Creato da jo_march1979 il 28/01/2007

Signora mia

Mezze stagioni e altri teoremi

 

Messaggi di Gennaio 2007

Delle passioni della webmater

Post n°4 pubblicato il 31 Gennaio 2007 da jo_march1979
 

Dovete sapere che una delle mie passioni è ascoltare le conversazioni degli altri. In treno, al ristorante, per strada, in fila alla posta...  adoro tendere l’orecchio e sapere i fatti del mio vicino. Non è perché sia pettegola: mi piace tenermi informata su quello che succede nel mondo, ecco tutto.

Il colui è molto preoccupato da questo mio chiamiamolo hobby: teme che un giorno o l’altro mi facciano un occhio nero, o che lo facciano a lui che cavallerescamente mi difenderebbe anche se mi disapprova.

Ma io sono una piccola donna coraggiosa e continuo imperterrita a farmi i fatti altrui, perché  mi diverto troppo.

Un po’ di tempo fa ho spiato, pardon,  sentito casualmente questa conversazione alla Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli:

 

- Lui (Esitante): Lei viene qui spesso?

-Lei (Rigida): Si.

- (Carezzevole) Infatti l’avevo già notata. Lei spicca in mezzo alla gente.

- (Compiaciuta ma contegnosa) Grazie...

- (Rincuorato) cosa legge di bello?oh, ma io ADORO Panofski! È così...così... interessante.

- (Animata) davvero le piace? sa, trovo la critica letteraria così emozionante...

- (Suadente) Mi legge nell’anima. Mi piacerebbe parlarne con lei, ma qui c’è troppa confusione...

- (Vaga ma lusingata) Cosa propone?

- (Trionfante) Domani? scelga lei dove e come.

- (Raggiante) Un caffè letterario?

- (Perplesso) Non saprei... io in genere lo prendo macchiato.

Ora si capisce meglio perchèp mi piace tanto ascoltare gli altri?

 
 
 

Del concerto di Giovanni Allevi, o massaggio all’anima

Post n°3 pubblicato il 30 Gennaio 2007 da jo_march1979
 

Ieri sera il colui  e io siamo andati al teatro Augusteo di Napoli, per il concerto del pianista Giovanni Allevi, che presentava le sue nuove composizioni per pianoforte, raccolte nell’album Joy. Fino a ieri tutto quello che sapevo di lui era:

1. che aveva composto il primo brano di Joy mentre lo caricavano in ambulanza dopo un attacco di panico;

2. che mentre componeva Joy si era alimentato solo di pasta col tonno perché sapeva dove si trovavano pasta e tonno nel supermercato e quindi non si deconcentrava cercando altri alimenti;

3. che il suo animaletto domestico è un gambero chiuso in un barattolo-ecosistema chiuso che si chiama Maciste il gambero che resiste.

Avevo sentito Joy  - rigorosamente scaricato da E-Mule dal colui - , e mi era sembrato carino; il biglietto costava poco, quindi, perché non andare al concerto?

 (Da premettere che io e il colui ci siamo fatti riconoscere anche all’Augusteo, poichè abbiamo rotto le palle a tutta la fila sedici; con la rozzezza che ci contraddistingue ignoravamo che le poltrone non fossero numerate in numero progressivo ma con i pari a destra della sala e i dispari a sinistra).

Pubblico giovane, molto casual: moltissimi ragazzini, tante teste maschili gonfie di ricci. Sul palcoscenico, un po’ mortificato da due strutture nere ai lati - forse una scenografia coperta- , spicca  un pianoforte a coda bellissimo e grande  circa quanto il mio appartamento.

              Si spengono le luci, e Giovanni Allevi esce sul palco. Diciamo subito che lui vale da solo il prezzo del biglietto. Dimostra circa  vent’anni (poi scoprirò che è nato nel 1969) anni, ha una testa piena di ricci sparati in tutte le direzioni, è minuto, con la voce sommessa e una gestualità ampia ma composta; sembra molto emozionato. Niente frac con le code con cui ci si immagina di solito un pianista in concerto: indossa jeans, scarpe da ginnastica e una felpa con cappuccio. Al suo ingresso il pubblico già si spella le mani, tanto che lui esordisce dicendo un po’ impacciato “Sembra un applauso finale”: a questa battuta quasi cade il teatro per gli applausi.

Nei primi brani, Panic e Portami via, la musica è dolce e l’esecuzione impeccabile: applaudono tutti, me compresa. Non riesco a però non pensare che è troppo  uguale all’album: tutto perfetto, ma non sento la differenza di un’esecuzione live.

Va meglio con i pezzi successivi, - Downtown, Water Dance, Viaggio in aereo e Follow you-:  le melodie sono davvero evocative delle immagini suggerite nei titoli. Allevi si sta riscaldando – non solo in senso metaforico: suona con tutto il corpo e alla fine dei brani si asciuga il sudore dalla fronte col dorso della mano-, e la acquista più personalità rispetto all’album.

Vento d’Europa, “composto a Budapest guardando il Danubio in piena e in preda alla nostalgia dell’Europa ( ?!?)” mi fa annodare lo stomaco per l’emozione. 

Ma è ancora niente rispetto a L’orologio degli Dei, dedicato “al battito del cuore”: una musica travolgente, talvolta dissonante, capace di toccare corde che fanno male. Cerco di trattenere lacrime uscite non so come e perché: mi sento felice. Nell’emozione del momento, Allevi mi sembra bellissimo: una figuretta dalla testa riccia che si agita, suona con tutto il corpo, suda, e sussurra “Bravo” al pianoforte.

Saranno i faretti del palco, sarà la mia miopia, ma mi sembra che le mani si muovano così velocemente sulla tastiera da diventare lame di luce.

Alla fine di ogni brano, mentre scatta l’applauso, resta seduto qualche secondo, immobile, quasi stordito: sembra incapace di staccarsi dalla musica, e fa uno sforzo ogni volta per alzarsi e inchinarsi al pubblico, quasi nascondendosi dietro il piano. Questi pochi secondi in cui lui si stacca dal suo mondo con fatica mi commuovono forse più di tutto, ogni volta che finisce un pezzo.

 

Con Back to life, Jazzmatic e Il bacio il teatro è ormai conquistata da lui, dall’atmosfera, da quello che sa far dire al piano. Comunque questi pezzi sono un delirio tecnico, ci si spaventa che gli cadano le braccia per lo sforzo. New Renaissance, che chiude Joy, è una rielaborazione di alcuni elementi tipici della musica rinascimentale (tra cui qualcosa che si chiama settima minore), uniti a “componenti del Rock progressive”. Allevi anticipa che il brano è difficilissimo  (ammettendo che comunque se l’è andata a cercare, dal momento che l’ha composto lui) e si siede al piano. Una cascata di musica, le mani impazzite sulla tastiera; un’emozione grande. La musica dell’album è ormai un pallido ricordo, annullata dalla forza di queste esecuzioni. Alla fine il teatro viene giù sul serio; lui ringrazia, si inchina e poi, letteralmente, corre via. Due minuti dopo, sempre di corsa, rientra sul palco, e suona un altro brano: “Quando l’ho composto pensavo all’amore, ora... passa la macchina” (è la colonna sonora dello spot di un’auto).

A grande richiesta suona un ultimo brano, a luci già accese; poi corre via definitivamente.

 

Io e il colui usciamo abbracciati, con la musica ancora in testa, e un sacco di emozioni forti dentro; solo che io mi sento liberata da questa pioggia di musica, mentre lui ne è stato rattristato. Le corde toccate hanno emesso note diverse, evidentemente.

 

Stamattina, facendo una ricerca su Internet, mi rendo conto che Allevi non è una rivelazione degli ultimi due mesi, ma un compositore che ha scritto quattro album e  fa concerti da dieci anni in tutto il mondo. Dopo la serata di ieri è salito enormemente nelle mie quotazioni. Non sono in grado di dire se sia davvero un genio della musica, un “nuovo Mozart”, come è stato definito. Ma di sicuro è un artista. Un artista vero.

 

Post nel post. La serata mi ha fatto tornare in mente con insistenza un mio amico; fin da quando Giovanni Allevi dalla testa ricciuta  è apparso sul palco e si si è messo la prima volta al pianoforte, accompagnando la musica con le spalle, la testa, il busto, le gambe, mi è venuto in mente lui. Ora è un giovane avvocato con un promettente avvenire e sogni da notaio, ma dieci anni fa era identico ad Allevi, quando si sedeva a suonare dimenticando tutto quello che aveva intorno. Ha suonato troppe volte nel salotto di casa mia (facendomi sorbire poi due giorni di prediche dei miei, perchè la differenza tra quello che creava lui e quello che arrabattavo io sulla tastiera era veramente insostenibile) perché mi dimentichi di quanto era speciale. La musica gli aveva donato una scintilla che lo accompagnava in ogni momento della sua vita: ma è già un po’ che non la trovo più quando lo rivedo. Vorrei solo sapere dov’è finita, se quando è stata sepolta da una colata di codici, diritto e pratiche è rimasta solo stordita, o se si è proprio spenta. Per favore, fammelo capire prima o poi dov’è la tua scintilla, Pasquale.

 
 
 

Delle idiosincrasie della webmater

Post n°2 pubblicato il 28 Gennaio 2007 da jo_march1979
 

Senza essere la Sibilla cumana, posso profetizzare con un buon margine di sicurezza che una delle tags ricorrenti di questo blog sarà maniacalità, nelle sue declinazioni linguistiche di “maniacalmente, maniaco e maniacale”: in effetti dei due post che ho scritto finora, sono entrambi nella categoria maniacalità.
La colpa, in questo caso, è della mia amica Alberta, che adopera questo termine così spesso e così bene che dovrebbe chiedere il copyright: immagino che le faccia un uso così felice perché è una maniaca lei stessa.
E poiché siamo amiche da più di dieci anni (ommioddio come vola il tempo; ma tanto sono ferma a 25 anni già da un po’: mi trovo bene lì, perché cambiare?), devo ipotizzare che sono una maniaca anch’io.
Per questo, invece di farmi scoprire poco a poco, preferisco essere onesta e stilare un elenco parziale - perché in continua evoluzione- delle mie maniacalità o idiosincrasie che dir si voglia.

 Piccole cose che mi provocano una grande collera (in ordine sparso):

- Gli orologi che fanno tic tac troppo forte;

 - Gli apparecchi che fanno bzzzz troppo forte ( televisione e stereo in standby, ma anche il portatile del mio colui);

- Le seguenti espressioni:
. Nel mio piccolo (grrrr, mi fa veramente incazzare),
Piuttosto che usato come “oppure” e non come “invece di” (ma che senso ha?),
. Nella misura in cui (sovente seguito da "ritengo che, si ritiene che..."; che misura? litri? chilogrammi? i pignalenti della Melevisione?)
. Comunque usato tre volte in quindici parole (es. i tronisti intronati di Maria de Filippi),

 - I tronisti intronati di Maria de Filippi ( tutti, senza eccezione alcuna);

- Ogni cosa che sia aromatizzata al cocco (creme, dolci, abbronzanti), anche se il cocco in sé mi piace;

 - La cannella: praticamente è la mia cryptonite;

- I piccioni di Napoli (che non sono pennuti come gli altri: i piccioni di Venezia stanno a quelli di Napoli come la banda Bassotti sta a quella della Uno Bianca);

- Le traduzioni troppo letterali (tipo “she used to sit” tradotto come “usava sedersi” invece di “sedeva”);

- La Biancaneve di Disney (santarellina e gatta morta che non è altro);

- La puzza di sigaro, soprattutto negli ambienti chiusi (tipo il mio professore di inglese che fumava durante gli esami: chiunque abbia frequentato l’Orientale di Napoli sa di chi parlo);

- I bambini che fanno i selvaggi nei treni e i genitori che li lasciano fare;

- Chi non rispetta la fila alla posta ( e per questo vado alla posta con lo stesso spirito di un ultrà che va allo stadio: con la consapevolezza e il desiderio di fare a botte);

- Fiona May (prima o poi le dedicherò un post per spiegare che il mio non è un odio razziale ma esclusivamente personale);

 - Paola Perego (e amo chi l’ha genialmente definita “Guardiana di oche”, cogliendone l’essenza);

CONTINUA…

Chi volesse contribuire può lasciare un commento: mi sarà di sicuro sfuggito qualcosa.

 
 
 

Dove la WEBMATER si presenta,o Little Women forever

Post n°1 pubblicato il 28 Gennaio 2007 da jo_march1979
 

Benvenuti sul mio blog!
 è la seconda volta che ne apro uno, spero che questo abbia un esito migliore del primo, dove mi ero così fissata con sfondi, colori e colonne ( in una parola con il template) da dimenticare che avrei anche dovuto scriverci qualcosa.

Incominciamo parlando del mio nickname: Jo March. Tante ( e molti) di voi sapranno già chi è: una delle protagoniste di Piccole Donne, romanzo per signorine che narra la storia delle quattro sorelle March, composto nell’800 dalla scrittrice americana Louisa May Alcott.

Perché proprio Jo? La colpa è di mia madre.

Dopo aver reso felici molti freudiani con quest’affermazione, mi spiego meglio: la mia mamma è maestra elementare, e tanti anni fa voleva sperimentare un metodo alternativo per insegnare a leggere ai bambini. Non volendo fare figuracce a scuola, pensò di usare materiale umano su cui aveva il totale controllo, cioè me, e mi fece testare questo metodo. Funzionò bene, tanto che a sette anni leggevo Piccole Donne, e si può dire che non abbia mai smesso. Fino ai quattordici leggevo tutti e quattro i volumi della saga di Piccole Donne  almeno una volta l’anno; poi, un po’ le tempeste adolescenziali, un po’ i traslochi, ho abbandonato la mia lettura annuale. Ma ho sempre avuto nel cuore le quattro sorelle March (sospiro).

A Natale scorso ho scoperto che la Einaudi (santa e benedetta) aveva appena ripubblicato i quattro volumi con tanto di saggio critico: a quel punto il mio Colui, dopo che gli avevo annunciato la lieta novella solo un milione-milione e mezzo di volte,  con un intuito fenomenale ha pensato bene di sorprendermi regalandomi questo volume.

Ho passato la prima settimana di gennaio attaccata al libro; inizialmente facevo la splendida, “rileggendo il romanzo alla luce di  una visione adulta, in chiave critica e  alla ricerca di legami con la letteratura coeva” che giustificassero i miei quattro esami di letteratura inglese. Ho capito che non avevo una prospettiva tanto distaccata quando mi sono scoperta irritata per le differenze di traduzione con l’edizione che leggevo da piccola ( es. p. 5: al posto di “carrettiere” scrivono “maschiaccio”: perché, perché?): mi sono anche un po’ impressionata quando mi sono resa conto di ricordarla praticamente a memoria. Il distacco, già vacillante nel primo volume, è definitivamente crollato nel secondo, Piccole Donne crescono, quando ho pianto per la morte di Beth – la terza sorella-  per tutta la lettura del capitolo e per i venti minuti successivi. Roba che neanche a otto anni.

Insomma, sapevo già che i libri che leggevo da piccola hanno influenzato i miei gusti da grande: da Louisa May Alcott a Jane Austen, dalla Piccola principessa alle sorelle Bronte; tutte autrici anglosassoni, ragion per cui ho sempre prediletto lo studio dell’inglese e sommamente schifato la letteratura francese, nonché sviluppato un interesse che tende all’immedesimazione maniacale per la scrittura femminile.

Ma mi ero dimenticata quanto fosse stato importante per me Piccole Donne: non è che mi abbia solo influenzato, mi ha proprio dato l’imprinting. Come le ochette che seguivano l’etologo Konrad Lorenz ritenendolo la loro mamma perché era il primo essere in movimento che avessero mai visto, così io ho seguito la scia delle piccole donne in giro per la letteratura, amando tutto ciò che in qualche modo mi ricordava loro. E a venti…cinque anni (circa, alla fine a chi importa la mia età esatta?) , giocando a fare la blogger rendo omaggio a Jo, la seconda delle sorelle March, le protagoniste di Piccole Donne. Perche proprio lei? Perché è quella che scrive, perché è quella più dinamica, quella che si realizza di più…e diciamocelo francamente, perché è l’unica simpatica lì in mezzo.


PS. A proposito della definizione webmater (vedi titolo di questo post), ero alla ricerca di un termine per definirmi in terza persona: Titolare  lo usa già Selvaggia Lucarelli, Mistress fa troppo sadomaso. Mi sono ricordata di un sito di pazze esaltate (non so più l'indirizzo, sorry) che deliravano di separazione definitiva tra i sessi, roba che anche una veterofemminista si sarebbe spaventata; quella che curava il sito si definiva appunto webmater, in un gioco di parole con webmaster che lei riteneva tanto una genialata, e a me è sembrato così’ maniaco da essere in linea con me. Quindi, leggasi in chiave ironica, per carità.

 
 
 

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