Creato da aliasnove il 10/01/2013

IL LAVORO

Nell'era della globalizzazione

 

 

RIDER, L'INTELLIGENZA DELLE LOTTE, LA FORZA DEL NUOVO DIRITTO

Post n°345 pubblicato il 25 Febbraio 2021 da aliasnove

Le conclusioni dell’indagine sulle piattaforme digitali di consegna a domicilio condotta dalla procura di Milano sono un altro risultato dell’intelligenza e della determinazione dei rider che, negli ultimi cinque anni, hanno lottato per affermare i loro diritti sociali e il riconoscimento dello statuto di lavoratori dipendenti in Italia. «Finalmente stiamo ottenendo giustizia anche da parte della magistratura milanese – afferma Angelo Avelli dei ciclofattori autorganizzati Deliverance Milano – Questa è la dimostrazione del fatto che lottare in questi anni è servito e sta servendo a qualcosa. Sentiamo che, passo dopo passo, ci avviciniamo ai nostri obiettivi. Questo è un messaggio per tutti i precari: la lotta dei rider non è solo dei ciclofattorini delle piattaforme. È la lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento. Questo sta accadendo davvero».

OGGI ALLE 17, a questo indirizzo https://forms.gle/3fbV1cSCTSeyyRgR7 e su facebook, ci sarà l’assemblea nazionale indetta dalla rete «RiderXidiritti»alla quale parteciperanno lavoratori da 27 città. L’incontro si preannuncia frequentatissimo e lancerà una nuova ondata di manifestazioni e scioperi da domani a fine marzo: «Questa notizia è una bomba, non ti nascondo l’emozione. E ora noi rider vogliamo dare l’affondo finale alle piattaforme e arrivare alla regolamentazione di questo mondo del lavoro digitale – sostiene Tommaso Falchi di Riders Union Bologna – Vogliamo sottolineare che in Italia è mancata la politica. Da quando abbiamo iniziato le lotte sono passati tre governi. Hanno detto tante belle parole, di fatto i risultati sono stati modesti, il settore non è ancora regolamentato. A me questa situazione ricorda l’Ilva. Dove non arriva la politica, arriva la magistratura. In ogni caso questa situazione è stata imposta dalle lotte. Ci sono costate anche denunce. Le abbiamo prese per affermare quello che, oggi, la magistratura sta affermando anche con le indagini e anche con le sentenze».

IL RUOLO GENERATIVO del nuovo diritto e, si spera, anche di reali tutele sociali effettive svolto dalle lotte dei rider è riconosciuto anche da alcuni dei giuristi del lavoro che in questi anni hanno studiato e spesso anche affiancato i ciclofattorini capaci di inventare nuove forme di auto-organizzazione espansiva nella società. «L’esito delle indagini della procura di Milano testimonia che, anche grazie ai rider, si è finalmente modificato in senso estensivo il campo di applicazione del diritto del lavoro – afferma Federico Martelloni, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna e consigliere comunale di Coalizione civica per Bologna – Avevano ragione i rider a dire “Non per noi, ma per tutti”. Questi lavoratori sono una parte di un arcipelago immenso di lavori che potrebbero giovare delle modifiche normative in corso che possono essere applicate sia al loro lavoro mediato dalle piattaforme digitali, ma anche a tutte le attività di carattere personale inserite con continuità in un’organizzazione altrui. Per esempio, se non ci fosse il contratto collettivo, tutti i lavoratori dei call center o le commesse di Calzedonia, per citare i casi più conosciuti. La notizia di ieri è una bomba. Finalmente è caduto il velo sulla pretesa autonomia dei ciclofattorini. È un esito consonante con accertamenti compiuti dalle alti corti tanto in Francia quanto in Spagna richiamati dal tribunale di Palermo che, fino ad oggi, è stato il solo giudice italiano a riconoscere la natura subordinata del rapporto di un rider di Glovo».

«ORA IL GOVERNO deve nuovamente e immediatamente convocate le piattaforme e i sindacati rappresentativi perché si arrivi a una soluzione che garantisca effettivamente il rispetto delle norme e tutela dei lavoratori – sostiene Valerio De Stefano, docente di diritto di lavoro all’università di Lovanio e autore con Antonio Aloisi del libro Il tuo capo è un algoritmo – Quello che emerge dall’inchiesta è che l’autorità chiede alle aziende di riqualificare i lavoratori come etero-organizzati e quindi l’applicazione di tutta la normativa di tutela del lavoro subordinato a meno che un contratto collettivo firmato da organizzazioni sindacali realmente rappresentative autorizzi deroghe specifiche rispetto a questa legislazione. Tutto questo è in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione che ha già affermato che i rider possano essere considerati lavoratori dipendenti» il manifesto  (26/02/2021)

 
 
 

IL MARTEDI' NERO IN CUI CADE CONTE E ARRIVA L'UOMO FORTE

Post n°344 pubblicato il 05 Febbraio 2021 da aliasnove

Una data da segnare nigro lapillo per almeno due buone ragioni. In primo luogo perché in quelle poche ore che passano tra il prolungamento ormai stucchevole del tavolo e la resa di Fico, è stato inferto un colpo mortale alla politica. Non a un governo, o a una coalizione già di per se stessa boccheggiante, ma alla politica tout court. È stato certificato il dissolvimento di tutti i suoi linguaggi, divenuti via via privi di senso di fronte ai capovolgimenti e alle triple verità, e insieme il fallimento di tutti i suoi protagonisti, di maggioranza e di opposizione, incapaci di uscire dal labirinto nel quale un pirata politico senza scrupoli come Matteo Renzi li aveva cacciati, annunciandone il commissariamento da parte di un “uomo di Banca” quale Mario Draghi nella sua sostanza è. Se è vero l’assunto che nello “stato d’eccezione” si rivela il vero Sovrano, ebbene in questo drammatico stato d’eccezione in cui pandemia sanitaria e follia politica ci hanno gettato, Sovrana si rivela, infine, la potenza del Denaro, nella forma antropizzata dei suoi sacerdoti e gestori.

Ma c’è una seconda ragione per considerare foriera di sciagure la giornata del 2 di febbraio: ed è che quella sera si è aperto un vaso di Pandora. Si è messa in moto una reazione a catena che forse già nell’immediato ma sicuramente nel tempo medio è destinata a colpire al cuore (quasi) tutte le forze politiche che compongono il già ampiamente lesionato sistema politico italiano. Tutte fragili, attraversate da un reticolo di fratture, di contrasti personali, di conflitti di piccoli gruppi e comitati d’affari, nessuna saldata da una qualche cultura politica forte capace di prevalere sui personalismi, a cui il gioco al massacro inaugurato dal demolitore di Rignano ha impresso un’accelerazione folle, senza freno né direzione, innescando una potenziale esplosione centrifuga di ognuna.

Dei 5Stelle di certo, a cui l’onda di piena crescente aveva portato un patrimonio elettorale enorme e un personale politico raccogliticcio, destinato oggi a disperdersi con la fase calante. Ma anche il Pd, il cui arcipelago di frazioni teneva insieme con lo sputo, pieno com’era delle mine vaganti disseminate da Renzi al suo interno, ma in cui l’ultimo azzardo del suo ex segretario non potrà che rinfocolare ripicche e rancori vecchi e nuovi. E la Lega stessa non potrà reggere l’urto del cambio di paradigma politico senza vedere le proprie linee di faglia allargarsi, nell’impossibilità di tenere insieme un eventuale sostegno (diretto o indiretto) all’uomo-simbolo dell’ “Europa della Finanza” con la militanza sul fronte del sovranismo etnocentrico. Forse solo Fratelli d’Italia si potrà salvare dal maelstrom restandone ai bordi.

Può darsi che nell’immediato si trovi una qualche formula capace di salvare la faccia ai principali players (una riedizione della maggioranza giallo-rosa a guida Draghi anziché Conte, una “maggioranza Ursula” con dentro anche il caimano)… Ma la tendenza è al generale dissolvimento di ogni possibile quadro politico il che equivale, tecnicamente, a una “crisi di sistema” che potrebbe rivelarsi una voragine nelle urne del 2023.

Così “in alto”. Ma poi c’è “il basso”, quello che si chiama “il Paese”, che è allo stremo: in questi giorni, dum Romae consulitur, ogni ora che passa si perdono 50 posti di lavoro. Per ogni giorno di stallo sono 1200 disoccupati in più. Dalla famosa conferenza stampa di Matteo Renzi in cui annunciava il ritiro delle sue due ministre e apriva in modo corsaro una crisi incomprensibile al giorno della resa di Fico sono trascorsi esattamente 20 giorni (compreso quello in cui il principale responsabile di quello stallo se ne è andato a guadagnare i suoi 80.000 dollari con un atto di asservimento a uno dei peggiori despoti del mondo), nel corso dei quali se ne sono andati 24.000 redditi da lavoro. Milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, sono naufragati: 393.000 contratti a termine non sono stati rinnovati, 440.000 in prevalenza giovani hanno perso il posto, altre centinaia di migliaia lo perderanno se il blocco dei licenziamenti non verrà prolungato. Tutti aspettano una boccata d’ossigeno, i benedetti “ristori”, per poter continuare a respirare. E tuttavia, bene che vada, se la crisi di governo non si avvita ulteriormente, occorreranno settimane prima che l’Esecutivo ritorni operativo. E se fosse, come è possibile, un governo “tecnico”, sappiamo bene quale sia la sensibilità sociale dei tecnici… Anche se si chiamano Mario Draghi.

E qui veniamo alle sue molteplici “vite”. Ho detto che Draghi è un “uomo di banca”. Ma sono stato impreciso. Avrei dovuto dire uomo di banca nell’epoca in cui le banche – le Grandi Banche, quelle di dimensione globale – assumono responsabilità dirette di governance universale. Poteri non forti ma fortissimi, da cui dipendono vita e morte dei popoli. E il profilo di Draghi si dipana per buona parte all’interno di quell’universo. Dopo la sua (precoce) prima vita accademica, in cui allievo di Caffè ha conosciuto e condiviso i principii keynesiani, è passato, con una certa rapidità, al ruolo di grand commis di Stato come Direttore del Ministero del Tesoro sotto tutti i governi (da Andreotti ad Amato a Berlusconi) distinguendosi in perfetto stile neoliberista nel ruolo di grande privatizzatore di quasi tutto (Iri, Eni, Enel, Comit, Telecom).

È a quel punto che emigra per un rapido passaggio nell’universo globale di Goldman Sachs come membro del Comitato esecutivo del gruppo per poi tornare, rigenerato, alla guida della Banca d’Italia (2005) e nel 2011 a capo della Bce: appena in tempo per firmare insieme a Trichet la “terribile” lettera al Governo italiano che apre la stagione delle lacrime e sangue. Salva certo l’Euro con il fatidico whatever it takes nel luglio del 2012 ma nello stesso anno tiene a battesimo il compact fiscal e nel luglio del 2015 non si farà scrupolo di spingere sott’acqua la Grecia di Alexis Tsipras togliendo la liquidità d’emergenza alla sue banche e, l’anno dopo, di ispirare il jobs act renziano. La Pandemia gli suggerisce un sostanzioso allentamento dell’austerità, ma non ne attenua la vocazione privatistica e l’ostilità nei confronti della funzione redistributrice dell’intervento pubblico.

Non stupisce l’immediato riflesso di Confindustria che saluta il suo incarico chiedendo la liquidazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 oltre al ritorno alla libertà di licenziare. Se venisse ascoltato, quell’appello, sarebbe foriero di ulteriore minaccia nel già fosco scenario italiano perché oltre alla dissoluzione della mediazione politica si rischierebbe un ulteriore sprofondamento sociale. E un forse definitivo divorzio tra istituzioni e popolo. Marco Revelli  il manifesto

 
 
 

LA MEMORIA DOLENTE DEL CAMPO DI ARBE. UNA STORIA ITALIANA

Post n°343 pubblicato il 27 Gennaio 2021 da aliasnove

Il campo di concentramento per internati civili di Arbe (oggi Rab, in Croazia), voluto e gestito dal Regio esercito italiano tra il luglio ’42 e l’8 settembre ’43, è stato il peggior luogo di internamento italiano della Seconda guerra mondiale. In soli 15 mesi, si stima che nel campo siano morte per fame, freddo e malattie circa 1000-1400 persone, tra cui 163 bambini. Complessivamente, per il campo sarebbero passate almeno 10 mila persone.

INTERNATI dagli italiani, in quanto partigiani, parenti di partigiani, abitanti di villaggi accusati di dare sostegno ai partigiani o di zone da sgomberare in vista della pulizia etnica, prevalentemente sloveni e croati.

Responsabile del campo, il tenente colonnello dei carabinieri reali Vincenzo Cujuli, indicato da diverse testimonianze come una persona violenta, oltre che un fervente fascista, che si aggirava con cane e frustino, assegnando punizioni anche per piccole infrazioni e che, insieme agli altri uomini del comando sottraeva il poco cibo, i pacchi e il denaro inviato agli internati. Nell’inverno del ’42, con molti internati senza vestiti e coperte, alloggiati ancora in tende, le morti erano talmente frequenti che gli stessi comandi dell’esercito ordinarono il trasferimento di donne, bambini e uomini anziani nei campi di concentramento in Italia, in particolare in quello di Gonars.

NON MOLTE LE NOTIZIE disponibili sulla figura di Cujuli. Nato a Modena l’8 luglio 1895, da genitori originari di Nocera Inferiore, dopo il trasferimento della famiglia a Roma, a 16 anni frequenta il Collegio militare e, nel maggio del 1915, con il grado di sottotenente del VI Reggimento alpini viene inviato al fronte. Ferito quasi subito nel corso di una battaglia a Pioverna Alta (Trentino), rientra a Roma, e nel 1917 passa all’Arma dei carabinieri. Nel 1920, con il grado di capitano, è addetto presso il Comando generale dell’Arma. Tre anni più tardi, nel 1923, cesserà su sua richiesta il servizio attivo tra i carabinieri. Nel frattempo, nel 1917, si è sposato con Luisa Diena, modenese figlia di Emilio Diena, tra i massimi esperti di filatelia dell’epoca, nonché tra i fondatori della Società filatelica italiana, appartenente a una famiglia di banchieri, e che dopo il 1938 colpito dalle leggi razziali sarà costretto a pubblicare i suoi scritti in forma anonima. Dopo tre anni di matrimonio, la coppia emigra in Brasile, paese da cui rientrerà in Italia solo nel 1930. Nel 1932, Cujuli viene nominato vicedirettore della rivista dei carabinieri Arma e Dovere. Infine, nel luglio del 1942, è richiamato in servizio e, come detto, nominato comandante del campo di concentramento di Arbe.

Sulle circostanze della morte di Cujuli, la versione più attendibile pare essere quella di Anton Vratuša, politico sloveno che fu anche Primo ministro del suo paese alla fine degli anni ‘70. Vratuša, arrestato dai fascisti, nel 1943 è uno degli internati di Arbe, membro della cellula del Fronte di liberazione del popolo sloveno (Osvobodilna fronta), i cui leader, all’indomani dell’8 settembre, trattarono con il comando del campo la resa del corpo di guardia, la consegna delle armi, e l’arresto del comandante Cujuli. Secondo Vratuša, dopo l’arresto e prima del processo, Cujuli si suicidò tagliandosi le vene con un rasoio da barba. Secondo altre fonti, Cujuli venne invece processato e giustiziato, mentre per altre ancora, quella dei carabinieri, sarebbe stato seviziato e ucciso dai partigiani. Certo è che il suo corpo venne sepolto – assieme a quello di un collaborazionista sloveno processato e condannato a morte – all’esterno del cimitero del campo di Arbe. Nel 1971 la salma venne rimpatriata ed oggi è sepolta presso il Sacrario dei caduti d’oltremare a Bari.

Oggi ad Arbe c’è un memoriale che ricorda le vittime del campo di concentramento: un monumento edificato nel 1953 dalle autorità jugoslave. In questo luogo non si è però mai recata in visita ufficiale nessuna istituzione o autorità italiana. E rarissime sono anche le scolaresche del nostro paese che lo hanno visitato.

SU UN MURO, all’ingresso del memoriale di Arbe, solo la lapide voluta nel 1998 dallo storico Carlo Spartaco Capogreco e dalla Fondazione internazionale Ferramonti che ricorda le sofferenze e le vittime del campo fascista, accanto a una targa più piccola e di metallo che porta la firma della sezione di Trento dell’Anpi.

«Topografia per la storia»,

L’associazione «Topografia per la storia», nel contesto della ormai decennale ricerca sui campi di concentramento e le carceri fasciste www.campifascisti.it, vuole dedicare un posto particolare al campo di Arbe. L’obiettivo del progetto per il quale si chiede il sostegno di tutti attraverso una campagna di raccolta fondi è quello di arrivare nel giugno del 2022, in occasione dell’ottantesimo anniversario della sua entrata in funzione, a un sito web che contenga non solo la storia dettagliata di questo campo di concentramento italiano, ma anche un data base con i nomi degli internati e dei morti durante la prigionia. Per maggiori informazioni e per sostenere il progetto di crowdfunding si può visitare il profilo facebook dell’associazione e il sito produzionidalbasso.com. Andrea Giuseppini  (il manifesto)

 
 
 

THE END

Post n°342 pubblicato il 07 Gennaio 2021 da aliasnove

Dopo una giornata di scontri e morti a Capitol Hill, dove gli ultras pro Trump sono riusciti a entrare sfondando un non troppo deciso blocco delle forze dell’ordine, alle 3.32, ora di Washington, il Congresso ha certificato la vittoria di Joe Biden e Kamala Harris. Respinte le obiezioni repubblicane ai voti in Arizona e Pennsylvania.  

Il bilancio è di 4 morti (di cui almeno 1 ucciso dalle forze di polizia) e 52 arresti. L’America oggi si risveglia nel caos e tra mille dubbi sui 13 giorni che la separano dal giorno dell’insediamento della nuova amministrazione democratica. 

Trump nella notte si rivolge in un video ai manifestanti come un padre affettuoso “You’re special, we love you”, invitandoli a tornare a casa. Poi twitta “Ci hanno strappato via una vittoria sacra e travolgente. Ricordate questo giorno per sempre”. Poi garantisce una “transizione ordinata” ma non concede la vittoria a Biden. Twitter e Facebook gli sospendono l’account.

(il manifesto)  7 gennaio 2021



 
 
 

L' ISTINTO DI CLASSE DELLA PANDEMIA

Post n°341 pubblicato il 06 Dicembre 2020 da aliasnove

Che il virus, come la sfortuna, non fosse cieco, anzi ci vedesse benissimo – che fosse dotato di una solida coscienza di classe alla rovescia, colpendo molto più duro in basso che in alto -, l’avevamo capito.

E fin dalla prima ondata. Ce lo dicevano le mappe più che non le tabelle dell’Iss, quelle (poche, purtroppo, ma eloquentissime) con la distribuzione dei contagi per quartieri nelle grandi città, con le Ztl (Parioli a Roma, Crocetta e Centro a Torino, Magenta e Sempione a Milano) quasi risparmiate dal morbo e quelle periferiche (l’oltre raccordo anulare, le barriere, l’aldilà del cerchio dei viali) flagellate. Ora lo certifica anche il Censis, rivelando che ne è consapevole il 90,2% degli italiani.

L’epidemia ha scavato voragini negli strati popolari, sia sul piano del bios, nella nuda vita, considerata spesso vita di scarto, comandata al lavoro quando le fasce alte si difendevano col lockdown, costretta a elemosinare un posto sempre più raro in terapia intensiva mentre per gli altri c’era il reparto «Diamante» al San Raffaele; sia sul piano dell’oikos ovvero dell’«economia domestica» dove le misure anti-contagio (certo sacrosante) hanno operato con effetti inversamente proporzionali alla collocazione lungo la piramide sociale: tanto più duramente quanto più fragili erano le figure colpite. Fino ai penultimi, i lavoratori marginali, le categorie deboli della manifattura e soprattutto dei servizi, quelli a tempo determinato, delle imprese piccole e piccolissime, che temono ad ogni scadenza la «discesa agli inferi della disoccupazione» (è già toccato a 400.000 di loro).

E gli ultimi, i precari, quelli della «gig economy», del lavoro a giornata («casuale» lo chiama il Censis), del sommerso e del nero, quelli che, appunto, se non lavorano non mangiano perché non hanno cuscinetti di grasso messi da parte per i tempi difficili per la semplice ragione che non hanno mai vissuto «tempi facili». Se va bene ricorreranno al silver welfare offerto da nonni o genitori pensionati, altrimenti saranno soli a contendersi un reddito di cittadinanza benedetto ma avaro.

Sono un esercito questi «ultimi». 5 milioni, calcola il Censis, che aggiunge che «hanno finito per inabissarsi senza rumore» (e l’espressione mette i brividi). Ma accanto a questi «sommersi» ci sono anche, sia pur molto ma molto meno numerosi, i «salvati». Quelli che dalle ricadute economiche della pandemia sono stati meno danneggiati. O che addirittura ne sono stati avvantaggiati. Quel 3% di italiani che guadagnano più di 1 milione di dollari (sic) l’anno e possiedono il 34% della ricchezza nazionale – compresi i 40 miliardari che da soli monopolizzano 165 miliardi – non hanno subito decurtazioni. Anzi, annota il Censis, «sono aumentati sia in numero che in patrimonio durante la prima ondata dell’epidemia».

È tutta qui la «questione italiana»: in questa spaccatura orizzontale tra una «una società sfibrata dallo spettro del declassamento sociale», da una parte, e un ristretto ceto possidente irresponsabile e avaro, pronto ad alzare barricate alla sola parola «tassa patrimoniale» e a rivendicare per sé – pensiamo alle raffiche di esternazioni di Carlo Bonomi – tutto, comprese le briciole contese alle deprecate e «improduttive» misure «assistenziali». Non la falsa contesa tra «garantiti» e «non garantiti» (a cui comunque pare credere l’85% degli intervistati) ma quella, ben più strutturale, e reale, tra ricchi e poveri. I primi, sempre più esclusivi e chiusi, i secondi sempre più numerosi e dimenticati. Per questo le raccomandazioni del Censis, secondo cui si imporrebbe «un ripensamento strutturale per la ricostruzione» e la messa in campo di un «progetto collettivo che spazzi via la soggettività egoistica e proterva in cui per decenni abbiamo creduto», appaiono sacrosante. Ma poco suscettibili di ascolto da parte di un ceto di decisori pubblici che nella sua grande maggioranza, trasversalmente agli schieramenti politici, appare sordo e cieco (anche se purtroppo mai muto).

Lo stesso Governo Conte, che a mio avviso aveva operato relativamente bene nel corso della prima ondata, tenendo ferma l’istanza prioritaria della salvaguardia sanitaria, nella transizione estiva si è arreso ai «vizi strutturali» del Paese – per paura delle voci grosse dei negazionisti, dei confindustriali, degli zangrilli e degli sgarbi quotidiani e dei briatori smargiassi – privilegiando la ricchezza sulla miseria, l’economia sulla salute, le discoteche sugli ospedali, i bonus vacanze sul reclutamento del personale medico e paramedico… Lo si sapeva da subito che la seconda ondata ci sarebbe stata e sarebbe stata peggiore. Lo dicevano scienziati e ministri. Eppure si è arrivati a ottobre con i trasporti immutati, la sanità territoriale scassata come prima, il personale ospedaliero insufficiente, un welfare allo sbando secondo i vecchi, devastanti dogmi neoliberisti. Potremmo concludere che questo è davvero, come diceva Norberto Bobbio, un paese «irredimibile». O che comunque, a redimerlo, toccherà a ognuno di noi, con spirito ferocemente eretico.  Marco Revelli ( il manifesto) 

 
 
 

 

 

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