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punto sul rosso

il teatro il delirio l'oblio

 

 

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Stanza numero zero. Stanza del cerchio.

Post n°197 pubblicato il 23 Settembre 2008 da le_corps

Gli dico va bene usciamo, mi lavo mi vesto mi trucco con precisione e infilo le scarpe col tacco: se i miei passi risuonano so che sto camminando, se i miei passi risuonano so che sto andando.
Gli dico va bene usciamo perché per me una cosa vale l’altra, una sera vale l’altra, un corpo vale l’altro, ma i passi devono risuonare ogni volta che poggio un piede a terra ogni volta che mi sposto da una parte all’altra: dal letto all’armadio, dall’armadio al bagno, dal bagno alle scale al portone al viale, e poi alla macchina: sportello. Che apro e poi richiudo, ma senza suono: solo i miei passi risuonano e mi dicono che sto andando. A spasso, nell’indifferenziato.
Regola numero 1: io sono senza passato.
La regola numero 2 è: chi è senza passato abita in una stanza vuota, cioè: io abito in una stanza vuota, e devo farmi un giro da sola nella mia stanza vuota almeno una volta al giorno per ricordarmi come è fatto quel vuoto, ripassarlo con gli occhi e berlo tutto cogli occhi, e ricordarmi così cosa significa essere senza passato, senza eredità, senza bagaglio.
Io sono senza passato né bagaglio, e a volte è un po’dura vivere così, ma non conosco altri modi: il passato non esiste, il passato è regolarmente abbattuto e spianato, esiste solo la mia stanza vuota. Vuota, sì, e la gente non ci crede, mi guarda e mi sorride, un po’furbamente, come se fossi io la furba come se giocassi io a fare la furba, e invece i furbi sono loro, loro vogliono fare i furbi con me pensando di usare un sorriso per insinuare il sospetto nelle mie affermazioni: ma io affermo ciò che è; io non invento nulla, come potrei inventarmi il vuoto? Come potrei darlo a vedere? Il vuoto c’è, non si può non vederlo: regola numero 3.
La regola numero 4 è che io non cambio mai: il cambiamento è un’illusione con cui fare soldi.
La regola numero 5 è che a me di far soldi non me ne frega nulla,tanto meno ingravidarmi di illusioni o altro (a scelta). Accettare la mia sterilità: corollario della regola numero 5 (corollario importante da non sottovalutare: avvertenza per l’altro).
Queste cinque regole, o regolette, non devono essere ricordate per forza, appuntate su un foglio o imparate a memoria.
In fondo basta tenere a mente la regola numero 1, la regola fondante: io sono senza passato.
In fondo basta vedere questa stanza tutta bianca e vuota, dove io sono, indiscutibilmente sono, da sola assieme a nessuna mancanza: ci sono io e una mano di vernice fresca, ma sempre asciutta, vernice inodore, una mano di vernice che è sempre la prima: non ci sono strati, sotto: garantisco.
Non c’è un qualcosa (o un tutto, fate voi, dipende da quale senso usate per vivere: se è il gusto, e dunque la vita la mangiate la ingurgitate servendovi della bocca, allora per voi è un tutto, e vi invito a leggere tutto), dicevo: non c’è un qualcosa (o un tutto) che è stato ricoperto, e che è pronto a riaffiorare o trasudare, in superficie, dagli strati sepolti.
Non ci sono cadaveri, in questa stanza: è questo che intendo. Non ho riverniciato per nascondere il sangue, non ho passato del bianco per cancellare tracce e impronte dai pavimenti o per riempire buchi nelle pareti.
Gli dico va bene usciamo, anche se è tardi anche se fa freddo e non ho messo le calze; usciamo, sono pronta tra cinque minuti, usciamo perché è l’unica cosa che so fare: camminare fino alla macchina, aprire lo sportello sedermi senza guardarlo e posare la borsa a terra tra le gambe. Sono pronta, andiamo; sono pronta, pronta a dire cose stupide con voce chiara ma strozzata, con voce che nasce dalla gola che nasce tutta in superficie (voce di pessima qualità umana, ma umano e vuoto non si accordano granché, dopo tutto), una voce che risuona però come voce gentile nell’abitacolo della macchina, a volte è metallica ma sono solo punte, punte di metallo che non disturbano: basta non leccarle; è una voce che non riscalda ma riempie, è una voce che fa il pieno, e tanto basta: il pieno rassicura, come se scacciasse il vuoto. Come se.
E infatti il vuoto è sempre lì: negli occhi tra le dita dei piedi nella bocca sotto le unghie e dietro l’orecchio, che non ascolta, che non può, in tutto quel rumore che la voce fa mentre cerca di fare gentilmente il pieno mentre cerca di dire che è normale, di dirti che va bene, va bene così: è quello che sai fare, e lo stai facendo.
Tutto è uguale tutto è indifferenziato, mentre esci, e vai, e i tuoi tacchi fanno rumore, così, per farti sentire il vuoto, per rammentarti la tua vuota presenza nella tua stanza vuota, perché da lì, dalla stanza, tu non ti sposti mai, nemmeno quando esci e cammini, sì, anche quando esci e cammini sei lì dentro, nella stanza vuota, anche quando guardi qualcuno e lo guardi negli occhi sei lì, nel bianco della tua stanza, e non importa di che colore l’altro abbia gli occhi e non importa che sapore abbia il suo fiato i capelli o la pelle, perché tutto è vuoto e bianco, perché tutto è pieno di un rumore che fa silenzio, perché tutto è come tu lo conosci ed è vero, e non fa sconcerto; perché tu sei come tu ti conosci, ed è un’armonia perfetta a cui bastano solo cinque regole, le tue cinque regole di cui non puoi fare a meno perché non puoi fare a meno di te stessa.

Chi voleva un pezzo autobiografico, l’ha avuto. Bene.  
Proseguiamo.

C’era una stanza bianca e vuota, c’era uno sguardo crudele e una volontà di distruzione, c’era uno sguardo distolto e cieco, dei legami soffocati dei raccordi tagliati; c’era una stanza di protezione e offesa, pulita e asettica: la stanza dell’assenza, dell’oblio, del patto con l’incapacità. C’era una stanza bianca come la paura, come la morte, una stanza vuota dietro i sorrisi e le facce buffe dietro i giochi di voce e di luce, c’era una stanza desolata dalle spesse pareti, una stanza che sopiva e azzerava, che aveva un’unica forma, di linea liscia piatta continua: una lunga stanza grattata e riverniciata: nuova, ogni volta nuova, una stanza senza passato senza presenze senza ricordo. Una stanza tutta bianca e vuota.
C’era una ostinazione a tacere, a digerire tutto a far sparire tutto, a perdersi e a odiare, odiarsi; c'era una pervicacia nel mentire, a se stessi, a se stessi: esiste stupidità maggiore? La menzogna imbianca le pareti di bianco assieme alla paura: esiste condanna più assurda? Una vita spesa a imbiancare una vita spesa nell’essere sospesa: nessun impegno nessun dolore nessun coraggio.
C’era una stanza bianca e vuota, una volta.
Poi la stanza inizia a prendere colore, il bianco si sgretola, le pareti si fanno friabili: la stanza inizia ad aprirsi a farsi spazio smisurato a farsi mondo, mondo da abitare, con poco con niente, a parte un po’di coraggio a parte un po’di amore, che parte da noi e poi si allunga si allarga e si spande fino a farsi onda, inaspettata improvvisa, un’onda che non t’aspettavi un’onda che avevi imbiancato e seppellito.
I cadaveri. Certo che c’erano, i cadaveri, e ci sono, sennò  mica si spiega tutto quel bianco, sennò mica si spiegano tutte quelle regole: cinque regole sacre, la prima fondante: io non ho passato. Come dire, io riparto da zero, ogni volta, e questa è la mia forza, e questo è il mio bene di scambio. Come dire, scambio il presente, la sola cosa che ho ed esiste, perché il passato non esiste: scambio presente con presente, così recita l’annuncio. Così si recitava nella mia stanza dalle spesse pareti, che ora pian piano si sfaldano si fanno briciole, briciole di onda, e quell’onda, be’, quell’onda è un rischio irresistibile è un rischio assoluto è un gioco al rialzo, e non puoi non rilanciare. Chi si ritira è perduto, di nuovo perduto, come prima come sotto quella mano di vernice bianca e inodore che ne copre, di strati, e di tracce e di sangue e di cose perdute e di persone ferite, e di solitudini e abbandoni e incapacità.
C’era una stanza bianca e vuota, una volta.
Poi un giorno sei entrato tu, e ho sentito un pieno; poi un giorno sei entrato tu e mi hai descritto un colore e mentre lo descrivevi me lo facevi vedere, sì, vedevo quel colore: non più bianco, ma colore. Poi un giorno m’è venuto da sorridere, ma non un sorriso furbo, era un sorriso di gioia, di pura gioia, di quella gioia che bagna le ciglia di pianto, ed ho pianto che sorridevo, sorridevo troppo. E le pareti si son fatte sottili, e poi hanno cominciato a sgretolarsi, per un attimo ho pensato a un crollo, e ho avuto paura, ma la paura mi sorrideva e mi diceva: che stupida che sei; mi diceva: ora basta, però; allora ho capito, ho capito che era la gioia che si prendeva gioco di me, prima sciogliendosi in pianto poi travestendosi da paura. Gioa burlona, gioia riconosciuta e finalmente ricordata, gioia riscoperta.
E così ho cominciato a gioire, e così sono tornata a gioire, in una stanza non più bianca e non più vuota; a gioire con te, di me e di te, in una stanza non più stanza, con gli occhi nei tuoi occhi, e il loro colore lo vedo, certo che lo vedo, e il tuo sapore lo sento, certo che lo sento.
Certo che ti sento.

 
 
 
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