Se ascolto l’ironia rannicchiata in fondo alle cose, essa si scopre lentamente. Strizzando un occhio piccolo e chiaro, dice: “Vivete come se...”
Nonostante le molte ricerche, tutta la mia scienza è qui.
Camus, Il rovescio e il diritto
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Gli italiani, si sa, sono un popolo di santi, navigatori e poeti: per la precisione, siamo l’unico Paese al mondo in cui il numero degli scrittori è superiore a quello dei lettori. Tutti o quasi hanno un paio di racconti, due poesiole, un mezzo romanzo nel cassetto; e quasi tutti sono convinti di aver scritto un’opera che può contendere il podio alla Divina Commedia o a Guerra e Pace.
Il popolo degli scrittori è numeroso e variegato; per un autentico talento letterario ci sono dozzine di medici, avvocati, impiegati delle Poste che dibattono dell’animo umano in trame sconclusionate e versi zoppi. Tripudi di maiuscole, sintassi a singhiozzi, anglismi volanti: e questo è solo l’inizio dell’elenco.
Fortuna che c’è Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della Sera che da anni combatte la sua battaglia contro errori e orrori nazionali. Qualche mese fa ha pubblicato L’italiano: lezioni semiserie, che è in realtà il libro di scrittura più efficace che abbia sfogliato negli ultimi anni.
Con questo libro Severgnini non ha la pretesa di insegnare a diventare scrittori, ma solo di rendere i suoi lettori più consapevoli dell’uso della lingua.
Primo punto: la semplicità. Perché dire “probabili precipitazioni atmosferiche” invece di “forse piove”? perché “dibattito a più voci” se il dibattito a una voce è un soliloquio?
Secondo punto (meno scontato di quanto possa apparire): chi scrive in italiano, si esprima in italiano. Il brain storming per elaborare il business plan in linea con la mission dell’azienda è semplicemente una riunione confusa per inventarsi qualcosa. O no?
Terzo: evitare le metafore stantìe. Anche se è vero che quello che conta è il pensiero, chi scrive deve dimostrare più di nervi d’acciaio, volontà di ferro e cuore d’oro. Questo perché tutto cambia: le stagioni non sono più quelle di una volta.
Quarto: evitare di considerare la punteggiatura come una forma di acne: se non c’è meglio. Parentesi come l’aglio e le elezioni (da usare con moderazione); trattini – che, ho scoperto, hanno funzioni differenti a seconda se siano brevi, medi o lunghi –, per strizzare l’occhio al lettore; punti e virgola per far rallentare il lettore in una piccola apnea mentale. Il punto come soldato semplice della punteggiatura (ma da non usare in plotoni, come gli autori ggiovani fanno oggi: “Lui entrò. La vide. Bella, pensò. La baciò. Così. Ma non poteva continuare. Uscì. Non tornò.” E meno male). I due punti: una finestra sul periodo, per risolvere le situazioni complicate e per evitare le infezioni di che (mai più d’uno per frase, dice Severgnini, perché già due proposizioni relative inquinano quanto un detersivo in mare).
Punto esclamativo che è un desiderio, e i desideri vanno presi con le pinze. Il punto interrogativo, il segno più eloquente della punteggiatura per non far venire attacchi d’ansia. Pericolosi, incerti puntini di sospensione…
Insomma, le regole per scrivere decentemente un romanzo, un’e-mail, la lista della spesa, un biglietto di auguri sono poche e precise:
- avere qualcosa da dire
- dirlo
- dirlo brevemente
- non ridirlo. Se mai, rileggerlo.
Per approfondimenti rimando al libro, di lettura veloce e gradevole, e ricco di spunti. Qui, dopo tante lodi, preferisco spiegare un difetto di queste lezioni d’italiano: non si possono regalare a chi ne avrebbe più bisogno. Perché? Provate a regalare un deodorante a uno che suda troppo e poi raccontatemi la reazione.
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