza, né si pensa al fatto che queste ultime rimandino ad una competizione che alla fine riproduce vincenti e perdenti, senza che si tuteli adeguatamente la sfera del bisogno. Quel che non va bene nella meritocrazia non è il riconoscimento del merito, bensì l’illegittima diseguaglianza di potere e diritti che da esso deriva.

In Italia, invece, la distopia meritocratica si è insediata di nuovo nelle istituzioni, in modo più o meno dichiarato, con il sogno di un nuovo macronismo esteso anche ai sovranisti addomesticati della Lega. E sembra che il Pd ne stia per finire travolto, proprio perché non ha saputo mai scegliere fra occuparsi del bisogno e di chi sembra meritare di non averne.  il manifesto  10/03/2021

 
 
 

 

 

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