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Molte culture, compresa la nostra, prevedono
il dualismo anima-corpo e si basano sul
principio della separazione, alla morte, dei
due elementi. Gli Egizi avevano una visione
più complessa. Dei cinque componenti che
costituivano l'individuo (chiamati kheperu "modi
di esistenza") uno in particolare, lo spirito, si
articolava in due parti, che non hanno riscontro
in altre civiltà: il ka e il ba. Il ka, forza vitale
dell'individuo, veniva rappresentato con le
identiche fattezze della persona fisica.
Ka - Statua di Hor I (faraone XIII dinastia)
Il ba, invece, si avvicinava di più al concetto
occidentale di anima; durante la vita rimaneva
imprigionato nell'individuo, ma dopo la morte
sfuggiva dal corpo durante il giorno e vagava
nell'oltretomba, per riunirsi poi ogni sera
alla mummia. Per questo motivo il
ba veniva rappresentato con le sembianze di
un uccello con la testa del defunto.
Poichè i confini tra mondo naturale e
soprannaturale erano permeabili, il morto
doveva rimanere accessibile anche quando il
suo ba era passato nell'Aldilà. A differenza
delle religioni monoteistiche, nelle quali il corpo
di un defunto deve rimanere inaccessibile,
intoccabile e sepolto il prima possibile, in
quella egizia il defunto mummificato
rimaneva parte della vita della famiglia, che
si recava spesso a visitarlo, portandogli
offerte e scrivendogli lettere, affinchè
intervenisse per aiutare qualche familiare
a guarire da una malattia o risolvere problemi
domestici. Anche se il momento culminante
del viaggio ultraterreno era il giudizio
finale di Osiride (sempre singolo e mai
collettivo, come quello del Cristianesimo), gli
Egizi non ammettevano il concetto di peccato
così come è presente nelle religioni monoteiste:
la violazione di un precetto divino che porta
alla dannazione eterna. E infatti il
comportamento avuto dal defunto nella sua
vita terrena influiva fino a un certo punto
nel giudizio di Osiride, che consisteva nella
pesatura del cuore, cioè dell'anima.
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