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Sentimentalmente

Tutto ció che mi dá emozioni....

 
 

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Messaggi di Maggio 2021

Le viole del pensiero...

Post n°4969 pubblicato il 26 Maggio 2021 da g1b9
 

 

Viole

Le viole, che siano del pensiero o botaniche, abbelliscono balconi, terrazzi e giardini e costituiscono una preziosa risorsa di bellezza e di colore nel periodo che va da settembre a maggio. Negli ultimi anni, infatti è enormemente aumentata la disponibilità di varietà e tipologie capaci di resistere bene al freddo, accontentandosi di poco sole per aprire in inverno i loro fiori. Larghe, a volte davvero enormi, oppure in versione 'mini', simili a quelle selvatiche, le corolle delle viole del pensiero ci accompagnano senza chiedere grandi attenzioni con il loro carico di dolcezza e il loro significato simbolico che il nome stesso ci racconta. La notorietà della viola del pensiero come messaggera d'amore viene legata ad antiche leggende che nascono dalle tradizioni popolari. La viola è stata sempre associata al sentimento d'amore nelle sue forme più timide e pacate, e alla serenità che, secondo le leggende, essa saprebbe infondere.Si dice che che una freccia di Cupido sia caduta su di una viola del pensiero, e il dio dell'amore abbia donato a queste delicate corolle la capacità di comunicare il sentimento. In effetti la viola come messaggera d'amore era nota anche nella Roma imperiale: il giorno 22 marzo, inizio della stagione primaverile, si celebrava il culto di Attis, un semidio di origine greca, trasportando in processione un tronco di pino adornato di viole.  Certamente non erano quelle che conosciamo oggi: è impossibile trovare in vendita una viola del pensiero in forma di specie botanica. Quelle che acquistiamo sono ibridi derivati da una lunga, complicata stirpe di incroci nati da Viola tricolor. Oggi per semplificare si parla di Viola hortensis per indicare una enorme famiglia in cui è entrata anche la discendenza di Viola x wittrockiana, un ibrido che si è trasformato in una ricca e diversificata serie di famiglie con colori e dimensioni diverse.

Alla viola del pensiero si associano  diversi nomi comuni. Il più curioso è certamente quello di "suocera e nuora" per i colori contrastanti dei petali, che apparentemente sembrano discutere fra loro per chi avrà il sopravvento. I colori in contrasto furono presi in considerazione con lo sviluppo del Cristianesimo: la viola del pensiero, che allora era solamente la specie botanica Viola tricolor, divenne uno dei simboli della Trinità: i tre colori diversi rappresentano le tre persone divine, separate ma indissolubili. E questa caratteristica di portare nello stesso fiore tre colori diversi servì anche ai bonapartisti francesi che ne fecero il loro simbolo, in contrapposizione al giglio monocromatico dei Borboni. La caratteristica di fondere in un unico fiore tonalità cromatiche così diverse ha fatto sì che la pianta, attraverso il nome di viola del pensiero, fosse assimilata alla facoltà più alta dell'uomo, quella del pensiero appunto, che media tra opposte passioni e tra tendenze contraddittorie che agitano l'animo umano, raggiungendo con la mediazione un equilibrio che unisce aspetti diversi.

 

 
 
 

Oggi è la giornata dell'Africa 2021..

 

 In questo giorno in cui si ricorda l'Africa in tutto il mondo, con l'intento di portare  all'attenzione  mondiale, dai Grandi alla gente comune, le mille problematiche di questo meraviglioso paese, straziato da guerre, guerriglie , che spingono milioni di persone all 'emigrazione, mi piace raccontare la storia bellissima di uno di loro, un grande figlio dell'Africa. Questa è l'intervista che ho ascoltato con grande emozione stamattina

 

Dionisio Cumbà, dalla facoltà di Medicina a Padova a ministro della Sanità in Guinea Bissau. Storia di un sogno


Abbiamo raggiunto Dionisio Cumbà in Guinea Bissau, dove ora è ministro della Sanità. Da ragazzo ha studiato e si è specializzato in chirurgia pediatrica a Padova. La sua è un’avventura straordinaria, fatta di solidarietà, coraggio e di un grande sogno


di Gloria Frezza

   

Questa è una storia di coraggio, pervicacia e aspirazione. Una storia che inizia con un ragazzino che parte dal villaggio di Jugudul in Guinea Bissau, per raggiungere la Capitale e provare a frequentare l’unico liceo disponibile pagando il viaggio con una delle sue galline. Anni dopo quello stesso ragazzo siederà sulla scrivania riservata al ministro della Sanità. È la storia di Dionisio Cumbà, chirurgo pediatrico formato in Italia e attuale ministro della sua Guinea Bissau.

Quando lo raggiungiamo dallo schermo del pc, il ministro Cumbà è seduto nel suo studio. Alle spalle si vede una bandiera dell’Italia, tra i tanti libri e simboli autoctoni. Parla italiano perfettamente e ammette di conoscere anche il dialetto veneto, quello della regione che lo ha ospitato per laurea e specializzazione. Ci racconta una vicenda intrecciata a filo doppio con il suo più grande desiderio della vita: imparare.

Il viaggio verso il liceo e la conoscenza con padre Battisti

Con quella sete nel cuore, un giovanissimo Dionisio vende una gallina per potersi pagare il viaggio da Jugudul a Bissau, dove c’era l’unico liceo scientifico da frequentare nel Paese. Arrivato nella Capitale, vede per la prima volta una città e ne rimane abbagliato. Si avventura per i vicoli e trova finalmente il liceo. Tutto il viaggio serviva solo per sapere se il suo nome era stato comunicato dalla sua scuola al liceo e per scoprire la data dell’esame di ammissione. Quel giorno Dionisio scopre sì di essere stato segnalato, ma anche che il test si sarebbe tenuto il giorno successivo. «Ho fatto un calcolo – racconta Cumbà – i soldi bastavano solo per il ritorno, così ho deciso di dormire sulle scale di fronte al liceo. Almeno sarei stato sicuro di svegliarmi in tempo».

Dionisio supera quel test di ammissione e decide di restare a Bissau, ma deve trovare una sistemazione. In aiuto arriva un suo conoscente che lo porta ad incontrare una delle figure più importanti per la sua vita futura: padre Battisti. Il missionario italiano gestisce in quel periodo a Bissau una residenza per giovani studenti senza casa. Insegna loro a realizzare delle statue, da poter poi vendere per mantenersi agli studi. Dionisio si impegna e resta lì fino alla maturità. Scopre dopo poco che suo zio, un fratello della madre, lavora lì come segretario e ritrova un po’ di famiglia nella grande città.

L’arrivo in Veneto e la formazione da infermiere

La storia del dottor Cumbà con l’Italia comincia subito dopo. Ogni anno padre Battisti invia alcuni ragazzi meritevoli a studiare in Italia, sostenuti dalle offerte parrocchiali. Nel 1991 Dionisio parte insieme con altri due ragazzi alla volta di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, con l’intenzione di studiare Medicina all’università. Qui lo accoglie una famiglia, sorpresa di vedere arrivare tre ragazzi tutti insieme. A causa di questa incomprensione la famiglia ammette di non poter mantenere tutti all’università. Dionisio è costretto subito a cambiare direzione e, per non allontanarsi troppo, decide di frequentare la Scuola di Infermieristica a Verona.

Nei tre mesi trascorsi a Montecchio Dionisio e gli altri ragazzi imparano l’italiano. «La famiglia era molto organizzata – spiega Cumbà – e ci aveva procurato un insegnante di italiano. Imparare la lingua era la nostra più grande preoccupazione perché sarebbe stato il nostro lasciapassare per lo studio, che tanto volevamo». Dopo il trasferimento, nel 1994 arriva il diploma da infermiere.

Un amico inatteso

Segue un anno trascorso a Lisbona, senza perdere la volontà di diventare medico. Inseguito da problemi burocratici, visti scaduti e nuove leggi che complicano ancora di più la sua permanenza. Ottiene il permesso di frequentare l’università in Italia, ma i posti ridotti sono ancora un ostacolo. Dionisio si iscrive allora a Padova, nella facoltà di Chimica farmaceutica. Per mantenersi comincia a lavorare per una cooperativa con appalto a Dolo, un comune del Veneziano. Qui viene assunto come Oss, nonostante il diploma da infermiere, solo perché straniero.

«Portavo da mangiare e lavavo i piatti – racconta – smaltivo l’immondizia e recuperavo gli esami di laboratorio. Arrivavo ogni pomeriggio in autobus da Padova, dove andavo a lezione. Qui ho conosciuto uno dei portinai, che un giorno mi chiama “Moretto, vien qua!” mi dice in dialetto e mi prende in simpatia. Dopo una settimana mi aveva regalato il motorino di suo figlio, con assicurazione pagata, per facilitarmi il viaggio». Ma Dionisio non sapeva che si trattava solo del primo passo.

L’incontro con 40 famiglie di Dolo, che cambia la vita

Il signore si affeziona a lui, si informa e apprende del desiderio di Dionisio di diventare medico. Dopo qualche tempo lo invita, una domenica, ad Arino, una frazione di Dolo, per presentargli alcuni amici. Il giovane intorno al tavolo trova sedute 40 famiglie, che gli annunciano di voler diventare i suoi finanziatori per permettergli di frequentare Medicina. Annuncio rigorosamente riportato in dialetto veneto. Dionisio tocca il cielo con un dito, la solidarietà di queste semplici persone lo porta alla svolta della sua vita. Dall’anno successivo, il 1997, diventa ufficialmente uno studente di Medicina a Padova, dopo aver superato il test. I suoi benefattori gli trovano una casa in città, da condividere con due connazionali, e la riempiono di ogni cosa. Il falegname porta i mobili, i negozi di biancheria i vestiti, i negozi di alimentari fanno a gara per non far mancare loro nulla. Il 20 marzo 2004 Dionisio si laurea. Presenti alla discussione, non senza la disapprovazione degli addetti, tutte le 40 famiglie dolesi in un momento di celebrazione universale. «Per Arino è stata una giornata di festa – ricorda il dottor Cumbà – e mi sono sentito circondato da molto affetto».

La specializzazione in chirurgia pediatrica e il ritorno in Guinea Bissau

Come specializzazione il dottor Dionisio sceglie chirurgia pediatrica, con l’aiuto di padre Battisti le famiglie di Dolo continuano a sostenerlo. Nel 2010 conclude anche questo percorso. Il prossimo passo sarebbe stato lavorare a Londra, il contratto era già pronto. Ma il fato ha voluto che trascorresse una breve vacanza in Guinea Bissau prima di trasferirsi. Qui incrocia il caso di una bimba nata senza ano, da 15 giorni visitata da tanti medici che non avevano intuito il problema. «Aveva una pancia molto gonfia, stava morendo. Con un amico oculista che era con me in vacanza le abbiamo fatto una colostomia in una clinica senza attrezzi né luce, con i nostri cellulari. Questa bambina mi è rimasta in testa, ho capito che non potevo voltare le spalle alla Guinea».

La decisione è presa: Dionisio Cumbà torna nel suo paese natale. Con padre Battisti costruiscono un ospedale pediatrico, il St. Josè em Bor, con il sostegno di alcuni industriali bresciani. Tante le missioni mediche organizzate da allora, a partire dal suo professore di specializzazione a Padova. Da Brescia, Foggia, Ferrara, dalla Sicilia con un gruppo di anestesisti. «Sono stati 10 anni di missioni, ora continuiamo in chirurgia pediatrica con il prof. Gamba, con il prof. Fagin neurochirurgo, la dottoressa Tognon e la dottoressa Vogaro anestesiste. Vengono poi gruppi tedeschi, portoghesi e siamo arrivati fino a 10mila operazioni chirurgiche».

La chiamata per diventare ministro della Sanità

Nel 2018, il dottor Cumbà diventa presidente dell’Istituto nazionale di Salute Pubblica in Guinea Bissau. Quest’anno, mentre era in visita dalla sua famiglia, riceve una chiamata importante. Il piano era rimanere qualche anno con i suoi bambini e sua moglie, sposata nel 2012, anche lei impiegata in pediatria. La chiamata però lo sconvolge: è una richiesta a diventare ministro della Sanità. «Il presidente della Repubblica ha molto insistito e ho sentito di accettare – afferma Cumbà -. Tutti i miei colleghi in Italia mi hanno promesso sostegno ma ora c’è un’enorme riorganizzazione da dover mettere in atto». La situazione in Guinea Bissau non è semplice. Gli ospedali non sono organizzati e funzionano come un ambulatorio qualsiasi. I medici hanno formazione locale e poca esperienza, racconta ancora. «Voglio essere un ponte con l’Italia per una cooperazione a livello sanitario, per poter trasformare questi aiuti che arrivano volontariamente dai miei colleghi in un contributo più solido». Il ministro Cumbà vuole che la sanità arrivi anche a chi abita nei villaggi più remoti, sistemando gli ospedali regionali che sono i più disastrati. Il tasso di morte infantile e neonatale è ancora altissimo. I bimbi nati con malformazioni vengono spesso abbandonati da mamme spaventate che non hanno mai ricevuto i controlli necessari».

La pandemia in Guinea e le difficoltà di gestione

Con la pandemia di coronavirus anche la Guinea ha vissuto un’emergenza. «Non è stato facile convincere le persone che si trattava di un virus pericoloso – racconta ancora Cumbà -. In molti dicevano “è una malattia dei bianchi”, non rispettavano le regole. In aprile 2020 abbiamo avuto il primo morto per Covid-19, è arrivata la paura. Abbiamo cominciato a testare e trovato troppi positivi. Non avevamo terapie intensive, non c’era ossigeno per far fronte alla richiesta. Nel 2020 abbiamo affrontato tre mesi durissimi. Poi è tornata la calma, fino a dicembre. Alcuni sono tornati e hanno portato la variante inglese, a inizio anno abbiamo affrontato un momento molto difficile». La Guinea-Bissau ad oggi conta 70 morti “certificati” per Covid-19, c’è un solo paziente ricoverato ma è negativo al test. Sono arrivati i vaccini con l’iniziativa Covax, 32mila dosi e 6mila dosi dalla Cina. Dall’India sono arrivate 12mila dosi di AstraZeneca. «Da lunedì cominceremo a vaccinare anche nelle regioni, per ora abbiamo concentrato le dosi a Bissau che raccoglie due terzi della popolazione», aggiunge. «Noi medici dobbiamo avere il coraggio di andare avanti – conclude Cumbà -. Abbiamo scelto questa professione per essere utili agli altri. I nostri politici devono capire quanto è centrale la sanità per la vita di un Paese. Un piccolissimo virus è quasi riuscito a sconfiggerci. Investire sulla vita umana non è mai un errore, questo bisognerebbe capire. Chiedo poi ai tanti miei connazionali che studiano fuori di pensare al ritorno a casa, qui la vostra professionalità sarebbe preziosissima e potremmo costruire un mondo nuovo».


 

 

 
 
 

Da " Ultimo Banco"... Il segreto per riuscire.

Post n°4967 pubblicato il 24 Maggio 2021 da g1b9
 

 

Scoprire Alessandro D'Avenia è trovare  un giovane insegnante, pedagogista ,credo ,prima per vocazione e poi per professione,un uomo che ama talmente il suo lavoro, che ,prima come romanziere, poi anche come giornalista sta integrando la sua passione, che è quella di proporre consigli di vita pratici, moderni, partendo proprio dalla cultura e dal nozionismo. E'infatti da  questo binomio che ognuno dovrebbe attingere gli stimoli giusti per ogni periodo della nostra vita, insegnamenti da mettere in pratica. Proprio da questa premessa D'Avenia parte nella sua nuova rubrica sul Corriere della Sera. In "Ultimo Banco" egli fa proprio questo, l'insegnante, che ci rinfresca la memoria e il pedagogo psicologo che ci aiuta ad inserirci in certe problematiche. Il suo articolo di oggi è bellissimo.

 

Il segreto per riuscire

Alessandro D’Avenia | 24 maggio 2021  

«Ma più che il valicare il mare, è duro ciò che ti costrinse a passarlo» canta il poeta arabo siculo Ibn Hamdis nel suo Canzoniere. La vita ci costringe a «uscire» (da uscio, porta di casa) e altrettante volte a tornare. Anche quando navighiamo in rete prima o poi torniamo sull’icona home. Ma che cosa è più importante: uscire o tornare? Omero ha risposto in modo inequivocabile: vivere è tornare a casa. Ma quale casa? Mi ha posto la domanda una studentessa universitaria di matematica durante un recente incontro. Avevo chiesto a chi volesse di mandarmi delle domande per una conversazione online, un’ora di scuola a porte aperte (chiunque poteva affacciarsi e ascoltarci). Ho ricevuto centinaia di domande e le 20 che ho scelto per la mia classe ideale abbracciavano tutte le età (dai 12 agli 80 anni) e provenienze. La prima domanda è stata proprio questa: «Ti è mai capitato di perderti? E come hai trovato casa? E che cosa è casa?». Perdersi è una costante della vita umana, un modo come un altro di dire: uscire. E se «perdersi» è la forma riflessiva di «perdere», allora, per contrasto, «casa» significa «possedere» e «possedersi». Infatti «abitare» viene dal latino habeo (avere) ma nella forma frequentativa: continuare ad avere, possedere sempre. Questo è casa: ciò che sempre si possiede, non un tetto ma una vita a cui poter far sempre ritorno. Perdersi e abitare sembrano quindi due poli dell’esistenza umana che deve «perdere» quello che le impedisce di fiorire, ma proprio quel perdere/perdersi è il primo passo per (ri-)trovare casa. La casa è infatti ciò che non si perde mai: non un luogo ma un modo di essere. Dante si perde nella selva oscura ma lì comincia il ritorno a casa, Renzo e Lucia si perdono ma trovano una casa (si accasano) altrove, Pinocchio perde Geppetto ma la sua ricerca lo farà diventare un bambino vero... La letteratura e le fiabe, da Ulisse a Pollicino, raccontano di gente che deve «uscire», «perdersi» e «tornare» al vero «uscio» di casa, una vita nuova. E, come scriveva Chesterton, il miglior modo per scoprire la propria casa è uscire dalla porta principale, andare sempre dritto e rientrare dal retro, dopo aver fatto il giro del mondo.

La domanda sul perdersi e ritrovare casa, mi ha fatto pensare a una recente richiesta di una alunna. In quest’anno ho potuto fare, grazie agli strumenti per la Dad, tanti colloqui pomeridiani a tu per tu con i miei studenti, per portare avanti il lavoro di orientamento personale che va dalle passioni e attitudini da scoprire/coltivare al consiglio di libri mirati, dai momenti di recupero individuale alla cura di situazioni di crisi. Purtroppo non è possibile fare tutto questo nell’orario scolastico, anche se dovrebbe essere la normalità del percorso. La mia studentessa mi chiedeva di poter parlare di alcuni aspetti relativi al suo futuro (e di che altro vogliono parlare i ragazzi?), in vista del quale qualcosa la frenava: «Non riesco a essere chi sono, forse perché non lo so». L’adolescente è per definizione colui che deve «uscire» di casa, «è perso» perché deve «perdere» l’illusione infantile che la vita non abbia limiti, che invece sono necessari a scoprire chi siamo e di che cosa siamo portatori. Questo perdersi oggi viene problematizzato come se fosse una malattia da cui guarire, con il conseguente senso di colpa dei ragazzi, quando si tratta invece della sofferta benedizione della loro età, la sua dolorosa normalità. La mia alunna chiedeva la cosa più bella, una casa: «Abitare», possedersi. Perdere le mura costruite dai genitori o dalla cultura che respiriamo è doloroso ma uscirne è necessario a trovare la propria casa. Chi non si possiede (non si conosce) non ha il coraggio di uscire e finisce con l’indossare maschere (idoli della conoscenza di se stessi) per farsi accettare, ma spesso perdersi è solo togliere una di quelle maschere per avere il proprio volto. Le ho detto di non aver paura, confidandole che le volte che mi sono perso è arrivata sempre una benedizione, perché mi sono liberato da qualche prigione interiore e ho trovato dove abitare, cioè ciò che «possiedo sempre» e non mi può essere mai tolto: le relazioni fondamentali (sono sempre figlio, fratello, zio, amico) e ciò per cui sono fatto (sono sempre maestro e scrittore), e questo fa della mia vita interiore la casa a cui torno e che trovo sempre nuova, perché ogni volta che torno me ne riapproprio in modo nuovo.

Posso tornarci sempre perché sempre mi appartiene, e ci devo tornare soprattutto quando è venuto il momento di perdere qualcosa che mi impedisce di abitare dentro me stesso, qualcosa che magari ritenevo essenziale, ma essenziale non era, anzi era un ostacolo alla costruzione della vera casa, la mia, quella che poi posso aprire a tutti, senza paura. Chi non si è mai perso non ha mai trovato casa, chi non è uscito non sa dove sia la sua casa, perché «ri-uscire» nella vita è sempre «tornare» a casa.

 

 
 
 

...e tu rispondi sempre, amore mio!

Post n°4966 pubblicato il 23 Maggio 2021 da g1b9
 

 

Chiamami

Chiamami...
Basta che mi chiami,
non importa con quale nome,
chiamami...
Chiamami ora, oggi, stamani,
quando il tuo cuore sta sentendo il freddo del vuoto,
chiamami.

Chiamami per essere tuo in questa danza,
Chiamami per ascoltare il tuo canto,
Chiamami per vedere le stelle,
Per sentire il calore del tuo corpo…
chiamami.

Chiamami quando i tuoi occhi bagneranno il tuo viso,
quando le tue spalle saranno pesanti,
quando la tua mente si sentirà stanca,
quando il sole del mattino non illuminerà i tuoi
sogni…
chiamami.

Chiamami quando il tuo sorriso entrerà nella tua anima,
chiamami per condividere un bacio,
chiamami per darmi le tue mani e sostenere le mie,
chiamami.

Chiamami a qualunque ora e, preferibilmente,
chiamami sussurrando nel mio orecchio,
chiamandomi caro, amato
e chiedendomi che io stia sempre
con un largo sorriso al tuo fianco.
 

Bad Wolf

              


 
 
 

E' un gioco di luce...

Post n°4965 pubblicato il 22 Maggio 2021 da g1b9
 

 

Ognuno scopre la luce nell'oscurità, ossia in ciò che per noi lo è; ma ogni cosa nella nostra vita dipende da come sappiamo indossare quella luce..

 

 
 
 
 
 

RELATHIONSHIP

Don't let someone become a priority in your life , when you are an  optional in their life... Relationships work best when they are balanced.

 

 

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