Post n°232 pubblicato il 18 Gennaio 2016 da orkelio
La Russia finanzia i partiti nazionalisti che vogliono destabilizzare l'Ue proprio per farla scoppiare e quindi ripristinare la sua influenza sui paesi vicini. Se il vero scontro è con gli Usa, in realtà sono lontani. Sono l'Ue, l'Euro e i dazi a cui è sottoposta l'economia Russa a dare fastidio a Putin, oltre all'espansionismo della NATO. Da quando è scoppiato l'affare ucraina si è avviato un percorso di non ritorno. I 9 milioni di euro concessi alla Le Pen, attraverso una banca ceco-russa sono frutto di una ben più lunga intesa politica che risale addirittura al padre Jean-Marie. E anche del fatto che Mosca ritiene la Francia assai più ostile dell'Italia dove, sotto sotto, nemmeno il governo in carica viene ritenuto visceralmente anti russo come "il perfido Hollande". Ma la speranza che prima o poi aiuti in denaro possano arrivare in qualche modo da Mosca è rimane accesa nel clan di Salvini. Lui stesso conferma: "Noi facciamo un appello politico a tutto il mondo e ogni aiuto è ben accetto, anche perché abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione". Ma precisa: "Finora non è arrivato né un rublo né un euro. E non ci interessa chiederlo. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato". Marine Le Pen dice che la politica costa e nessuna banca francese ha voluto sostenerli e in previsione delle presidenziali dell'anno prossimo si devono riorganizzare anche economicamente. Comunque affrema che restuitirà fino all'ultimo rublo. Un po' per amore del vecchio metodo sovietico, un po' per ripicca contro gli Usa che starebbero facendo altrettanto, Putin ha deciso di sostenere, accreditare e perfino finanziare una lista di partiti che in qualche modo possano creare problemi ai cosiddetti "governi ostili" e scompiglio nelle politiche dell'Unione europea. Come? Il canale bancario - come è successo con la Le Pen - resta in teoria la strada più semplice e trasparente. La moral suasion del Cremlino, nel settore, è altissima. Cinque istituti di credito sono finiti nella lista delle sanzioni Ue e Usa. |
Post n°231 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da orkelio
L'olio di scisto fu una delle prime fonti di olio minerale usate dagli esseri umani.[3] Il suo primo uso registrato si ebbe in Svizzera e in Austria all'inizio del XIV secolo.[4] Nel 1596, il medico personale di Federico I, duca di Württemberg scrisse delle sue proprietà curative.[5] L'olio di scisto era usato per illuminare le strade di Modena, Italia, alla svolta del XVII secolo. La Corona britannica concesse un brevetto nel 1694 a tre persone che avevano "trovato un modo per estrarre e fare grandi quantità di pece, catrame e olio da una specie di roccia".[5][6][7] Venduto in seguito come Betton's British Oil, si diceva che il prodotto distillato fosse stato "provato da diverse persone su dolori e acchiacchi con grande beneficio".[8] Industrie moderne per l'estrazione dell'olio di scisto furono fondate in Francia durante gli anni 1830 e in Scozia durante gli anni 1840.[9] L'olio era usato come combustibile, come lubrificante e come olio per lampade; la Rivoluzione industrialeaveva creato una domanda aggiuntiva di illuminazione. Esso serviva come sostituto per il sempre più scarso e costoso olio di balena.[5][10][11] Durante la fine del XIX secolo, impianti per l'estrazione dell'olio di scisto furono costruiti in Australia, Brasile e negli Stati Uniti. Cina (Manciuria), Estonia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Spagna, Svezia e Svizzera producevano olio di scisto all'inizio del XX secolo. La scoperta di petrolio greggio nel Medio Oriente durante la metà del secolo portò la maggior parte di queste industrie ad arrestarsi, anche se l'Estonia e la Cina nordorientale mantennero le loro industrie estrattive fino agli inizi del XXI secolo.[9][12][13] In risposta ai costi crescenti del petrolio alla svolta del XXI secolo, sono state iniziate, esplorate o rinnovate le operazioni di estrazione negli Stati Uniti, in Cina, Australia e Giordania.[13]
https://it.wikipedia.org/wiki/Olio_di_scisto |
Post n°230 pubblicato il 14 Gennaio 2016 da orkelio
Roveja, anche detto pisello dei campi o robiglio, è una varietà di pisello. Questo legume è importato in Europa dal Medio Oriente, conosciuto fin dal Neolitico ma ultimamente praticamente scomparso dalle nostre produzioni. Esistono diverse cultivar del pisello dei campi quali i kapucijner che vengono coltivati in Olanda e la roveja che si trova ormai soltanto nell'Italia Centrale dove viene coltivato prevalentemente nelle Marche e in Umbria da agricoltori che vogliono diversificare e riscoprire le tradizioni. Inizialmente il baccello della roveja è verde ma con la maturazione diventa viola-scuro. Il colore dei semi freschi può variare da verde a grigio mentre seccati i semi tendono al marrone scuro. I fiori sono purpurei. Il pisello dei campi viene coltivato soprattutto in Umbria e nelle Marche in particolare in Valnerina a Cascia. La roveja viene seminato in marzo. I baccelli maturano in luglio. Possono essere raccolti anche a maturazione inoltrata in quanto sono meno farinosi dei piselli comuni. Dopo che le foglie siano diventate gialle, si falciano le piante e si lasciano essiccare nel campo. Quindi le piante secche vengono raccolte e trebbiate. Per togliere le impurità i semi vengono ventilati [1]. Uso I semi possono essere consumati freschi oppure si possono seccare. Comunque sono più gustosi cotti. Hanno il sapore di una fava. I semi seccati vengono impiegati soprattutto per zuppe e minestre. Lenticchia e roveja Ci sono piatti e ricette, nella nostra penisola dove è più facile dividersi che unirsi (anche a tavola…), che variano da provincia a provincia, da comune a comune, da una rione all’altro. E ci sono perfino prodotti, diventati famosi in tutto il mondo, che portano il nome del luogo di produzione come tanti altri, solo che il posto nel quale nascono e che stanno rendendo popolare è quello di una frazioncina, neanche dell’intero comune. Succede in Umbria, dove Norcia, un comune di cinquemila abitanti all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini e a un centinaio di chilometri dal capoluogo Perugia, è famoso nel mondo per il meraviglioso centro storico (sopravvissuto a terremoti), per San Benedetto e, per quel che riguarda il cibo, soprattutto per il tartufo nero, il prosciutto crudo Igp e i norcini, i maestri della salumeria che ormai si chiamano così per definizione, anche se della bella cittadina e del suo centro storico hanno a stento sentito parlare. Una frazione di Norcia, invece, con neanche duecento abitanti, è diventata quasi altrettanto famosa per le sue lenticchie: mi riferisco a Castelluccio, che con la sua posizione elevata a 1450 metri di altitudine è il centro abitato più alto dell’intera catena appenninica; di fronte a Castelluccio si erge il monte Vettore, con i suoi 2500 metri. Che Castelluccio sia una frazione, ma con una vita abbastanza autonoma rispetto a Norcia, lo spiega anche la distanza dal comune di riferimento: una trentina di chilometri… scia d’inverno, ma anche una calamita per i fotografi in primavera avanzata, grazie alla sua fioritura immortalata da milioni di scatti: l’altopiano lungo venti chilometri, sul quale si trova la piccola frazione, nella tarda primavera offre un particolare fenomeno naturale, dovuto alla fioritura contemporanea di decine di fiori diversi, che formano uno straordinario tappeto multicolore disteso sull’intera valle. Oltre al giallo, spiccano il rosso dei papaveri e il blu dei ciclamini. In questo notevole scenario naturale, che da solo basterebbe a rendere famosa Castelluccio, si sono inserite le lenticchie, che qui crescono con un sapore inconfondibile, un particolare aspetto policromo e dimensioni piuttosto ridotte. Altri requisiti importanti sono la resistenza (ai parassiti, al freddo e alla siccità) e la coltivazione quasi naturalmente biologica. Tutti aspetti che hanno fatto meritare loro il marchio europeo della Igp, l’Indicazione geografica protetta, alla quale hanno fatto seguito una richiesta sempre più elevata e prezzi altrettanto remunerativi. Ormai un sacchetto di lenticchie di Castelluccio non può mancare nei pacchi-regalo enogastronomici del periodo natalizio. Seminate in primavera allo sciogliersi della neve, le lenticchie richiedono pioggia per crescere e pazienza in fase di raccolta, che qui chiamano carpitura, così come il legume è chiamato lénta. La raccolta, che avviene fra la fine di luglio e ferragosto, adesso è sempre più meccanizzata, ma qualche decennio fa dava vita a una grande kermesse contadina, con l’arrivo, anche da fuori regione, dei mietitori e delle carpirine, lavoratrici specializzate in questo lavoro. Musiche e canti, abitudini secolari ormai perse e un gergo specifico per ogni passaggio della lavorazione, rendevano questa raccolta degna di essere raccontata, come è avvenuto per le mondine. Peccato che nessuno abbia pensato di girare l’equivalente di Riso amaro qui a Castelluccio… roveja. Il Parco nazionale dei Monti Sibillini, con i suoi settantamila ettari di territorio da vivere e da assaporare, offre altri prodotti assai particolari: siamo in quella zona fra Umbria e Marche che ha saputo rinascere dopo tanti terremoti, ma ha vissuto con sofferenza la mancata industrializzazione, che ora invece si rivela una fortuna dal punto di vista turistico e ambientale. Nessuno scheletro di capannoni abbandonati né ciminiere in mattoni ormai utilizzabili solo come punti di riferimento per il trekking: qui la natura è rimasta quella di un tempo, e si trovano ancora le pecore sopravissane e i loro formaggi, oppure un salame spalmabile delicatissimo come il ciaùscolo. E poi, con un buon navigatore, vi capiterà di trovare un’altra frazione, Civita di Cascia, che con i suoi sessanta abitanti e nonostante il suo isolamento (si trova a dodici chilometri da Cascia e a 1200 metri di altitudine), si sta facendo conoscere con un suo prodotto unico. Civita è ormai nota ai buongustai come la patria di un legume del quale si era persa la nozione: la roveja, detta ancherubiglio o corbello e, dai botanici, pisum arvense. Arrivata dal Medio Oriente, era coltivata in Europa già in epoca preistorica: pare sia stata, insieme a lenticchia, orzo e farro, la base dell’alimentazione umana nel Neolitico. In Umbria fu usata dalle prime popolazioni autoctone e poi da Etruschi e Romani. Diffusissima fino a pochi decenni fa, anche perché cresce spontaneamente (un’altra definizione è “pisello selvatico”), è scomparsa prima come foraggio, perché poco adatta ai nuovi allevamenti del dopoguerra, poi anche come alimento per l’uomo. Da protagonista di piatti tradizionali come la farrecchiata, una polenta di legumi molto diffusa in tutta la zona del Parco, era diventata un ricordo sbiadito nei racconti dei più anziani. Tanto è bastato, però, per far incuriosire due signore di Civita di Cascia, Silvana Cresci e Geltrude Moretti, che qualche anno fa hanno cominciato a rivalutare questo legume raro, dal seme di un colore che va dal verde scuro al marrone-grigiastro, e si posiziona dunque a metà strada fra lenticchie e piselli, anche se il sapore assomiglia più a quello delle fave. Il seguito della storia lo racconta Lanfranco Bartocci, il presidente di Bioumbria, un’associazione di piccoli coltivatori biologici che la stanno facendo conoscere a un pubblico più ampio, di pari passo con l’aumento della produzione: “Alla fine degli anni Novanta si sono mosse le Università (Perugia e Ancona), i Gruppi di azione locale e alcuni contadini, per sperimentare e riprendere la produzione. Nel 2006 è diventata oggetto di un presidio Slowfood, e sta tornando lungo tutto l’Appennino umbro-marchigiano, in particolare sui Monti Sibillini, con campi anche a quote molto elevate. Come la lenticchia di Castelluccio, la Roveja è un legume molto resistente alle temperature più basse, ha un ciclo breve e non richiede molta acqua. L’unico problema è che si raccoglie in agosto, operazione faticosa talvolta per il caldo e sempre perché va fatta per lo più a mano. Come tutti i legumi, è ottima dal punto di vista nutrizionale, per la presenza di proteine, carboidrati, fosforo, potassio, pochissimi grassi e molte fibre”. Bruno Gambacorta tratto da “Eat Parade – Alla scoperta di personaggi, storie, prodotti e ricette fuori dal comune”, di Bruno Gambacorta, edito da RAI ERI e Vallardi. |
Post n°229 pubblicato il 31 Agosto 2015 da orkelio
Mangia un pizzico di sale con un po’ di zucchero prima di dormire: quello che succede è incredibile Sebbene non sia raccomandato in grandi quantità, il sale aiuta a ridurre il mal di testa, rafforza il sistema immunitario, aumenta il livello di energia del corpo, bilancia il livello di serotonina e di elettroliti nel corpo, e altro ancora. Ma vediamo cosa succede se mangi un pizzico di sale con zucchero, prima di andare a dormire… Il sale e lo zucchero non sono due alimenti raccomandati in grandi quantità a causa delle loro proprietà potenzialmente dannose, ma questo non significa che non abbiano dei lati positivi. Un ruolo speciale nella salute umana viene dato alla combinazione di sale e zucchero, come spiega Matt Stone, ricercatore americano di salute e autore di diversi libri sulla nutrizione e il metabolismo. Questa combinazione, in un rapporto appropriato e specifico, può permettere alle persone che lottano in questo momento con l’insonnia, di ritrovare un sonno tranquillo. Come mai? Lo zucchero e il sale agiscono come “batteria” per le cellule: il glucosio fornisce il rifornimento di combustibile ai mitocondri, mentre l’equilibrio di sodio nel liquido interstiziale permette la produzione di energia e la respirazione adeguata delle cellule.
Quando sentiamo “bandire” dalla nostra alimentazione zucchero e sale, è bene ricordarsi quindi che queste due sostanze nutrienti possono anche essere utilizzate come potenti strumenti terapeutici per gestire lo stress. Inoltre, sfatiamo il mito che lo zucchero causa iperattività, questa è una falsa credenza! Quando viene utilizzato come strumento terapeutico, il cibo in questo modo ha l’effetto opposto. Quindi, se sei tra coloro che sentono spesso l’adrenalina in circolo nel corpo e questo ti impedisce di dormire, una combinazione di zucchero e sale può essere un fantastico salva-vita. LA RICETTA MAGICA La combinazione di dolce e salato aiuta in modo ottimale il bilanciamento e il funzionamento dell’ormone dello stress, spiega Matt Stone. Come fare questa polvere “ipnotica”? Il rapporto di sale e zucchero, consigliato dal ricercatore Matt Stone, è di 1: 5. E’ consigliabile usare sale marino non raffinato (meglio ancora sale dell’Himalaya) e zucchero grezzo integrale di canna o muscovado tipo rapadura. Se non ce l’hai in casa, sale comune e zucchero raffinato potranno comunque esserti di aiuto in “caso di emergenza”. Mescola 5 cucchiaini di zucchero e 1 cucchiaino di sale e mettili in un barattolo di vetro. Questo composto non durerà molto a lungo. Prima di dormire (o quando ti svegli durante la notte), agita la bottiglia e con un cucchiaino (o le dita) metti sotto la lingua una piccola presa di sale e zucchero che può essere facilmente sciolta. Matt Stone ha definito questa miscela “polvere magica per dormire”, una polvere magica che ti libererà dall’insonnia! |
E´ inevitabile: tutti conosciamo molto bene la situazione. Lei esagera, lui minimizza, lei sbotta, lui si chiude a riccio e non parla piú. La comunicazione del mondo femminile é molto diversa da quella maschile.
Dopo la giornata lavorativa Qual é il momento della giornata in cui si accumola piú stress? Solitamente viene fatto coincidere dagli studiosi con il termine della giornata lavorativa, dopo le 8 ore passate dietro alla scrivania con il capo che incalza e il collega ammalato. Anche in questi casi la reazione é agli antipodi: la donna non vede l´ora di tornare a casa per raccontare l´accaduto, fin nei minimi dettagli, al partner, cercando approvazione, consolazione e vicinanza con il suo ascoltatore. L´uomo invece, tende a non voler condividere i propri problemi ma dopo il carico lavorativo della giornata, appena arrivato a casa cerca “svaghi” in cui liberare la mente e non dover pensare. Essi possono essere una lettura di un libro, un film, l´ascolto di un CD in poltrona. In ogni caso, le due reazioni sono spesso incompatibili e si finisce per litigare.
L´approccio ai problemi E´ stato confermato dalla neuroscienza: il cervello femminile e quello maschile non hanno la stessa conformazione, per questo spesso si comportano in modo opposto. Soprattutto nell´approccio ai problemi. Davanti al problema, l´uomo tente a volerlo risolvere tramite un approccio costruttivo, realistico e finalizzato alla ricerca di una soluzione, mentre le donna vorrebbe innanzitutto parlarne e instaurare una connessione con il partner sapendo di poter contare su di lui: vuole essere capita e confortata. Questo é il motivo per cui possono a volte sorgere dei diverbi infiniti nella risoluzione dei problemi comuni: le donne vogliono sentirsi vicine e cercando di creare intimitá grazie alla comunicazione, dialogo e condivisione. Molti uomini, invece non si trovano a proprio agio condividendo esperienze negative e spesso si possono trovare oppressi.
Il compromesso Come ovviare a tutto ció? Per le donne é utile innanzitutto capire gli spazi di cui l´altro puó avere bisogno e concederglieli. Allo stesso tempo é importante non limitare i propri bisogni e fare capire all´altro quando si ha voglia di esternare, cosí che volta finita la partita alla playstation o la birra davanti alla tv, lui sará ben disposto e tutto orecchi per voi. Allo stesso modo non create falsi allarmismi e problemi dove non ci sono, non é salutare alla vita di coppia. Per gli uomini, dall´altro lato, é necessario essere buoni ascoltatori e semplicemente “esserci” per la propria compagna: ascoltare il problema di lavoro, il diverbio con l´amica senza sminuire né criticare. Essere il suo alleato e non farla sentire sola nella sua piccolo battaglia quotidiana. Le relazioni in fondo sono un grande compromesso di due persone innamorate. |
Post n°227 pubblicato il 03 Aprile 2015 da orkelio
Sono bastati due giorni di sole, appena due, perché si risvegliasse il bosco, dopo un lungo inverno di neve e un inizio di primavera con l’emergenza frane. Sono bastati due giorni per riprendere da subito l’abitudine a due passi dopo pranzo nel bosco, godendo della luce un po’ tiepida che l’inverno ci aveva fatto dimenticare. Quando la vita, come il bosco, sembra spoglia, non ancora al livello dei nostri desideri, basta guardarla un po’ più da vicino, muovere qualche foglia, osservare i dettagli. Ecco che allora appariranno le prime piccole macchie gialle delle primule. Sì, perché le primule selvatiche (Primula vulgaris L.) sono tutte gialle. Dopo che ne vedi tante, sono quasi monotone. Se le guardi proprio da vicino, se ci infili il naso e le osservi bene, sono di tre gialli diversi, con una virgola di arancio. Piccole cose. Cose minuscole. Sarà forse un po’ meno facile intravedere qualche viola mammola (Viola odorata L.) che si risveglia, ma basta avvicinarsi ai piedi dei vecchi castagni o sulle rive di qualche fosso, torrente, guardare bene tra il muschio ed eccole lì, a ristabilire l’equilibrio della stagione, a dirci che è ora di uscire, che arriverà il caldo tra un poco. E lo stupore nel notare da lontano, per un repentino raggio di sole proprio nel momento in cui si passa, che illumina una piccola scarpata dove qualcosa di bianco spunta… Un piccolo gruppo di viole bianche (Viola alba besser) si sono fatte largo nel sottobosco insieme alle prime foglie di fragoline selvatiche. Ma anche loro, solo bianche? Bianche, crema e lilla, a guardarle bene. Più sfumature, una ricchezza che si può osservare solo fermandosi e non frenando la meraviglia. Un po’ più in là, quando siamo quasi certi di trovare solo primule e violette, ci appare un gruppetto di erba perla (Lithospermum purpurocaeruleum L.). L’erba perla è una tavolozza di colori. Nasce dal suo bocciolo quasi porpora, muta in fucsia per diventare poi azzurra e blu, viola nei terreni più acidi. Un piccolo miracolo di mutazione, di diversità di colori sullo stesso stelo, di capacità di mantenere decine di sfumature in un’unica vita. Volendo osservare le piccole cose, si trovano. Altrimenti sfuggono. Quando le cose migliori sembrano ancora lontane, è il momento di sforzarsi per guardare dove sono i nostri piedi. Solo così potremo notare che in mezzo a quel che sembra ancora un nulla, tra pagliuzze secche e pezzi di cortecce, c’è un piccolo tutto, coraggioso e solenne. Anche se si fatica a vederlo, anche se un filo d’erba è più grande di un anemone epatica (Hepatica nobilis L.), trovare la prima nella sua minuscola perfezione, è un tuffo al cuore ogni primavera. Usciamo dal bosco incrociando sotto i faggi qualche gruppo di elleboro (Helleborus bocconei Ten. s.l.). Il sole li illumina trasformandoli in piccole lanterne luminose che ondeggiano lentamente nel vento di aprile. Pareva non ci fosse ancora niente nel bosco, ma fermandosi, regalandosi il tempo per osservare, i primi piccoli tesori erano lì. Non serve desiderare le fioriture di maggio, se ci si prende il tempo per assaporare aprile. |
Si parla sempre molto di ambiente, ma se ne parla anche molto a sproposito. Infatti, nonostante i tanti dibattiti, quando c'è una possibilità di sostituire il petrolio con materie prime naturali e rinnovabili, nessuno se ne accorge (così come nessuno si è mai accorto del più grande sperpero di risorse energetiche della Storia, quello del metano). Certo, è molto difficile oggi immaginare un'economia sviluppata che possa fare a meno del petrolio, dei milioni di alberi abbattuti ogni anno per fare la carta, e dei prodotti dell'industria chimica. Ed è altrettanto difficile immaginare una società affluente senza le montagne di rifiuti, l'inquinamento e gli altri danni all'ambiente a cui siamo da tempo abituati. Eppure una concreta e fondata speranza esiste: questa speranza ci viene dalla canapa. Con le materie prime della canapa si possono produrre, in modo pulito ed economicamente conveniente, tessuti, carta, plastiche, vernici, combustibili, materiali per l'edilizia ed anche un olio alimentare di altissime qualità. La canapa è stata, tra le specie coltivate, una delle poche conosciute fin dall'antichità sia in Oriente che in Occidente. In Cina essa era usata fin dalla preistoria per fabbricare corde e tessuti, e più di 2000 anni fa è servita per fabbricare il primo foglio di carta. Nel Mediterraneo già i Fenici usavano vele di canapa per le loro imbarcazioni. E nella Pianura Padana la canapa è stata coltivata per la fibra tessile fin dall'epoca romana. Ma quali sono le materie prime della canapa, e quali prodotti se ne possono ottenere? |
Post n°225 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da orkelio
Energia solare dalla carta da parati: l'ultima novità arriva dalla Finlandia Di Alessandro Martorana | 16.02.2015 20:22 CET La carta da parati è solitamente fonte di grandi discussioni in famiglia: metterla o non metterla? E se sì, quale scegliere? Dalla Finlandia potrebbe essere in arrivo una soluzione potenzialmente in grado di ridurre le diatribe casalinghe, se non altro perché potrebbe consentire notevoli risparmi in bolletta: si tratta infatti di una carta da parati solare. La novità arriva dagli ingegneri del VTT Technical Research Centre of Finland, un'organizzazione non-profit di Espoo (la città della Nokia) che rappresenta uno dei più grandi enti di ricerca tecnologica del Nord Europa. Il loro ultimo ritrovato è un pannello solare flessibile e riciclabile a forma di foglia. Gli scienziati finlandesi hanno stampato questi pannelli su una pellicola molto sottile (circa 2 millimetri), in grado di essere applicata come una carta da parati e di generare corrente elettrica sfruttando l'illuminazione interna o la luce proveniente dall'esterno. L'innovazione principale di VTT risiede nella tecnologia di produzione, che permette la riproduzione in grande quantità di questi pannelli solari organici (OPV). Oltre agli elettrodi ed agli strati polimerici necessari per raccogliere energia dalla luce, le "foglie" possono essere decorate per rendere al meglio come carta da parati. Ad ogni modo, questo è soltanto uno dei possibili utilizzi di questa tecnologia, che può essere sfruttata anche su delle finestre, o sui cartelloni pubblicitari. La superficie attiva di una singola foglia solare è di 0,0144 metri quadri, e di conseguenza un foglio con 200 di questi mini-pannelli fotovoltaici organici potrebbe essere in grado di generare, secondo quanto dichiarato dagli ingegneri di VTT, 10,4 watt di potenza se posti a latitudini mediterranee. Potrebbero quindi rappresentare un'ottima soluzione dalle nostre parti, dove il Sole certo non manca. L'ente finlandese sta ora passando dalla fase-pilota al tentativo di commercializzazione. Anche se non si è ancora parlato di possibili prezzi, la produzione di questa carta da parati solare è piuttosto economica, anche grazie alla limitata quantità di scarti di lavorazione ed alla possibilità di riciclare le foglie quando queste hanno esaurito il proprio ciclo di vita. |
Post n°224 pubblicato il 26 Novembre 2014 da orkelio
Nonostante la diffusione e il fatto che siano ormai diventate abbastanza familiari, quando si parla di gomme invernali ci sono sempre alcuni pregiudizi e luoghi comuni duri a morire. Ne è convinta la Delticom, (la società tedesca leader nella vendita delle gomme online con il marchio gommadiretto.it.) che ne ha individuati cinque. Eccoli: I pneumatici invernali vanno bene solo in caso di ghiaccio e neve. Dato per scontato che diano il meglio di sé in condizioni difficili, offrono però prestazioni interessanti anche a temperature comprese tra gli zero e i sette gradi, un intervallo tipico degli inverni italiani. E più si abbassa la temperatura, più aumenta il vantaggio sulle estive. Non sono indispensabili per uso prevalentemente cittadino. Anche se le precipitazioni nevose sono, nel nostro Paese, mediamente inferiori rispetto al Nord-Europa, il problema del gelo e delle piogge non va comunque sottovalutato, nemmeno in città. Persino nei centri urbani, basta un po’ di neve per rendere davvero difficoltosa la circolazione. Il battistrada invernale è rumoroso e fa aumentare i consumi. Poteva essere vero 20 anni fa: le gomme invernali moderne non hanno nulla da invidiare in termini di confort alle omologhe estive. E nemmeno quello dei consumi è più un problema dato che le carcasse e i battistrada sono ottimizzati anche in funzione di questo. Le gomme invernali causano alti costi aggiuntivi. Se si guarda al solo fatto di possedere due treni di ruote completi, ovviamente c’è un aggravio di costi. Ciò che invece viene spesso trascurato è che i chilometri percorsi dall’automobilista, essendo spalmati appunto su due treni, riducono la frequenza con cui bisogna cambiare le gomme. Come dire: il maggior costo viene in parte compensato dai vantaggi. Con le invernali bisogna andare piano. I moderni pneumatici in commercio sono in grado di soddisfare anche i requisiti delle vetture più potenti, quelle, per intenderci, omologate con codici di velocità H (fino a 210 km/h) e V (fino a 240 km/h). Nessun limite tecnico, dunque, ma niente di meno di ciò che impone il Codice della strada e il buon senso. |
Nella giungla amazzonica fra Perù, Brasile e Venezuela sopravvivono nascoste tribù sconosciute di indios bianchi che dicono di discendere dagli extraterrestri. Tra verità e leggenda, questa è la cronaca di un mondo perduto, dalla notte in cui gli dei arrivarono da Schwerta. Alfredo Lissoni "Ero proprio in Venezuela, ai confini dell’Amazzonia colombiana, l’anno in cui la notizia rimbalzò su tutti i giornali brasiliani. Si trattava di questo: erano state avvistate, da due passeggeri di un bimotore che stava sorvolando la zona, tre piramidi di più di cento metri d’altezza, disposte in forma triangolare e situate sull’estesissima frontiera del Brasile. Su questa "bomba" giornalistica si erano buttati anche Erich Von Daeniken e Jacques Cousteau". A parlare è la linguista ed archeologa dilettante basca Mireille Rostaing Casini che, nel suo libro "Archeologia misteriosa" (1) racconta: "E la storia non finiva qui. Ai primi del 1979 erano state fotografate da un aereo dodici piramidi, grandissime, nella foresta del dipartimento peruviano di Madre de Dios, anch’esso confinante con il Brasile. Queste fotografie le mostrano in collocazione simmetrica, le une vicine alle altre, in due file di sei. Le piramidi si trovano in una regione dove si pensa sia esistito un grandissimo e potente impero, detto del Gran Paititì, e di cui non si sa praticamente nulla se non che nel suo territorio si trovavano enormi ricchezze in oro ed una grande quantità di tesori nascosti. Un indio mi disse che in questa zona esiste un passaggio nella collina denominata Tampu-Tocco, attraverso il quale si passa ad altri mondi situati nelle viscere della terra". IL MISTERO DI PANTIACOLLA La storia delle dodici piramidi del Gran Paititì scatena da anni polemiche infuocate. Diversi esponenti dell’archeologia e della scienza ufficiale, in testa lo stimatissimo geologo brasiliano Aziz Nacib Ab’Saber, ritengono trattarsi soltanto di curiose formazioni rocciose, coperte di vegetazione (2). Di diverso parere sono stati due esploratori dilettanti italiani, l’ormai scomparso Mario Ghiringhelli e suo cugino, il milanese Marco Zagni. "Nell’estate del 1979 mio cugino Mario, provetto esploratore, si trovava in Perù quando seppe da una radioamatrice di Lima che il Radio Club Peruviano di Cuzco aveva perso i contatti con una spedizione francese avventuratasi nel dipartimento di Madre de Dios", ci ha raccontato Zagni. "Non era questo il primo caso. Tutte le spedizioni che si erano avventurate in quella zona, alla ricerca di una sperduta città precolombiana, erano scomparse misteriosamente. Nel caso dei francesi, l’ultimo messaggio da questi inviato diceva: ‘Siamo attaccati da una tribù sconosciuta di indios bianchi, alti almeno due metri’. Ora, io non ho mai sentito parlare di giganti bianchi in Amazzonia, almeno nei testi canonici, in quanto nel folklore sudamerindio esistono da secoli leggende di questo tipo. L’episodio di Madre de Dios sembrava proprio confermare simili dicerie. E non solo. Dopo questi fatti, io e mio cugino abbiamo condotto molte ricerche d’archivio ed abbiamo scoperto che l’episodio si era verificato in una zona fluviale, quella di Pantiacolla, ove, nel 1975, i satelliti meteo Landsat avevano identificato un’area piana, ellittica, al cui interno si notavano dodici strutture piramidali in fila. Per gli archeologi esse sono solo curiose formazioni naturali, ma io non la penso così. Del resto, nessuno è mai andato a controllarle di persona, eccezion fatta per il frettoloso sorvolo a bordo di un elicottero, da parte di uno studioso italiano". GLI INDIOS BIANCHI Esiste dunque, nel cuore dell’Amazzonia, una civiltà perduta, forse nemmeno umana, legata al culto delle piramidi? Piramidi, come sottolinea la Rostaing Casini viste le foto, non di tipo azteco ma egizio? É difficile sostenerlo, ma da un nostro collaboratore, il fisico salvadoregno Luis Lopez spesso a spasso per le Americhe, abbiamo ottenuto ulteriori elementi. "Durante alcune mie ricerche in Salvador", ci ha raccontato Lopez nel maggio del 1993, prima ancora che Zagni riesumasse l’episodio di Pantiacolla, " ho incontrato un archeologo italiano, Mario P., che da anni lavora in Perù. Quest’uomo, appartenendo all’establishment scientifico uffiale e temendo il ridicolo, ha preteso l’anonimato (ma noi abbiamo tutti i suoi dati, n.d.A.); mi ha raccontato di avere visto degli UFO nella zona e di avere scattato delle foto a certe bruciature circolari; Mario ha aggiunto che questi fenomeni sono ricorrenti nella foresta amazzonica al punto che gli indios, affatto spaventati, hanno ribattezzato i visitatori spaziali ‘gli incas’, intesi come appartenenti ad una razza superiore, di signori, come sono considerati gli antichi incas". "Non solo", prosegue Lopez. "L’archeologo ha anche scoperto una serie di scheletri umani lunghi due metri, appartenenti ad una razza sconosciuta. Questa scoperta è per ora mantenuta top secret e non so se e quando essa verrà divulgata". Non finisce qui. La vicenda degli indios bianchi è confermata anche da un altro esploratore, il professor Marcel Homet, archeologo, paleontologo, antropologo ed etnologo francese. Quest’ultimo, durante l’esplorazione dell’Amazzonia brasiliana, nella zona dell’Urari-Coera, si era imbattuto in due indios sbucati dalla foresta. "Senza alcun preavviso", scrisse Homet (3), "la cortina di foglie della giungla si aperse e ci apparvero due indios bellissimi. Ci studiavano con attenzione, infastiditi dal fatto che puntassimo loro contro i nostri fucili. Ebbi agio di osservarli attentamente. Erano esseri umani di forme bellissime. Dove avevo visto degli esseri simili? Ma certo, in Arabia! I nasi aquilini, le fronti spaziose, gli occhi grandi, spalancati, ed il colore chiaro della pelle...Erano uomini di razza bianca, veri mediterranei, progenitori, contemporanei o parenti di questa razza". I due indios vennero in seguito identificati da una delle guide del professor Homet come Waika, membri di una tribù assai poco conosciuta, "pericolosi e crudeli combattenti" che avevano la "curiosa" usanza di rapire donne dalla pelle bianca con cui accoppiarsi, forse per preservare il colore della loro pelle, oltremodo insolito in quelle regioni selvagge. Anche un altro celebre esploratore d’inizio secolo, il colonnello inglese Percy Fawcett conferma, nel suo diario (4), dell’esistenza di indios amazzonici dalla pelle bianca. "A Jequie, un centro piuttosto grande che esportava cacao a Bahia, un vecchio negro di nome Elias José do Santo, ex ispettore della polizia imperiale, mi raccontò di indiani dalla pelle chiara e dai capelli rossi che vivevano nel bacino del Gongugy, e di una "città incantata" che trascinava sempre più avanti l’esploratore, finché svaniva come un miraggio. Seppi poi dei Molopaques, una tribù scoperta a Minas Gerais in Brasile nel secolo XVIIº; avevano la pelle chiara e portavano la barba; le loro donne avevano capelli biondo oro, bianchi o castani, piedi e mani piccoli, occhi azzurri". COLONIZZATORI DA SCHWERTA Ma come erano arrivati dei bianchi nel cuore della foresta amazzonica? La risposta la troviamo in un altro libro, la "Cronaca di Akakor" del giornalista e sociologo bavarese Karl Brugger (tanto per cambiare, assassinato in circostanze misteriose nel 1984). Brugger conobbe bel 1972 a Manaus, in Brasile, il capo indio Tatunca Nara, a suo dire discendente di una mitica tribù "spaziale", gli Ugha Mongulala. Secondo il racconto di Tatunca Nara, i Mongulala vivevano nel cuore dell’Amazzonia, sin dalla notte dei tempi, "in piccoli gruppi, in caverne e grotte, camminando carponi". Poi, nell’anno 13500 a.C. del nostro calendario, "erano giunti gli Dèi. Essi portarono la luce". "Gli stranieri", ha raccontato il capo indio a Karl Brugger, "apparvero all’improvviso nel cielo su brillanti navi d’oro. Segnali di fuoco illuminarono la pianura; la terra tremava ed il tuono risuonava sulle colline. Gli uomini si prostrarono con stupore e profondo rispetto davanti ai potenti stranieri, che vennero ad impossessarsi della terra". "Gli stranieri dissero che la loro patria si chiamava Schwerta, un mondo lontano nella profondità del cosmo. A Schwerta viveva la loro gente, ed essi erano partiti di là per visitare altri mondi, e portarvi la loro scienza". I SIGNORI ANTERIORI "Schwerta", prosegue Tatunca Nara, "era un immenso impero, formato da mondi numerosi come i granelli di polvere di una strada. I visitatori ci dissero che ogni seimila anni i due mondi, quello dei nostri Primi Maestri e la nostra terra, s’incontreranno. E che allora gli Dei torneranno. "Dovunque sia e qualsiasi forma abbia Schwerta, con l’arrivo di questi visitatori dal cielo cominciò sulla terra l’Età dell’Oro". I Maestri, come vennero prontamente ribattezzati dagli indios, "vennero sulla terra con 130 famiglie, per liberare gli uomini dall’oscurità. E loro accettarono e riconobbero gli uomini come fratelli. I Maestri fecero stabilire le tribù nomadi e divisero lealmente ogni frutto della terra. Pazientemente e senza stancarsi, ci insegnarono le loro leggi, anche se gli uomini facevano resistenza, come bambini ostinati. Per questo loro amore verso gli uomini, per tutto quello che diedero ed insegnarono noi li veneriamo come i nostri portatori di luce. I nostri migliori artigiani riprodussero le loro immagini per testimoniare in eterno la loro grandezza. Così sappiamo come erano fatti i nostri Signori Anteriori". "I Signori di Schwerta", racconta Tatunca Nara, "erano simili agli uomini. Il loro corpo esile ed i tratti del volto erano molto delicati. Avevano la pelle bianca ed i capelli neri con riflessi blu. Portavano una folta barba e come gli umani erano vulnerabili, perchè fatti di carne. C’era però un particolare segno fisico che li distingueva dagli abitanti della Terra: essi avevano alle mani e ai piedi sei dita (vi ricorda qualcosa?, n.d.A.). Questo era il segno dell’origine divina". ALIENI, NON TERRESTRI I Maestri, prosegue il capo indio, non erano terrestri. Tatunca Nara, nel ricostruire per Karl Brugger l’intera storia del suo popolo, divideva decisamente il periodo dell’arrivo dei visitatori spaziali (peraltro corrispondente, secondo alcune fonti, alla reale nascita della civiltà egizia) dal successivo arrivo di esploratori bianchi: i goti, nel 570 d.C., gli spagnoli, nel 1532, i nazisti, nel 1941. I Maestri "tracciarono canali e strade, seminarono piante nuove, sconosciute a noi uomini. Insegnarono ai nostri primitivi antenati che un animale non è solo una preda da cacciare, ma anche una preziosa proprietà, che allontana la fame. pazientemente trasmisero loro il sapere necessario per comprendere i segreti della natura. Sorretti da questi principi, gli Ugha Mongulala sono sopravvissuti per millenni a gigantesche catastrofi e guerre sanguinose". Grazie agli Schwerta, gli Ugha Mongulala costruirono un impero che si estendeva dal Perù al Brasile al Mato Grosso (in questa regione scomprave Percy Fawcett, alla ricerca di una città perduta). I Maestri, prosegue Tatunca Nara, conoscevano le leggi dell’intero cosmo. Unendosi carnalmente con gli indios, generarono la tribù degli Ugha Mongulala, gli "alleati eletti". Costoro, eccezion fatta per le sei dita, nei tratti somatici ricordavano molto i visitatori. Gli alieni costruirono diverse città, e molte piramidi, "un mezzo per raggiungere la seconda vita", sostiene Tatunca Nara. GUERRE STELLARI E un brutto giorno gli dei dovettero ripartire. Erano in lotta con un altro popolo dello spazio. "Nel 10481 a.C. gli Dei lasciarono la Terra", sostiene Tatunca Nara. "Le navi dorate dei nostri Primi Maestri si spegnevano nel cielo come le stelle. La fuga degli Dei gettò il mio popolo nell’oscurità. Fummo attaccati da esseri estranei simili agli uomini, con cinque dita ma con sulle spalle teste di serpenti, tigri, falchi e altri animali. Disponevano di una scienza avanzatissima che li rendeva uguali ai primi Maestri. Tra queste due razze di Dei scoppiò una guerra. Bruciarono il mondo con armi potenti come il sole. Ma la previdenza degli Dei salvò gli Ugha Mongulala dalla distruzione". I visitatori di Schwerta costruirono nel sottosuolo amazzonico tredici dimore sotterranee, disposte secondo la costellazione da cui provenivano. E convinsero gli indios a rifugiarsi dentro caverne scavate nella roccia, e murate dall’interno. Con questo espediente gli indios sarebbero scampati alle devastazioni planetarie scatenate dalle lotte fra dei, come pure a successivi cataclismi e perfino all’avanzata dei conquistadores. Questo elemento mi è stato in parte confermato da un’esploratrice italiana che ha condotto diverse spedizioni in Perù, la milanese Elena Bordogni. "Durante una spedizione", mi ha raccontato, "incappammo in un camminamento che costeggiava una montagna e che fiancheggiava un burrone. Sul sentiero si vedevano, pietrificate, le orme dei piedi dei sacerdoti che anticamente percorrevano quella via. Con grande sorpresa ci accorgemmo che ad un certo punto il sentiero si interrompeva dinnanzi ad una parete liscia della montagna. Solo in seguito, scoprendo che le grotte erano state murate dall’interno, capimmo dove finissero quelle impronte di pietra". Si trattava delle grotte Mongulala. Anche la Rostaing Casini ha scoperto, nelle tradizioni orali peruviane, testimonianze dell’improvvisa fuga e scomparsa degli Ugha: "Secondo le tradizioni dei mistici, circa 6000 anni or sono si sarebbe verificato un terribile cataclisma che avrebbe indotto una parte dei Mongulala a rinchiudersi nel fitto della foresta; altri avrebbero invaso i territori costieri dell’oceano Pacifico, sedi di civiltà preincaiche, per poi imbarcarsi verso ignoti lidi. Alcuni si sarebbero stanziati nell’Isola di Pasqua". |
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