Se ascolto l’ironia rannicchiata in fondo alle cose, essa si scopre lentamente. Strizzando un occhio piccolo e chiaro, dice: “Vivete come se...”
Nonostante le molte ricerche, tutta la mia scienza è qui.
Camus, Il rovescio e il diritto
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Ieri sera il colui e io siamo andati al teatro Augusteo di Napoli, per il concerto del pianista Giovanni Allevi, che presentava le sue nuove composizioni per pianoforte, raccolte nell’album Joy. Fino a ieri tutto quello che sapevo di lui era:
1. che aveva composto il primo brano di Joy mentre lo caricavano in ambulanza dopo un attacco di panico;
2. che mentre componeva Joy si era alimentato solo di pasta col tonno perché sapeva dove si trovavano pasta e tonno nel supermercato e quindi non si deconcentrava cercando altri alimenti;
3. che il suo animaletto domestico è un gambero chiuso in un barattolo-ecosistema chiuso che si chiama Maciste il gambero che resiste.
Avevo sentito Joy - rigorosamente scaricato da E-Mule dal colui - , e mi era sembrato carino; il biglietto costava poco, quindi, perché non andare al concerto?
(Da premettere che io e il colui ci siamo fatti riconoscere anche all’Augusteo, poichè abbiamo rotto le palle a tutta la fila sedici; con la rozzezza che ci contraddistingue ignoravamo che le poltrone non fossero numerate in numero progressivo ma con i pari a destra della sala e i dispari a sinistra).
Pubblico giovane, molto casual: moltissimi ragazzini, tante teste maschili gonfie di ricci. Sul palcoscenico, un po’ mortificato da due strutture nere ai lati - forse una scenografia coperta- , spicca un pianoforte a coda bellissimo e grande circa quanto il mio appartamento.
Si spengono le luci, e Giovanni Allevi esce sul palco. Diciamo subito che lui vale da solo il prezzo del biglietto. Dimostra circa vent’anni (poi scoprirò che è nato nel 1969) anni, ha una testa piena di ricci sparati in tutte le direzioni, è minuto, con la voce sommessa e una gestualità ampia ma composta; sembra molto emozionato. Niente frac con le code con cui ci si immagina di solito un pianista in concerto: indossa jeans, scarpe da ginnastica e una felpa con cappuccio. Al suo ingresso il pubblico già si spella le mani, tanto che lui esordisce dicendo un po’ impacciato “Sembra un applauso finale”: a questa battuta quasi cade il teatro per gli applausi.
Nei primi brani, Panic e Portami via, la musica è dolce e l’esecuzione impeccabile: applaudono tutti, me compresa. Non riesco a però non pensare che è troppo uguale all’album: tutto perfetto, ma non sento la differenza di un’esecuzione live.
Va meglio con i pezzi successivi, - Downtown, Water Dance, Viaggio in aereo e Follow you-: le melodie sono davvero evocative delle immagini suggerite nei titoli. Allevi si sta riscaldando – non solo in senso metaforico: suona con tutto il corpo e alla fine dei brani si asciuga il sudore dalla fronte col dorso della mano-, e la acquista più personalità rispetto all’album.
Vento d’Europa, “composto a Budapest guardando il Danubio in piena e in preda alla nostalgia dell’Europa ( ?!?)” mi fa annodare lo stomaco per l’emozione.
Ma è ancora niente rispetto a L’orologio degli Dei, dedicato “al battito del cuore”: una musica travolgente, talvolta dissonante, capace di toccare corde che fanno male. Cerco di trattenere lacrime uscite non so come e perché: mi sento felice. Nell’emozione del momento, Allevi mi sembra bellissimo: una figuretta dalla testa riccia che si agita, suona con tutto il corpo, suda, e sussurra “Bravo” al pianoforte.
Saranno i faretti del palco, sarà la mia miopia, ma mi sembra che le mani si muovano così velocemente sulla tastiera da diventare lame di luce.
Alla fine di ogni brano, mentre scatta l’applauso, resta seduto qualche secondo, immobile, quasi stordito: sembra incapace di staccarsi dalla musica, e fa uno sforzo ogni volta per alzarsi e inchinarsi al pubblico, quasi nascondendosi dietro il piano. Questi pochi secondi in cui lui si stacca dal suo mondo con fatica mi commuovono forse più di tutto, ogni volta che finisce un pezzo.
Con Back to life, Jazzmatic e Il bacio il teatro è ormai conquistata da lui, dall’atmosfera, da quello che sa far dire al piano. Comunque questi pezzi sono un delirio tecnico, ci si spaventa che gli cadano le braccia per lo sforzo. New Renaissance, che chiude Joy, è una rielaborazione di alcuni elementi tipici della musica rinascimentale (tra cui qualcosa che si chiama settima minore), uniti a “componenti del Rock progressive”. Allevi anticipa che il brano è difficilissimo (ammettendo che comunque se l’è andata a cercare, dal momento che l’ha composto lui) e si siede al piano. Una cascata di musica, le mani impazzite sulla tastiera; un’emozione grande. La musica dell’album è ormai un pallido ricordo, annullata dalla forza di queste esecuzioni. Alla fine il teatro viene giù sul serio; lui ringrazia, si inchina e poi, letteralmente, corre via. Due minuti dopo, sempre di corsa, rientra sul palco, e suona un altro brano: “Quando l’ho composto pensavo all’amore, ora... passa la macchina” (è la colonna sonora dello spot di un’auto).
A grande richiesta suona un ultimo brano, a luci già accese; poi corre via definitivamente.
Io e il colui usciamo abbracciati, con la musica ancora in testa, e un sacco di emozioni forti dentro; solo che io mi sento liberata da questa pioggia di musica, mentre lui ne è stato rattristato. Le corde toccate hanno emesso note diverse, evidentemente.
Stamattina, facendo una ricerca su Internet, mi rendo conto che Allevi non è una rivelazione degli ultimi due mesi, ma un compositore che ha scritto quattro album e fa concerti da dieci anni in tutto il mondo. Dopo la serata di ieri è salito enormemente nelle mie quotazioni. Non sono in grado di dire se sia davvero un genio della musica, un “nuovo Mozart”, come è stato definito. Ma di sicuro è un artista. Un artista vero.
Post nel post. La serata mi ha fatto tornare in mente con insistenza un mio amico; fin da quando Giovanni Allevi dalla testa ricciuta è apparso sul palco e si si è messo la prima volta al pianoforte, accompagnando la musica con le spalle, la testa, il busto, le gambe, mi è venuto in mente lui. Ora è un giovane avvocato con un promettente avvenire e sogni da notaio, ma dieci anni fa era identico ad Allevi, quando si sedeva a suonare dimenticando tutto quello che aveva intorno. Ha suonato troppe volte nel salotto di casa mia (facendomi sorbire poi due giorni di prediche dei miei, perchè la differenza tra quello che creava lui e quello che arrabattavo io sulla tastiera era veramente insostenibile) perché mi dimentichi di quanto era speciale. La musica gli aveva donato una scintilla che lo accompagnava in ogni momento della sua vita: ma è già un po’ che non la trovo più quando lo rivedo. Vorrei solo sapere dov’è finita, se quando è stata sepolta da una colata di codici, diritto e pratiche è rimasta solo stordita, o se si è proprio spenta. Per favore, fammelo capire prima o poi dov’è la tua scintilla, Pasquale.
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