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I bottoni di A.

Post n°203 pubblicato il 14 Ottobre 2008 da le_corps

La familiarità con la morte è una vertigine; la sfida con la morte è il mio solo pasto quotidiano: un pasto che mi affama e non mi ingrassa.
Mi illudo di conoscere il mio avversario mi illudo di essere io a condurre il gioco mi illudo di poter sopravvivere sempre, di un grammo o due sopra la morte, e mi diverte puntare su di me, e guadagnarmi l’attenzione l’affetto e la considerazione del prossimo saltando sul filo della morte.
Com’è il filo della morte? È un filo sfibrato sospeso nel vuoto, è un filo per capriole, dal quale appendersi a testa in giù o ciondolare con i piedi nel vuoto, è un filo da cui spiccare un salto in alto e su cui ricadere, e se sbagli atterraggio finisci nel vuoto, se sbagli atterraggio puoi solo sperare che il filo si intrecci ad un bottone per capriccio, allora tu sei salva, salva ancora una volta, e tutto per un bottone. È mia madre che me li cuce addosso: basta poco perché io muoia, lei lo sa, sa che sono diventata leggerissima, pelle e ossa, senza muscoli senza grasso e quasi senza organi: un involucro raggrinzito che un po’d’aria fa gonfiare, da dentro, un involucro che trema come luce tremante che sta per spegnersi, ma non è ancora spenta, che trema ma resiste, ed è una luce calda e ambrata che colora le superfici della stanza, a partire dal soffitto.
Appesa a un bottone divento luce, luce che trema. Ma c’è. E mia madre lo sa, e allora rinforza i bottoni con filo messo a doppio, con filo duro e spesso che le taglia la pelle delle dita quando lo spezza a mani nude dopo l’ultimo punto: lo spezza e fa un nodo ben stretto per assicurarsi che, semmai dovessi sbagliare atterraggio, ci sia un bottone saldamente cucito a salvarmi.
Mia madre ormai confida nei bottoni: si arma di ago e ditale e tutti i giorni controlla i miei bottoni, li stringe e annoda per sicurezza, a volte ne aggiunge qualcuno, su un polsino e perfino su un calzino: ho bottoni ovunque, ormai, anche sui calzini!
Fosse per mia madre, mi cucirebbe bottoni anche sulle braccia, sento che è questo il suo pensiero quando accarezza la lanugine delle mie braccia, e della schiena e del viso: ho una morbida e folta peluria su tutto il corpo: è la mia pelliccia, è la mia difesa contro il freddo, anche se ogni giorno che passa, e notte, sento sempre più freddo, e la luce che sono si fa sempre più tremula, e incerta, e mi pare di sentire uno stridore di fili consumati anneriti bruciati e allora chiudo gli occhi in attesa dello scoppio e della scintilla prima del buio.
Il buio finale, sì: la caduta e il vuoto che accoglie, questo vuoto che mi circonda e mi aspetta, questo vuoto morbido come un tappeto di morbido pelo, soffice come una coperta di soffici piume: la morte dev’essere questo: calore e morbidezza: uno scivolare infinito senza dolore, senza rabbia senza pianto: un nulla che abbia finalmente un senso: una assenza fatta di quiete, una quiete che è tutto, un tutto in cui fondersi, un fondersi senza urto e di pura materia.
Nella morte non c’è pensiero, no, nessuna tirannia: nella morte c’è l’unica vita possibile. Per me.
Per me che sono questa: questo mucchio di pelle e ossa: venticinque chili in tutto, bottoni compresi. Sono leggera come una valigia leggera, ma non ho gambe né rotelle. Sono leggera e immobile, tutta rannicchiata in un letto, a covare le ultime energie: il cuore è un grumo sfiancato, i polmoni una spugna rinsecchita, e intanto lo stomaco si sta chiudendo su di sé e presto si strozzerà e mi spezzerà in due mentre l’intestino si scioglierà e mi colerà dall’osso del culo.
Però sono leggera, ora. Se qualcuno mi sollevasse da questo letto e mi lanciasse fuori dalla finestra, forse non cadrei, forse mi involerei più in alto delle nuvole, con questo corpo leggero più dell’aria con questo corpo di gas, gas che ascende agli strati più alti del cielo; sì, sono leggera, estremamente leggera, e se proprio dovessi cadere, cadrei sicuramente più lenta di una foglia, e ondeggerei lungamente come una foglia descrivendo circoli nel cielo che tutti guarderebbero estasiati, tutti estasiati e col naso all’insù, per un tempo indefinito, a guardare la mia lenta discesa, una discesa senza fretta, perché la morte è così: quieta e senza fretta, quieta e senza tempo.
Io e il mio corpo di foglia: quando ci penso mi si stira la bocca, e un sorriso si fa largo tra le ossa, fin quasi a sgretolarle, le mie ossa friabili, le mie ossa di polvere.
Gioco con la morte come fosse un elastico: la tendo fino allo spasmo per vedere se resiste, se resisto, ed ogni volta la allungo un po’di più, sì, insomma, alzo la posta alzo il limite e lo supero; è una scommessa al ribasso, al ribasso di peso: meno pesantezza più leggerezza, allora tolgo cibo tolgo carne muscoli e organi, e rasento il perimetro della morte, e la seduco e mi avvicino a lei sempre un po’di più, ancora un po’, e le faccio uno sberleffo: sì, è il mio gioco: la invoco e la imploro, la scongiuro di agguantarmi, di prendermi, di farmi sua inghiottendomi e poi la ricaccio indietro, se è troppo vicina: le dico no, la prossima volta, se è troppo vicina; e la volta successiva la faccio avvicinare un altro po’, un po’di più, quasi bocca su bocca, tanto da sentire il caldo umido del suo alito, e la ricaccio indietro anche quella volta e quella dopo fino a quando la mia volontà di ferro (è la parte più pesante che ho) non si ammollerà, e allora non sarò più io a condurre il gioco a giocare con i confini, perché non ci sarà più nessun confine, perché io e la morte saremo un’unica cosa perché lei mi inghiottirà, e verrà il buio, il buio del suo ventre sterminato che accoglierà questo mucchio di pelle e ossa che sono, e questo cuore avvizzito e inutile, e stanco, troppo stanco per far luce.
Ed io tremo, tremo sempre di più, oscillo come luce tremula e incerta, e sento che lo scoppio si avvicina, e allora devo chiudere gli occhi e immaginare un volo, un volo soffice e infinito, un volo di quiete.
Se solo non ci fossero tutti questi bottoni legati a filo doppio ai miei pantaloni alle mutande e alle braccia, potrei fare un salto sul filo sbrindellato della morte e sbagliare atterraggio, sicura di cadere; se solo non ci fossero tutti questi bottoni che mia madre stringe a filo doppio, un filo duro e spesso che spezza a mani nude con la pelle delle dita che sanguina, e spezza con i denti, con le gengive che si feriscono; se solo non avessi bottoni dappertutto (ho bottoni anche al posto degli occhi!) e una madre che lega e stringe e mette punti e fa nodi, illudendosi così di salvarmi, con questo impasto di fili e saliva, di nodi e sangue; ecco, se solo non avessi bottoni dappertutto e una madre, ecco, una madre anche al posto degli occhi, io potrei…
Ma io a malapena mi muovo, sto qui ferma e immobile, ferma nel mio proposito di non mangiare di non tentare di non sperare di non far nulla, immobile nell’attesa di un fiato caldo, di una bocca sulla bocca che pian piano si apra e mi inghiotta, a partire dalla testa.

E allora non ci saranno né bottoni né madri a salvarmi.

 


Il mio cane è pelle e ossa, è stremato, a fatica solleva il suo scheletro a fatica inarca il suo dorso fatto di vertebre inanellate sporgenti pungenti. Il mio cane è pelle e ossa, è stremato e pesa 25 chili.

Ha gli occhi ancora grandi e liquidi, sebbene ciechi.

A. pesa quanto il mio cane, ora.

 
Rispondi al commento:
liubiza
liubiza il 19/10/08 alle 21:27 via WEB
Questo tuo post è stato forte come un pugno nello stomaco; leggerti, sentirti nominare la morte quasi fosse un'amica, o "calore e morbidezza: uno scivolare infinito senza dolore, senza rabbia senza pianto"… mi ha lasciata senza parole. Allora cerco di com-prenderti, tento di scacciare dai pensieri immagini di momenti passati assieme a chi stava per morire, momenti fatti d'angoscia, di terrore. Minuti, ore in cui la fame d'aria si faceva sempre più forte. Rivedo sguardi di paura. Visi trasfigurati dalla sofferenza. La morte che conosco io non profuma di lavanda. Puzza. Puzza talmente tanto da non riuscire a togliertela di dosso. La morte che ho visto finora non è indolore. Fa male. Distrugge. Strappa affetti e non lascia scampo. Poi mi fermo. Nuovamente cerco di com-prenderti. Ma non ce la faccio. E rimango ancora senza parole. Scusa.
 
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