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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

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JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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LA SCHIFOSA GUERRA

Post n°51 pubblicato il 15 Ottobre 2012 da Jiga0
 

Basta con la guerra tra Israele e Palestina, basta con tutte le guerre

di Alessandro Schwed

 

Quel preavviso israeliano all’Iran è come un vento forte che annuncia un cambio di stagione, poi si attenua, poi sta in silenzio, pronto a mordere. Un’altra guerra si è messa in coda alle guerre della Storia. Il Mediterraneo che si infiamma, altro che Atlantide. Che avvenga-non avvenga l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, due popoli attendono, dimenticano, di nuovo attendono. Nelle case di Teheran e Tel Aviv chiamano al telefono i parenti nel mondo, parlano di quello che potrebbe succedere. O non parlano con nessuno e la notte sognano la guerra: da qualche parte la paura deve finire. Un’immane pazzia. Il conflitto tra Israele e il mondo arabo, di cui l’Iran non è parte etnica ma religiosa, è così permanente da essere eterno nell’agenda politica mondiale. Una guerra di guerre, lunga sessantaquattro anni, il cui inizio nel ’900 è visibile in filmati in bianco e nero. Il fatto era, ed è rimasto, che l’esistenza di Israele era un’offesa, Israele non doveva esistere. Poi Israele ha continuato a esistere, ha capitalizzato le guerre vinte prima contrattando la restituzione dei Territori senza riuscirci, e da vari anni, con questa destra in carica, assorbendo in modo implicito, poi sempre più esplicito, i Territori. Netanyahu pare ingoiarli, evitando di contrattare la restituzione, come se fosse un non udente di un governo di non udenti. I Territori contengono la massa crescente dei coloni, un sempre più consistente serbatoio elettorale con cui fare i conti del consenso e degli affari edilizi, della costruzione delle infrastrutture. C’è la onnipresente pervasività fisica, economica, mediatica degli insediamenti israeliani, basta guardare la carta geografica; c’è il macigno della non restituzione dei Territori; la scomparsa dei tavoli della pace; il fine evidente di far prevalere lo status quo; il prender piede, con le ultime ondate dell’Alyà, di nuove stratificazioni etniche e sociali, la degenerazione dell’idea sionista in una cultura pionieristica che ricorda sempre di più la storia del Far West o, peggio, il cinema Hollywoodiano sul Far West e la dissoluzione delle terre indiane. Una semiguerra all’Iran, ma anche un’azione militare ostile nel suo territorio, sarebbe la pietra tombale su qualsiasi accordo futuro per i Territori. Un tale accordo non interessa questo governo di Israele che detiene nei Territori una parte importante del proprio serbatoio elettorale, e che in nome dei propri interessi politici e finanziari, non solo non è interessato alla pace, ma forse le è contrario. Dato che le ragioni di questa ostilità (una terra da restituire, l’aspirazione a uno stato palestinese) sono proprio le ragioni che se rimosse con i sacrifici dolorosi propri di una pace, danneggerebbero irreparabilmente gli interessi politici e finanziari del governo e del suo elettorato. Perché così si fa la pace con un nemico: rintracciando le vere ragioni dell’ostilità, contrattandole con l’offerta di terra e compensazioni che facciano arretrare quell’ostilità, in cambio dell’accettazione di alcuni punti, per esempio il riconoscimento dello stato d’Israele; mentre con minacce e azioni apertamente ostili come un blitz nei siti nucleari iraniani si ottengono subito il logoramento e la rottura di un qualsiasi tenue filo di dialogo. A fronte della mancata volontà israeliana di pace ricercata a ogni costo (magari con sacrifici dolorosi come la restituzione di Gerusalemme est e di Hebron), e anzi si preferisce minacciare l’Iran, si rispecchia in modo uguale e contrario la politica estera, o imperiale dell’Iran. La quale si offre come una ripetizione di quello che faceva la vecchia Urss nella regione, posto che il vero interesse del Cremlino nell’area era di mantenere l’instabilità. Era il tempo in cui, in modo sottile, non veniva realmente sostenuta la causa palestinese, la nascita di uno stato, ma come accade oggi con l’Iran si armeggiava ad apprestare turbolenze, a fare delle aspirazioni palestinesi un’arma di pressione nell’area più delicata del mondo. Dunque, la questione palestinese usata come rubinetto da aprire e chiudere: un’arma contrattuale. La chiave per altre mire e altre trattative. Ora che la politica estera è stata sostituita dalle intraprese militari portate in giro per il mondo dalle coalizioni occidentali, e la pace-guerra è familiare agli occhi della nostra opinione pubblica, il conflitto israelo- palestinese è paradigmatico quanto al significato universale della parola “guerra”. La lunghissima guerra tra Israele e Palestina illustra come un conflitto possa avere utilità istantanea e alla lunga l’inutilità della peggior beffa. Con la sua guerra di guerre vinte, Israele è riuscito a resistere, mai ad avere vita normale; dall’altro lato, attraversando come impunemente le sconfitte, i palestinesi hanno alimentato il sogno di una Palestina che sorge addirittura al posto di Israele, ma non hanno posto una sola pietra per la nascita dello stato palestinese. E così, se consideriamo la guerra tra Palestina e Israele dal 1948, la vita dei due popoli è paragonabile a quella di una persona di 64 anni che ha vissuto l’intera vita chiusa in casa, al buio, senza avere mai visto il sole. E a me pare che oggi, profondamente, la vita quotidiana di Israele e Palestina ponga la questione filosofica del senso della guerra, la sua incompatibilità col sentire del nostro tempo. Né vinta veramente né persa per davvero, può una guerra continuata al posto della vita essere una forma ufficiosa di società, con la gente che va al lavoro, alla partita, a ballare, e a un tratto parte per Gaza o il Libano? O vive confezionando ordigni, scavando tunnel, sempre un passamontagna sul volto? A Gaza, i ragazzi giocano con la PlayStation, fanno la mitologica parte di Messi, ma fra poco potrebbe partire una fatwa anche sui Blaugrana che hanno ospitato Shalit a una partita col Real Madrid, e così morirà anche questo innocente sogno infantile. Può una guerra eterna seminare il futuro? E può il sistema delle guerre portate dalle coalizioni come esportazione della pace, divenire un baluardo di civiltà e democrazia? Le vite di Israele e della Palestina dicono di no, che servirebbe l’ordine della pace. Mentre gli esiti della pace armata sono i quaranta morti al giorno in Iraq, l’irriducibilità talebana (con cui già i sovietici fecero i conti), gli attuali oltre duemila morti della coalizione occidentale, il permanere di al Qaida la cui effettiva esistenza appare insondabile, e raggela. La dottrina dell’esportazione della democrazia con la guerra ha fallito e le strade di Baghdad snocciolano morti, del resto come può una pioggia di missili sulle vie della tua città averti educato alla democrazia? Noi che abbiamo visto in tv l’attuarsi dell’ordine attraverso la miniserie dei bombardamenti in diretta, in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libia, abbiamo constatato de visu che la guerra “intelligente” fa crollare le mura dei bunker ma rende monchi e orbi come la guerra antica. La guerra rimane sempre la stessa: un cannibale. Israele potrebbe scegliere, malauguratamente, di agire se nell’imminenza delle presidenziali Obama mostrasse incertezze, a seconda dell’andamento della campagna elettorale; oppure se i repubblicani a un tratto fossero così forti da dettare un ritorno alla dottrina Bush. Certo, non si può attaccare l’Iran per un dibattito televisivo andato male a Obama. Per ora la realtà è che la Casa Bianca dice di avere una visione del nucleare iraniano affine a Israele, ma una diversa valutazione sulla tempistica di Teheran. Seconda cosa, il mondo è attraversato da una crisi economica come metafisica, la sua lunghezza non si piega e non si spiega: una crisi che è come una guerra mondiale invisibile, e sia l’America che il mondo non possono permettersi due contemporanee, fatali guerre mondiali. A fronte del flemmatico palleggio della Casa Bianca che smorza il preavviso israeliano di guerra, il ballon d’essai di Netanyahu torna nel campo di Israele, prigioniero storico della filosofia della guerra preventiva, e trova lo stato ebraico saldato alla propria immobilità, fatta di un sostanziale disinteresse a una pace che non sia la dissoluzione geografico-politica di una possibile patria di Quelli. Solo i popoli di Israele e Palestina sanno quanto sia insensato il sistema della guerra. Per Israele la guerra è la struttura emotiva dei giorni: gli ebrei israeliani sono usciti dalla Seconda guerra mondiale e dalla Shoah, e sono stati fluidamente ingoiati da una guerra fatta di guerre successive: come se la vita possa costituirsi solamente di guerra, e nella migliore delle ipotesi bisogna essere pronti al suo scatenarsi. In Israele è un dato naturale che ci sia la guerra, o che sia dietro l’angolo, e anzi è pericolosamente sospetto il contrario: una pace lunga significa che Quelli si stanno organizzando. Solo chi vive così da generazioni, sa, consciamente o meno, che a una guerra lunga generazioni corrisponde la depressione, la vita sui nervi e altri passi sul viale dell’angoscia. Con la guerra, nelle famiglie israeliane, hanno fatto i conti uno o molti; e nel vicinato, sul pianerottolo, c’è sempre un vicino, un conoscente che è diventato pazzo per aver perso la famiglia nella Shoah e un figlio in guerra. E così, l’Israele moderno è paradigmatico di come la guerra abbia un’utilità istantanea e un’inutilità assoluta. Il susseguirsi delle guerre vinte, nel peggiore dei casi almeno non perse, ha sviluppato l’odio crescente dei vinti e la stanchezza di quei disgraziati dei vincitori. Questo governo Netanyahu dei preavvisi di guerra esercita un’assenza di ricerca della pace, un’estraneità totale all’azione di ascoltare il prossimo, che è condizione esistenziale di non vita. Non è un caso che l’ultimo eroe di Israele non sia Rabin, che aveva stretto la mano ad Arafat ed è stato assassinato, ma il corpo dimenticato di Sharon: un né vivo né morto che certo non torna a vivere e che misteriosamente non riesce a riposare in pace – metafora inquieta della vita impossibile israeliana. Israele amplia gli insediamenti, costruisce case e infrastrutture: è come se cullasse la tensione. Sta smarrendo la normalità. E’ una vita in stato ebraico di assedio. E in modo paradossale, questo rassegnarsi alla vita come guerra, assomiglia alla sopravvivenza quotidiana del tempo mentale e fisico della Shoah. Quanto vale per la guerra eterna tra Israele e il mondo arabo, Israele e l’Iran, vale per le reiterate guerre occidentali nel Golfo, nel Kosovo, in Afghanistan, Libia. Per quanto tale modo di operare venga chiamato peace keeping, contingenti di pace, guerra umanitaria, quando volano gli aerei e cadono le bombe, i contingenti non sono di pace. Guerre con “costi umani”, si dice, per non dire morirete a chi sta per morire; guerre con obiettivi limitati, si dice, che colpiranno “solo” le infrastrutture, come se strade, ponti, fabbriche, stazioni ferroviarie siano parentesi della vita. Guerre in tv, come se quell’essere di Baghdad nelle tv di tutto il mondo, la città di Aladino che si immergeva in una fantasmagorica luce verde, rendesse plausibile la pioggia dei missili da crociera Tomahawk sparati dal Golfo, come se la crociera dei tubetti di ferro fosse una capatina in città. “Sono stati sparati 130 missili da crociera” avverte quieto dal teleschermo lo speaker, opzione sorridente della guerra nella vita di famiglia. Uno torna a casa: cara, che è successo oggi? Niente, centotrenta missili da crociera, centrati otto target, e fuoco amico a Kabul – ma nulla, non erano italiani. All’inizio, le guerre in Kosovo-Afghanistan- Iraq volano alte tra le nubi dello spettacolo televisivo, poi piombano in basso e colpiscono davvero. La guerra corre, ci sono le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi. Si presentano ai microfoni in eleganti abiti civili, come se non fossero loro a mandare gli aerei dato che hanno la cravatta. Ci sono quelle dichiarazioni: nessuno ce l’ha coi popoli colpiti, la guerra è contro il regime e i suoi capi. Va da sé che non sono perforati solo i bunker del regime e le ville al mare dei capi: saltano in aria le normali piazze con le normali panchine, le case con i letti e i comodini e se va bene le scuole bruciano con dentro solo i meravigliosi disegni dei figli. Ma le belle strade che legano i quartieri si riempiono dei crepacci delle bombe, diventano strade inutili, e anche se le trasmissioni televisive funzionano ancora e la sera danno un film, la normalità ormai è scappata dalla finestra e nessuno sa dove sia andata. La pietà, quella subentra quando finalmente le macerie sono inquadrate dal basso assieme ai corpi immobili; e risulta veramente strano che oltre alla guerra preventiva non possa esserci la pietà preventiva, ma solo la sterile pietà successiva. Un permanente Vietnam. Un set cine-bombardante che elimina dittatori e rende profughi i popoli. Le case dissolte, le auto carcasse, le popolazioni fuggite, le vie deserte, le tendopoli piene, l’acqua finita, i padri scomparsi – la guerra è stata vinta. Da chi?

Guerra per una pozza d’acqua, come nell’inizio mitopoietico di “2001, Odissea nello spazio” di Kubrick. Lì, poniamo quattrocentomila anni fa, viene ucciso il membro di un gruppo di ominidi ancora privi di parola. Ringhiano, sbuffano, sono dotati di un’andatura incerta. Quando giungono alla pozza, litigano con altri ominidi per il suo possesso: il fatto è che lì si beve. Converrebbe avere la pozza e bere al posto degli altri. Tra gli ominidi c’è una discussione stilisticamente brutale. Le urla sono sempre più forti e ha luogo la prima uccisione della storia. Non originata da una lite individuale, ma come sottende il racconto biblico di Caino e Abele un omicidio- guerra per una contesa tra due gruppi identici ma socialmente diversi. Uno è stanziale e vive presso la pozza, l’altro è un gruppo che arriva da chissà dove per andare chissà dove e adesso ha sete. Per invidia, balordaggine, la prevalenza di un istinto insopprimibile, scoppia la prima guerra umana. Alla pozza di Kubrik, la scoperta di come risolvere il contenzioso e bere solo gli uni e assolutamente nessuno degli altri, avviene per caso: un ominide tira su da terra l’osso di un animale spolpato, reso bianco dal sole, e lo brandisce. Per un’intuizione fatale, colpisce la testa a un contendente, che cade affievolito sul terreno. Urlava, ora però è in silenzio, misteriosamente inerte. Tra gli ominidi si diffonde la vertigine: è stata tolta la vita. I compagni del morto fuggono, gli altri giubilano: la morte può essere data, c’è questo potere! In segno di trionfo, lo strumento che ha ucciso un uomo per la prima volta della Storia, l’osso di una preda uccisa e mangiata, viene tirato in cielo. L’osso volteggia in alto, più in alto ancora, cinematograficamente diviene una stazione spaziale orbitante – il tempo è passato in un soffio: l’ominide è un uomo. Fa l’astronauta, comunica a distanze immense. Si nutre in modo funzionale alla vita spaziale, strizza dei tubetti e ingoia sintesi cremose di uova, verdure, carni. Galleggia in assenza di gravità, cammina saltellando su pianeti dove non c’è ossigeno. Ora che non è più il 2001 del film, ma il nostro 2012, sappiamo che dopo avere orbitato nelle stazioni spaziali, l’uomo ha ucciso e uccide come alla pozza dell’acqua. Fa ancora la schifosa guerra. La storia umana passa da un omicidio: tutte le scoperte e le acquisizioni della volontà ne sono intossicate. E in modo appena visibile, un filo sottile che attraversa la lunga stanza della Storia, tutto inizia da un colpo in testa, inferto mediante l’osso di un animale ucciso per nutrirsi – versare sangue, uccidere apparenta con la violenza, la rende una delle cose ordinarie di oggi e di domani. Genesi è l’allegoria di un trauma: rompere l’armonia tra le creature, fu altamente tossico: dalla morte è venuta la morte. Perché la questione della guerra è la questione del Male: è metafisica, muove lo spirito. Ora però, la moderna questione della guerra è che la guerra in tv non seduce più. Non possiamo fantasticare più sulla guerra romantica, i commilitoni, l’avventura. In tv, la guerra fa schifo. Mica è un film, non c’è ritmo. C’è gente in fila per l’acqua, i bambini stano zitti, a un angolo c’è un cadavere. La guerra non è in sintonia con la nostra sensibilità, con gli occhi dei figli a tavola – non è ricevibile. La guerra della giustizia strappa i corpi, lascia odio, è comunque guerra. Certo, talora la guerra è stata utile: se a liberare l’Europa non ci fossero stati gli americani e l’Armata rossa, chissà cosa sarebbe oggi il mondo. Ma siamo nella post Storia, c’è l’attesa di vita, le palestre, il culto del corpo, i viaggi, gli amici dei social network da Milano a Giava: la guerra non è comprensibile, razionalizzabile, assimilabile. Perché ritenere che la guerra risolva, se non è affatto così? Che il dolore fisico non ci sia, quando si vede bene che c’è? Possiamo pensare che se quattrocentomila anni fa non ci fosse stata la lesione dell’armonia universale, versare sangue di altre creature per riempire se stessi di cibo e di possesso; se non avesse prevalso l’impulso di versare sangue come una cosa naturale per nutrirci, una cosa sopportabile, come infatti sopportiamo la convivenza degli occhi miti del bue con la fetta di carne sul nostro piatto. Se tutto questo non fosse mai successo, se non avesse prevalso mors tua vita mea, la Storia sarebbe stata un’altra. Allora non ci sarebbero stati Auschwitz né Hiroshima. Invece, c’è più di una guerra a generazione. Alla fine abbiamo visto due Gheddafi, quello assalito e sparato, e quello ricomposto in un interno. Di quello assalito si dice che siano stati i francesi ad assalirlo, ma ad assalire è stata la solita guerra. Il secondo Gheddafi è quello di qualche giorno dopo, ricomposto forse in una capanna. Era come se stesse dormendo. Estraneo alla guerra che aveva appena finito di rimbombare, appariva parte intrinseca di una pace sconosciuta sia al lui di prima che a noi di ora. Affacciato al confine di quel mondo col nostro, il suo corpo pacato domandava: “C’era bisogno di tutto questo?”.

 

Il Foglio, 9 ottobre 2012

 
 
 

Arrestate quella cicala


Si può denunciare un insetto alla polizia? Meditazioni agrodolci di fine estate

di Alessandro Schwed

E’ un peccato che il giorno dopo la notizia sia evaporata. La notte di Ferragosto una signora che soggiornava in un agriturismo dalle parti di Tarquinia ha denunciato alla polizia una cicala che friniva senza sosta, posizionata sul pino di fronte alla finestra di camera sua. Intollerabile per la sua stanchezza, per la sua mente – per un’ignoranza stordita i cui confini sono ignoti. E’ probabile che la donna fosse andata in agriturismo alla ricerca della natura, o di quello che lei riteneva essere la natura. Non era preparata al canto delle cicale, ma a un’oasi insonorizzata. Denaturata. Le sarebbe stato più semplice sopportare il ciclico passaggio della metropolitana sotto l’impiantito, come a casa sua; vedere alla tv Pino Scotto, quello simpatico del rock che ha perso il controllo e ormai dice solo vaffanculo; addormentarsi al suono dei vicini del piano di sopra che si scannano. Ma non convivere col canto di una cicala, lì, in piena campagna. Non essere in balìa di un insetto che non può neanche essere regolato. Le dispiace venire su in camera mia e spegnere quella cicala? Mi spiace signora, ma la direzione non risponde degli insetti sulle pareti esterne dell’agriturismo. Ah sìì?? Guardi che se non abbassate immediatamente il volume di quell’insetto, chiamo i carabinieri e domattina alle sei faccio arrestare anche il gallo!

Può succedere di non sapere niente della natura. Basta essere del XXI secolo, vivere in città per tutta la vita, essere cresciuti tra Internet, tv e la convinzione che Avatar esiste. Poi non sappiamo come sia andata a finire fra la donna e la cicala, per esempio se la cosa abbia avuto strascichi legali. Naturalmente, dubitiamo molto che un insetto possa essere giudicato per direttissima, scortato a una casa di pena e rieducato. E’ più facile che, senza neanche accorgersene, a fine udienza il giudice lo sopprima con una martellata. Certo, in un’eventuale udienza non ci sono garanzie che poi la cicala si presenti. Intanto, non se ne conosce con certezza il domicilio e la convocazione non è inoltrabile; infine, si ignora se la cicala fosse proprio quella. Tuttavia, il fatto che mi colpisce è che la cicala friniva e la signora non conosceva quel verso. Probabilmente, per avere visto in tv un monologo di Panariello, lei sapeva che cicala è un’espressione toscana che definisce quella tal parte che avete capito. Ma a parte Panariello, la donna dell’agriturismo non sapeva altro, e ora vorremmo farci un’idea di come lei sia vissuta. Da che infanzia provenga e con quali ricordi. Probabilmente, la donna non sapeva neanche descrivere il verso dell’insetto.

Pronto, Carabinieri, la chiamo da Poggio Stella, Agriturismo “La pentola nei campi”. Dica. Vorrei sporgere denuncia. Vada avanti. Ecco, c’è qui uno che urla sempre la stessa frase… E la disturba? Se no non le telefonavo! Capisco, e dove si trova il disturbatore? Sono quaranta ore che sta di fronte alla mia finestra, non va neanche a dormire… Perfetto, sta da quaranta ore di fronte alla sua finestra e…? Oddio divento pazza! Coraggio signora, sto facendo il verbale, allora sta di fronte alla sua finestra e poi…? Non lo so… mi ipnotizza. La ipnotizza: perfetto… ma è romeno? No. Kossovaro? No. Che è? Non lo so, adesso è lì nel buio che mi fa quel verso, oddio… Sì, e che tipo di verso sarebbe, signora? Un verso che… oddio… vomito!... No, no, mi dica tutto: ora che fa? Mi sta ipnotizzando, ga, ga, ga, ga… Ha detto ga, ga, ga? Ho paura, non so quanto potrò resistere. Ma è nudo? Secondo me sì! E che le fa? Sta lì davanti alla finestra e ga ga ga! Ma mentre è nudo e fa ga, ga, ga, esibisce qualcosa? Esibisce?? Oddio mi sento male! No, signora, resista. Sì, resisto, ga, ga, ga… E mi dica, come le dice ga ga ga? E’ lascivo? No… Minaccioso? No… Insolente? No… Potete venire con delle truppe scelte?
Ore, prima di capire che era una cicala. Ancora oggi si dovrebbe sapere, senza bisogno di studiarlo sui banchi di scuola, che la cicala è un insetto della stagione calda; che ha un antico ruolo nei racconti popolari: canta e si sgola invece di essere previdente come la formica che d’estate lavora. Anche se per me non è così, e la cicala costituisce l’inizio di ogni estate, quando con l’auto arriviamo sul viale accanto alla spiaggia e la luce del sole scende filtrata dalla volta dei pini. Il motore si spegne, usciamo di macchina e ci troviamo nel rombo di milioni di cicale. La sensazione non è di essere arrivati alla spiaggia, ma che l’intera natura sia venuta ad accoglierci. Del resto, è in questa estate torrida che della gente ha protestato per una rana che faceva gra tutta la notte in uno stagno da cui poi è stata spostata. Povera rana che faceva gra allo stagno e i vigili urbani l’hanno presa in una mano guantata e condotta ad una lontana pozza, dove i moscerini sono finiti. Ed è in questa estate che la gente ha protestato un’altra volta per i gabbiani che hanno fatto il nido nel terrazzo della loro infrequentata casa al mare, vuota il resto dell’anno. Infine, è sempre in questa estate che da qualche parte, anche se non c’entra niente con l’argomento, qualcuno ha denunciato un pappagallo perché lo offendeva. Pare che gli animali non rispettino la legge. Certo, denunciare una cicala testimonia non solo lo stato dei nervi, ma una lontananza tragica dalla realtà; una distanza ormai incolmabile dal presente. Così, stanno le cose: in un modo che a molti di noi fa ridere e a molti altri invece scatena il bisogno di ripristinare la legalità e che istrici, pipistrelli, volpi e anche i gatti imparino chi comanda. A quanto pare, succede che con gli animali e gli insetti si agisca con le stesse procedure adottate per gli esseri umani. Uno di questi giorni qualcuno denuncerà un castagno perché la sera smette di fare ombra.

Si può regolamentare tutto? La composizione della società assieme alle farfalle, alle maree, ai gechi che scendono e salgono per i muri senza nessuno che ogni tanto li sanzioni. Si vede che il disordine è grande e quasi nessuno sente di trovarsi nel posto dove credeva di stare. Intanto, la natura non sta al suo posto: vuoi perché siamo entrati in una nuova era glaciale, vuoi perché abbiamo forato l’ozono, i mari sono zeppi di scarti industriali e i delfini fanno la fine che dovrebbero fare i tonni. Anzi, nel caso abbiate osservato una mattanza, i delfini fanno la fine che non dovrebbero fare neanche i tonni. Di sicuro, la nostra esistenza è fuori dal suo centro precedente: una mutazione umana è avvenuta, si chiama computer, che è comodo, utile, semplificatorio, ma ha alterato la percezione del pianeta e della nostra convivenza col pianeta medesimo, convincendoci della possibilità di vivere un’esistenza regolabile. E come noi regoliamo sullo schermo colore, volume, brillantezza di suono e immagine, gli appuntamenti con la cronaca, e poi in casa anche l’aria fresca del condizionatore, gli orari della lavatrice, così crediamo di governare vecchiaia, cellulite, identità, fisionomia, nascita e agonia. Modelliamo i giorni, ma i giorni rimangono quelli e a un tratto presentano il conto. Il fatto è che abbiamo inscenato un’immensa fiction di nomi che eludono non tanto la nostra ignoranza, perché in apparenza saremmo informati come non è mai accaduto, quanto invece modellano i nostri potentissimi condizionamenti. E’ la bolla sottile della cosiddetta realtà virtuale che a forza di gonfiarsi è uscita dal teleschermo e fa credere possibile di plasmare la realtà con un clic. Senza che nessuno lo programmasse, una immensa realtà fittizia è entrata in noi ed è diventata noi. Non che la realtà virtuale ci stia comandando in modo subliminale: ci sta comandando l’oblio. Ci domina quello che perdiamo per strada. A un tratto siamo in un mondo basato sulla promessa che c’è tutto quello che ci deve essere nel momento che lo vogliamo. Vuoi la natura? Basta un clic per prenotare. Un Instant World con la natura istantanea da asporto: l’orario del vento, i decibel consentiti alle rane e la sera alle otto le notizie alla tv satellitare, anche se sei in un casolare in mezzo a un altipiano. Quando parlano della personalizzazione del palinsesto, di questo parlano: non di una programmazione televisiva di tv generalista, tv on demand, tv su Internet; ci parlano della possibilità di formare nel dettaglio la realtà di ognuno. Un film-vita di pace, amore, adrenalina. Con il controllo delle e-mail da sopra la stalla e la vista satellitare del pianeta, degli oceani e del podere dove ti trovi proprio adesso – senza la morte, semmai con l’anestesia. Nel frattempo, in silenzio, la vecchia realtà è scivolata dalla finestra ed è spirata. Può anche darsi che urlasse, ma chi l’ha sentita? Stavamo guardando Tele-Manila.
La signora che ha denunciato la cicala non abita distante da noi. Lei vuole, come ormai molti, la natura regolata. Una natura senza natura.

 Solo quarant’anni fa, e che sono quarant’anni?, in Italia, nazione fatta di mille diverse e bellissime campagne, la natura era in un luogo opaco. Dimenticata da generazioni. Distante dal viale dove abitavamo, dal mercato dove mamma andava fare la spesa, dalla piazza dove lavorava babbo, dalla scuola dove studiavamo. Soprattutto, la natura ci era velata dalla nostra abitudine di vivere in città come nella sola realtà esistente, una volta usciti dalla quale non ci sarebbe stato nulla. Semmai, la natura era prendere il treno e andare al mare d’estate. O la corriera, e salire in collina. E durante l’anno, chi voleva vedere come fosse stare tra la natura, doveva guardare le inchieste televisive o un film neorealista, con gli antifascisti nascosti nei casolari anneriti dal fumo, ad addentare un pezzo di pane condito con l’olio. Finché, negli anni Settanta, sparute avanguardie di famiglie in fuga non dalle città quanto dalla vita addossata agli orologi vennero in Toscana a vedere se si potevano cambiare le giornate. Prima annusarono le colline del Chianti, il Chiantishire dove la storica colonia inglese aveva trasformato i poderi in residenze adagiate fra gli ulivi, e tu guarda, le colline erano le stesse aguzze dei quadri di Giotto; poi in cima a un colle c’era un alimentari, si entrava per un panino, una signora diceva la venga, passi, e indicava alle sue spalle. Uno passava e sul retro c’era una corte con la pergola, due tavolini e le tovaglie a scacchi. La signora ti aveva seguito e diceva la si accomodi, uno si accomodava e arrivava un piatto di pappardelle al sugo di lepre, per pane la schiacciata calda, sicché la giornata era fatta. Ma il Chianti era preso dagli inglesi, costava. Allora, le avanguardie in fuga dalle città giunsero alle crete senesi, alla Valdorcia, a Montalcino. Si misero a guardare e a essere guardate. Entravano nei poderi, gli occhi sgranati sul fuoco nel camino. I più ricordati tra loro sono quelli che venivano da Milano, con la loro calata. Erano i più provati ed entusiasti di tutti. Dicevano: guarda, il fuooooco! E’ acceeeeso! Il paiooooolo! Che beeeello! E altrettanto accadeva colle vocali di prosciutto, pecorino, e della bombola d’alluminio con dentro il latte: è appena muuuunto! La gente del posto era stupita del loro stupore e i cittadini erano sollevati dalla sopravvivenza effettiva e al tempo stesso mitologica di quel mondo rurale, proprio sotto i loro occhi. Realtà per loro nuovissima, dove per scaldare la casa la gente accendeva il fuoco, teneva l’olio negli orci, il vino nelle botti e non era un racconto del Boccaccio. Ma una realtà che non finiva di presentare profumi, e sguardi all’orizzonte, mentre in città non esisteva la sensazione di uscire dal cerchio dei palazzi.

A Pienza, a Sant’Angelo in Colle, l’olio fluiva lento e denso, e fu di fronte a questa diversa velocità – così remota dal distributore automatico delle bibite – che la frescura delle cantine ebbe la meglio sulla fantascienza dei frigoriferi. Queste persone che lasciavano Milano, Roma e per piccole somme compravano poderi diroccati, venivano guardate con stupore dai paesani che appena finito di liberarsi del mondo di prima, gettando nel fuoco di cui sopra le vecchie angoliere e le credenze, sostituendole con la sfolgorante presenza delle cucine “americane” dai riposanti ripiani in formica verde da cui i milanesi erano appena fuggiti. Di converso ancora, erano guardati con stupore questi cittadini che spendevano due milioni per un podere col tetto bucato e lo rimettevano a posto andando a cercare le vecchie tegole e le credenze tarlate e le madie gettate. La notizia di un possibile vivere arrivò nelle città, si sparse e la campagna cominciò a popolarsi di una certa quantità di cittadini. Da allora, da quella riscoperta generale della natura, il mondo italiano ha fatto molte capriole, e tra la riscoperta della natura e adesso c’è l’avvento della cultura virtuale, la materializzazione del villaggio globale: la guerra in diretta tv, il terrorismo in diretta tv, la sensazione di avere tutto a portata e senza rischi. Il mondo a un passo. Fino alla bolla fragilissima delle avventure senza avventura e della natura senza natura. Cioè, uno va a passare le vacanze in un agriturismo perché fuori dalla finestra col doppio vetro c’è la natura; ma all’improvviso i fischi del vento smuovono una tegola, i gra dei rospi eludono il controllo umano e gli odori dello stallatico girano anarchici nell’aria.

A leggere la notizia della donna che denuncia la cicala, c’è la sensazione di essere stati diseredati senza essersene accorti. Eppure, non tanto tempo fa, la notizia della donna che denuncia un insetto sarebbe stata scambiata per un racconto di Achille Campanile: una di quelle storie che rinfrescano e fanno vedere come siamo. Adesso il mondo delle cose ci è entrato nel corpo e siamo ibridati con le cose. Ricordo il 1984 perché non fu un anno qualsiasi: comprai il mio primo pc. All’inizio fu dura, il sistema di scrittura era complicato. Poniamo che tu volessi cancellare una parola, bisognava evidenziarla e fare control q. Se invece desideravi cancellare un rigo, lo evidenziavi in giallino e facevi control y. Per scrivere era necessario tenere a memoria una sorta di tavola algebrica. Uno dei primi giorni del mio apprendistato, mentre ero per strada, mi pare che stessi andando a fare la spesa, ebbi un pensiero sgradevole e ne rimasi infastidito. Volevo cancellare quel pensiero importuno che mi stava rovinando la mattinata. Senza rendermene conto, bisbigliai: “Control y”. Lì, devo avere cominciato a dimenticare qualcosa, ma cosa?
Comunque, la prima formica che mi viene a passeggiare sulle lenzuola, io la denuncio.


Il Foglio, 4 settembre 2010

 
 
 

ALBA PATATA

Post n°46 pubblicato il 29 Maggio 2012 da Jiga0

La destra di Sarkozy e Berlusconi si inabissa. Dove c’erano loro, ora c’è un invitante buco nero. Da quell’antimateria erompono Marine Le Pen e il nazismo greco. Adesso anche in Italia sta maturando qualcosa. Tutto è iniziato sere fa, quando un grido terribile ha squarciato la via Nomentana: “A li mortacci!...Ve possino caricavve! …Mo ve fo vedé io, ve fo!...”. Al sentire quelle grida bestiali, la gente si è emozionata: è corsa in strada, si è affacciata alla finestra, si è tappata in casa. Il pensiero è stato unanime: o stanno girando il seguito del Marchese del Grillo, o stanno pestando i calli di Nanda, la barbona di Porta Pia. Niente di tutto questo. Al balcone, le mani sui fianchi, illuminata dalla luna, è apparsa una donna coperta di farina che gridava come una lupa. Era l’onorevole Alessandra Mussolini. Quel che è successo è semplice, dopo l’exploit elettorale dell’estrema destra di Marine Le Pen e dei nazisti greci, mentre preparava il calzone alla Ciano, Ale ha avuto uno scatto d’orgoglio. E’ corsa al balcone e ha arringato i sette colli: “Ao’!...Aprite bene le recchie! Er vento sta a cambià!...Se vince quella slavata della fija di Le Pen, vuoi che non trionfi la nipote de nonno mio?!...Dico, qui c’è la nipote di Benito Mussolini!...E ho detto Mussolini, mica ho detto cotica!”. Non cadiamo dalle nuvole, dopo il crollo della destra moderata, ce lo dovevamo aspettare. La nipote del Duce è già al lavoro. A una prima occhiata, la sua idea appare drammaticamente vincente.  Con un’audace innovazione che ricorda la retromarcia, invece di  proporre passi in avanti verso un futuro totalmente buio, lancia Il Programma dei 100.000 Passi Indietro. Che tra l’altro recita: “Insieme! Indietro! Incontro a un passato luminoso!”. Sarà il partito della nostalgia che ti strappa le lacrime dagli occhi, e se non sei d’accordo ti strappa direttamente gli occhi. Ancora non è stato deciso il nome della nuova formazione. Ci sono due ipotesi. Alessandra propone “Alba Patata”. Alba, perché alla Mussolini è venuta l’idea di fare qualcosa che in qualche modo ricordasse vagamente la  Grecia; patata perché la patata è stata molto importante nella sua vita. O se  no, la base spinge molto per  l’enfasi sentimentale di una sigla come CCBNC,  “Calci in Culo e Botte Ne li Cojoni”. Ma andiamo a vedere quali sono le idee di fondo. E subito ci viene da piangere. Il punto di forza del programma è senz’altro il ripristino della Tv in bianco e nero e il ritorno a un solo canale, seguito dal comma: “Migliorare la razza, bonificare le racchie”; comunque non è indifferente neanche l’idea di incrementare il consumo del gelato al pistacchio. Un bella botta alla crisi viene dalla proposta di tornare subito alla lira e allo stipendio canterino delle mille lire al mese. Altri punti-chiave sono gli incentivi familiari per l’acquisto della brillantina, in concomitanza all’introduzione della sospirata pena di morte.  E poi: l’orologio a cucù, la macchina da scrivere, il ritorno  a un numero base di trentacinque milioni di italiani e rendere obbligatorio il casco coloniale. E ancora: che gli uomini facciano gli uomini, le donne le donne, e i recchioni i recchioni. Sabato gnocchi, giovedì trippa e martedì purga.  Fin qui, le idee base su cui sta fermentando la nuova destra. Va detto che i punti principali sono emersi a un summit familiare tenuto da Alessandra Mussolini, con la madre Maria e la zia Sofia Scicolone. Le tre donne, riunitesi  davanti a una spianatoia, con farina zero zero e matterello, tra la realizzazione di una pizza Napoli e una pastiera, non si sono ancora accordate sulla proposta della signora Loren di rendere obbligatorio in tutta Italia l’uso della maschera di cera. 

Jiga Melik

Il Male, 18 maggio 2012
     

 
 
 

HEIL DISNEY!

Post n°44 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Jiga0
 

Esce in Italia "Becchi e pervertiti", saggio di Freud del 1938 sul primo Disney

Abbiamo riso e avremmo dovuto tremare. Come scrive il filosofo Giorgio Agamben, in Walt Disney esisterebbe una premonizione non raccolta della bomba atomica e delle sue conseguenze catastrofiche. Mentre a Springfield la gente ha semplicemente l’itterizia, Paperopoli e Topolinia sono città piene di mutanti: marinai-anatra, poliziotti-mucca e cavalli che si accoppiano con mucche.  Deve essere successo qualcosa. O Walt Disney presentiva la bomba atomica, o quando era in California si faceva i tramezzini coi funghi,  allucinogeni. Scusate tanto: ma vi sembrano normali  delle anatre grandi come persone che si fanno la doccia, vanno a scuola e all’ora di pranzo mangiano i simili arrosto? Non solo sono dei mutanti: sono cannibali. Fanno i bravi paperi, vanno in chiesa e al ritorno a casa si siedono a tavola e mangiano le cosce di un parente.  “Coscia o petto?”. “Non lo so: chi c’è oggi?”. “Zio Harry, affogato nella pepsi”.  
       “E’ solo un equivoco che le fiabe animate dell’americano Disney facciano ridere - scrive Sigmund Freud nel 1938, un anno prima di morire – lui non vuole far ridere nessuno.  Cerca solo di condividere  i suoi incubi col resto del mondo perché a quarantanni ogni mattina si sveglia con le lenzuola intrise di orina”. Si tratta di un breve saggio di Freud, dal titolo “Becchi e pervertiti”, uscito da poco in Italia per Enrico Struzzo editore. Il medico viennese scrive ancora: “C’è quel ratto in canottiera, Mickey: lotta coi malviventi, compra mazzi di fiori per la sua ragazza-topo ma non riesce a nascondere la provenienza fognaria. Si copre di graziosi bottoni gialli, ma puzza fortissimo di cachicchio. Che c’è di bello? Disney è solo un uomo con le mutande ingiallite”. Poi Freud prosegue: “Analizziamo. Nei racconti di questo regista psicopatico che si è lasciato crescere i baffi alla Hitler, ci sono città dove vivono solo cani che fanno gli ortolani e muli che sono bancari.  Cani vestiti che passeggiano con al guinzaglio cani nudi. Adulti-anatra che si vestono solo fino all’inguine. E’ questo che deve farci sognare? Una società senza mutande? La fiaba si è suicidata”. A pensarci bene, adesso che Freud ci ha illuminato, forse capiamo perché Paperino vada in giro senza mutande: non per esibizionismo, o al limite per distrazione, ma perché le mutande sono l’incubo notturno di Disney e Paperino è il suo alter ego incontinente. E così è plausibile che le fantasie di Disney abbiano violato la psiche di molte generazioni.  Dietro lo scintillio dei disegni in movimento, ci sono indicibili segreti: intanto cannibalismo tutte le volte che c’è anatra all’arancia; e poi questa continua esibizione del deretano piumato senza alcun velo. Scrive Freud nel suo saggio: “E c’è un mistero: nella città delle anatre semi-nude e dei topi a malapena in mutande, sono tutti zii e zie, e i figli nascono nipoti. Dove sono finiti i genitori?”.  Freud non lo dice, ma è chiaro che i genitori sono stati mangiati da qualcuno, e viste le presunte simpatie naziste di Walt, cucinati rigorosamente al forno. Del resto, i figli orfani sono presentati come nipoti, non come orfani. Prendiamo i “nipotini” Qui, Quo, Qua, caso analogo a quello dei gemelli Tip e Tap e di quelle caramelline di Emy, Evy, Ely. Tutti questi nipoti vivono con lo zio o la zia, eternamente scapolo o zitella, e sono portatori di un cinismo atavico: nessuno di loro chiede mai dove siano finiti i genitori. Mai, neanche durante i pranzi cannibalici di Natale. “Qui, Quo, Qua…state cominciando a crescere: è il momento  di sapere chi erano babbo e mamma. Che ne dici, Qua?  Tu sei il più grande, sei nato diciotto secondi prima di Qui e Quo”. “Cazzo mi frega. Passami un’ala di zia Paperina e buon Natale”. In questo mondo paranoide di soli zii e nipoti, al massimo c’è una nonna che però non ha avuto figli, e non si capisce perché la chiamino Nonna Papera. Sarebbe stato più giusto chiamarla Uovo sodo, o al limite Uovo Ossidato.  In tale mondo di zii con le piume, si vuol far sparire la morte dei genitori che non sono mai esistiti, mentre è chiaro dove sono finiti. In questo senso, i cartoni di Walt Disney sono negazionisti.  I genitori non sono mai esistiti, si nasce e basta. E all’inizio della vita,  nessun inizio: nessun padre e nessuna madre. Come scrisse Freud in un altro suo saggio (Ndr: “L’Uomo Mosè”), in molti miti i fondatori scompaiono come Mosè che non entra nella Terra Promessa e scompare perché viene ammazzato e il suo corpo nascosto. Proprio come il padre di Paperino. Un’anatra ammazzata come un cane e nascosta da qualche parte. Speriamo sia ancora in frigo.  

Jiga Melik (Il Male, 2 marzo 2012)

 
 
 

ROSSI HA PICCHIATO LJIAIC INUTILMENTE

Post n°42 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Jiga0
 

Tragedie a vuoto

Colpo di scena nella vicenda Delio Rossi-Adam Ljiaic. Il calciatore ha detto quelle famose brutte parole al Mister straconvinto di dirne altre. Ora Rossi lo sa e vorrebbe tornare indietro: se lo avesse saputo non lo avrebbe picchiato così inutilmente.  I particolari di questo doloroso equivoco sono emersi in un drammatico incontro tra il tecnico e il padre del calciatore, e poi tra il padre di Adam e noi. Ma andiamo con ordine. In questi giorni il pubblico del calcio aveva cercato in tutti i modi di capire cosa avesse detto Ljiaic a Rossi prima di finire addosso a quel mulino a vento di cazzotti. E infatti, il labiale del calciatore è il link di YouTube più cliccato degli ultimi anni: la scala dei potenziali insulti rende più o meno plausibile la reazione di Rossi. Secondo le interpretazioni dei tifosi che frequentano il bar Marisa di fronte allo stadio di Firenze, la rosa delle possibili interpretazioni è ristretta. Si va da “Pezzo di merda”, a “Vecchio di merda”, per scivolare nel più articolato “Pezzo di merda di vecchio di merda”. Tutte opinioni opinabili che vengono direttamente dai tavoli della briscola notturna. E fino a qui, Rossi era tranquillo: era stato licenziato a giusta ragione. Lui, uomo adulto, maestro del calcio, era stato offeso da uno sbarbatello col latte in bocca e aveva fatto bene a dargliene virilmente, e che cazzo. E così, se dopo la scarica di pugni, in un primo momento il padre di Ljiaic aveva deciso di denunciare il tecnico, dopo un incontro svoltosi in segreto, i due adulti hanno trovato un compromesso. Quello che vogliamo sapere è come sono andate veramente le cose con Rossi e perché Ljiaic senior  non l’abbia fatta pagare a quel Braccio di Ferro senza pipa. Ci racconta tutto il padre serbo del calciatore, senza l’ausilio di un interprete. Non ne ha bisogno lui, ha imparato fluidamente l’italiano guardando il Processo di Biscardi. Ci troviamo proprio al bar Marisa, di fronte al Franchi. Prima domanda: Signor Ljiaic, lo ammetta, suo figlio è un viziatello arrogante, le botte del Mister se l’è andate a cercare…Dopo aver riso per due minuti d‘orologio, l’uomo risponde con un limpido accento slavo-campano: “…Ah ah ah, ah ah…Adam viziatillo? Lo piccolo figlio mio è cresciuto con grandi bastonamenti su groppa per mia mano, e con ferro da stirillo su testa da sua grossa mamma”. Allora il ragazzo è sempre stato un delinquentello… ”Nooo...Lui stava educatissimo a mammate e a papate!...Noi lui menato come tamburo solo perché non studia italiano bene come io guardando Telemontecarlo”. Sarà stato educato con voi, ma suo figlio col signor Rossi è stato molto volgare…”Ma quale il volgare!...Lui frainteso per suo italiano immerda. Vafangulo!”. Il signor Ljiaic comincia a tirare pugni sul tavolino del bar e prosegue fino a spaccarlo in due parti. Poi inizia a urlare per il dolore alla mano. “Santa maria di capuavetere!...Santo genitale, aiuta tu me!!...(Ndr: piange) Ih Ih…filio, filio mio…io sempre detto impara italiano se no tu finisce in gabbio!...Ih ih Ih ”. Il signor Ljiaic scoppia a piangere e mi abbraccia con molto affetto.  “Tu credere a me se io dice  che mio piccolo Adam di  italiano conosce solo brutte parole??...Lui vuole dire ‘buongiorno’ e dice ‘succhiabastone’! Lui vuole dire ‘bravo mister’, lui dice ‘tua moglie grandemignotta’…Lui vuole dire: ‘Sono felice di stare sostituito all’improvviso’, invece da sua bocca esce: ‘Vecchio di merda, pisello corto, cacadiarrea’.  Tu capisci immensa mia tragedia di padre?”.
  A essere sinceri, è difficile credergli. Alla fine,  torniamo sempre al Trota. In Italia la lingua italiana è in italiano. 

Jiga Melik
 
     

 


 
 
 

ISRAELE. VIOLENZA E DIRITTO di Jiga Melik. Mi risponde Furio Colombo

Post n°40 pubblicato il 30 Aprile 2012 da Jiga0

 Il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /1
L'accusa. La misura è colma
di Jiga Melik


"LA MISURA è colma" è un'espressione che, io dico, ritrae fedelmente quanto si prova di vergogna davanti alle immagini televisive del tenente colonnello Shalom Eisner, che con indosso quel nome, Pace, colpisce a freddo il volto del giovane attivista dei diritti umani (il 14 aprile impegnato in un'escursione di solidarietà con la causa palestinese nei territori occupati, ndr). Il calcio della mitraglietta ha fatto male a lui e a noi. L'immagine di come sono ridotti Shalom e il soldato Shalom fa tremendamente male. La misura è colma. Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio, che in Siria ne uccidano a migliaia, che a Teheran gli omosessuali siano uccisi per strada senza che alcuno possa obiettare e senza che nel mondo se ne parli davvero. Ognuno risponda per sé: e in Israele la misura è colma. Per le vicende di Palestina, Gaza, Hezbollah, solo a Israele posso rivolgermi, non a Siria, Iran e al Qaeda. Perché è come quando un vaso trabocca per una goccia dopo che è diventato più che pieno: la misura è colma.
PER LE PARTI di questa infinita contesa: per i nervi di Israele, spezzati da un assedio più mediatico che militare, più pericoloso degli anni dei kamikaze; la misura è colma per i nervi, i corpi, le pance e le tasche vuote, le case scoperchiate i sentimenti del popolo palestinese, quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas - ma Israele rende assente la democrazia, e il tenente colonnello Eisner è ottuso come il governo Netanyahu.
Gli ebrei nel mondo devono, devono! criticare questo governo israeliano, una destra religiosa primordiale che costringe la moderna società ebraica ad essere assorbita dal paragone coll'integralismo islamico; gli ebrei nel mondo devono cessare di esercitarsi a differire le responsabilità israeliane, di rispondere alle domande con altre domande, invece di rispondere a quelle domande: meno le domande del mondo ricevono risposta, più divengono sacrosante. Questo governo israeliano, la sua rozzezza fanno molti più danni dei missili di Hamas. La misura è colma. E di fronte a quel fucile sbattuto sulla faccia di uno che non la pensa come il governo di Israele e lo vorrebbe dire in quel solitario stato democratico, l'unico della regione come da anni ci si sgola a dire, io dico: la misura è colma. Non ci sono scuse: l'esistenza dell'Iran, della Siria, di Hamas, i Fratelli Musulmani, al Qaeda che si stende sul mondo come una ragnatela. Un fucile in faccia, questo atto di arroganza, non è accettabile; né è accettabile quanto è accaduto in questi giorni in Israele, o da parte di Israele: persone fermate e detenute in assenza di qualsiasi regola, gente tenuta a terra negli aeroporti di mezza Europa senza poter partire per Israele (solo passaggio-corridoio per la Palestina). Israele non può e non deve sospendere la democrazia, nazionale o internazionale. È uno sciagurato segno di miopia politica, un suicidio apocalittico, speriamo non irreversibile, speriamo non in corso, che invece i cosiddetti amici di Israele sostengono con un egocentrismo che lascia sgomenti. La misura è colma.
IL CALCIO di quella mitraglietta è il segno di un'anarchia reazionaria da rispedire al mittente: un governo che dovrebbe essere espressione di un Parlamento democraticamente eletto; un primo ministro che si rivolge agli attivisti filo-palestinesi, ai non allineati, a chi, a torto o a ragione, ma a mani nude, arriva da tutto il mondo, e chiede loro perché non vadano a protestare in Siria, in Iran per quello che accade in quei paesi. Israele è solo. Meno democrazia ci sarà in Israele, meno sensibilità eserciterà lo Stato ebraico mettendo la testa sotto la sabbia e facendola mettere agli altri, nascondendo le regole scomode della democrazia, più la guerra si avvicinerà a rapidi passi felpati.
I veri amici dello Stato ebraico e della pace devono alzarsi in piedi e dire al governo Netanyahu che una grande democrazia deve essere potentemente debole. Israele deve scommettere sulla pace.
*scrittore e autore di "Can express. Rotocalco delle bestialità del nostro tempo"

il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /2
...e la difesa. Ognuno risponda per sé
di Furio Colombo


LEGGO con disagio la lettera che lo scrittore Jiga Malik (pseudonimo di Alessandro Schwed, scrittore israeliano che scrive in italiano e che finora non ho avuto occasione di conoscere) dedica all'accoglienza sgarbata, al respingimento malevolo (e, nel caso che lui racconta, brutale) di volontari europei che stavano recandosi (o tentavano i farlo) in Palestina. Il disagio è per la veemenza dello scritto che accusa con furore, ma lascia tutto in sospeso. Probabilmente lo scrittore non sapeva, al momento di questa lettera, che il colonnello israeliano Eisner, che ha colpito in faccia l'attivista danese Andreas Lassa è stato sospeso dall'esercito israeliano per due anni (sospeso senza stipendio, come precisa la autorità militare di quel Paese). Non si tratta di giudicare se la punizione è giusta, ma di prendere atto che fatti del genere non vengono considerati normali. In altre parole, in un Paese con i nervi tesi e sotto assedio è meno facile che in Italia vi siano caserme Diaz. Però la lettera va più lontano e tenterò di farlo anch'io. Ci sono tre punti importanti che meritano di essere raccolti, valutati, capiti. Il primo punto è espresso così: "Quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas". Che io sappia e ricordi, Hamas ha sempre negato ogni riconoscimento all'esistenza non solo storica o politica, ma anche fisica dello Stato di Israele. Hamas indica nella sua Carta costitutiva il dovere di ogni palestinese di cancellare Israele, di rimuoverlo come si estirpa una parte infetta e malata. Hamas è in rapporto stretto con tutti i nemici di Israele. E nonostante abbia rappresentanti seri e credibili presso i governi europei, non ha mai dato mandato a quei rappresentanti di tentare strade o legami che consentano a Paesi terzi interventi ragionevoli.
VORREI FAR notare (poiché il mio rapporto con Israele, non il governo ma il Paese, è noto) che nelle frasi appena scritte non ho detto nulla in favore o contro una delle due entità nazionali. Immagino, mentre scrivo, di essere un diplomatico che ha il compito di avvicinare i due popoli. So che troverò molte difficoltà non nei cittadini ma in un governo (quello israeliano) di destra, che crede soprattutto nello strumento militare. Ma so anche che non troverò alcun appiglio, in area palestinese, tra chi crede solo nella rimozione di Israele (di nuovo, parlo della guida politica, non del popolo) e non vuole fare quel primo passo del reciproco riconoscimento da cui tutto comincia.
La appassionata e veemente critica al governo israeliano è libera e legittima, ma non tiene conto della Storia. Non credo sia così facile dimenticare il modo in cui tanti diversi governi e regimi europei hanno giocato con i loro cittadini ebrei per poi abbandonarli e anzi offrirli ai nazisti per lo sterminio. È vero, adesso Israele è un forte Paese con un forte esercito. Si dice che potrebbe essere più generoso, ed esporsi per primo. Conosciamo qualcuno che lo ha fatto, Europa e isole Malvinas (Falkland) incluse? Il secondo è un passaggio che mi pare molto interessante: "Ognuno risponda per sé". Mi sembra il cuore del discorso. Perché, se sei israeliano o - da ebreo - ti senti legato (anche in senso polemico) a Israele, hai molte cose da dire e il diritto di farlo. Se sei, per esempio, italiano, prima di dare delle lezioni agli israeliani le devi dare a te, al tuo Paese. "Ognuno risponda per sé", vuol dire non cercare alibi nei problemi degli altri. Non andrò lontano. Resto sul posto. Noi italiani abbiamo il diritto di chiedere che si faccia finalmente, a Ramallah, il processo per l'assassinio di Vittorio Arrigoni. Ricordate? Arrigoni, carismatico volontario italiano al lavoro fra i palestinesi, è stato ucciso un anno fa, da un gruppo che - a quel che è stato detto - fanno o facevano capo ad Hamas. Invano la madre di Arrigoni, un anno dopo, si è recata in Palestina a cercare giustizia per il figlio. Il tribunale è chiuso, non sono previste sedute, gli assassini, che incontrano amici e parenti per tutto il giorno nel cortile della prigione, hanno ritrattato. E nessuno sembra preoccupato di fare giustizia.
 "OGNUNO risponda per sé". Giusto. Il governo italiano tace. Il 24 aprile la deputata Pd Codurelli ha presentato un'interrogazione urgente al governo nella Commissione Esteri. Il governo in quel momento era Stephen De Mistura, un espertissimo funzionario dell'Onu diventato appena adesso sottosegretario agli Esteri. Era sorpreso dall'evidenza offerta dalla on. Codurelli. Ma è vero, Arrigoni è stato ucciso e non importa a nessuno, né a Ramallah né a Roma. "Ognuno risponda per sé" ammonisce Jiga Melik. De Mistura ha promesso. Ma il fatto è un bel simbolo del come riconoscere, prima di tutto, le proprie responsabilità. Ed ecco il terzo punto. "Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio". La storia europea insegna che importa moltissimo. Sono state le democrazie intorno alla Germania e all'Italia, benché invase, benché colpite nel modo più grave, a combattere fino all'ultimo, fino all'arrivo delle due grandi potenze Usa e Urss che hanno stroncato, assieme ai partigiani, il nazifascismo. Ma qui vorrei riprendere quel "ognuno risponda per sé". Se le democrazie, a cominciare dall'Europa, smettono di essere finti tribunali che prima si indignano e poi si astengono, se imparano a essere presenti e vicini all'uno e all'altro dei due popoli, esigendo democrazia e riconoscimento reciproco, forse comincia la pace.

 

NB

Faccio cortesemente presente a Furio Colombo che Jiga Melik (Alessandro Schwed) non è israeliano, ma italiano.

 
 
 

LA RICCHEZZA NON MI TERRORIZZA - Paola Severino si confessa con me

Post n°39 pubblicato il 24 Aprile 2012 da Jiga0
 

Paola Severino

Per conoscere il lato umano della compagine governativa,  iniziamo un ciclo di interviste con i ministri professori. Il primo incontro è con Paola Severino, ministro della giustizia.  In una famosa intervista dove le facevano notare che nella denuncia dei redditi di 7 milioni di euro si è dimenticata della villa da 10 milioni sull'Appia, il ministro ha risposto serenamente "Essere ricca non mi imbarazza affatto".  Diciamo subito che a noi non interessano le insinuazioni realistiche secondo cui avrebbe evaso pur essendo la più ricca del governo. Vogliamo solamente far aprire il ministro e tirarne fuori la donna che vi è sigillata. La incontriamo al prestigioso  ristorante Doria Pallavicini, il nove forchette dove ci ha invitato. Paola è già a tavola. "Eccolo! - esclama, umettandosi la bocca col tovagliolo  - Sono arrivata un minuto prima, così mi avvantaggio". Indossa un giro di mezzo chilo di perle.   "...E' mio ospite naturalmente. Si serva pure dei miei avanzi". Mi inchino e spiluzzico, tanto paga la Micragnosa. Prendo posto al grande tavolo circolare. "Magari possiamo cominciare l'intervista..." "Faccio scarpetta e sono tutta sua".  "Allora, ha dichiarato che essere ricca  non la imbarazza affatto" "E' vero. Perché l'opulenza è segno di ricchezza e la ricchezza di opulenza. Per esempio tra me e lei c'è un baratro". Ride a garganella, mostrandomi la maionese coi capperi che copre la sua lingua come un  tappeto. Fa stappare un Roederer Crystal Rose. ""Lo sente il fruscio?". "Si, le cose, le bollicine lì..." - sono brillo e a stomaco vuoto. "Lo vede il baratro?...". "Veramente, vedo doppio". "Appunto, tra noi c'è la Fossa delle Marianne. Se io dico 'fruscio', mi riferisco a come frusciano i bigliettoni che mi costerà questa bottiglia, lei invece sogna bollicine".   Ora che è fradicia, lo chiedo: "Ministro, posso osare una domanda estremamente intima?". Il ministro ride. Getta la testa indietro, i capelli volano compatti nell'aria e si riposano sulla nuca con un sonoro clac "Osi!!", ride, mordendo la collana di perle a 45 giri. "Paoletta, abbiamo capito cosa non la imbarazza, invece che cosa è che la imbarazza?". "Oddio...ma mi vergogno!..." La incoraggio. Si schernisce. "Faccia conto di essere sola e spogliarsi di tutto". "Guardi - fa inghiottendo una raffica di bianchi -  ho spesso un incubo, una cosa densa...sono a letto...". Ah ecco, ci siamo...a letto. Poi?". "Sto dormendo, sogno. Sono completamente alla mercè: come nuda. "Come 'come nuda'? Senza tutti i vestiti?" No, peggio...peggio...". "Senza pelle?". "Peggio". "Senza ossa?" "Magari!...Sono dal parrucchiere. Eraldo mi ha appena fatto il carré. Vado a pagare. Lui mi fa: 380 perché è lei. Apro il portafoglio, non ho le carte di credito.  Ho solo gli spiccioli: 170 euro. Capisce??". "Certo - deglutisco - 170 euri! Che cialtronata". "....Lo può dire...La stanza mi gira intorno con tutto Eraldo. Devo ancora fare colazione con mia figlia al Passetto, ritirare  una comodino del '500 e pagare i pioppi giganti. Che ci faccio con 170 euro, la zingara? Bisogna che torni subito a casa. Devo controllare al pc se sono ancora ricca o sono diventata una di voi altri. Capisce che schifo?". Faccio segno di sì. Il ministro tossisce e mi sputa in fronte un nocciolo di ciliegia.  "Ahi", mi lamento. "Stia zitto...nel sogno sono costretta a prendere la metro. Entro a piazzale Flaminio, con tutti gli estranei. Il vagone è pieno, devo rimanere in piedi. Un bambino si attacca al mio soprabito. Vomito... vomito...Dalla bocca mi esce un gatto". Il ministro sbianca, barcolla. Si alza in fretta. Portano il conto: 870 euro. Il ministro fruga nella borsetta. "Non è possibile - cinguetta -  ho lasciato il portafogli a casa. Ci pensa lei?". Esce. Un momento: questo è l'incubo del ministro.  Che c'entro io?     
 
Jiga Melik

 
 
 

I CENTURIONI SONO PERSONE - intervista di alcuni anni fa al centurione Sonnino, pubblicata su Lo Specchio della Stampa

Post n°38 pubblicato il 13 Aprile 2012 da Jiga0

                   


di Alessandro Schwed

Sembra che dopo la guerra un generale dell'aviazione americana visitasse Roma. Arrivato davanti al Colosseo, disse: "Non sapevo che i nostri bombardamenti avessero fatto questi danni". Passati sessantanni, "Cleopatra", "Ben Hur" e "Il gladiatore",  il mondo conosce le icone di Roma antica. Perciò, quando i turisti passano sotto i mille occhi del Colosseo e vedono quei due o tre centurioni che li salutano col gladio levato, si fermano e si fanno fotografare con loro. Gli antichi romani chiedono qualcosa e se ne vanno. Non è elemosina, è lavoro. I Fori Imperiali sono una Disneyland in pectore e invece di Paperino e Pippo, ci sono i centurioni. I pennacchi sugli elmi sono di un discutibile rosso-corsa, sventolano troppo lunghi, come degli alberelli cresciuti in testa, e a volte al posto dei calzari spuntano gli scarponi. Ma tutto quel marmo, le basiliche e le colonne coricate a terra, confermano che i centurioni sono a casa loro e che i turisti sono a casa dei centurioni.  Potrebbe essere un'idea geniale da ampliare, ma per ora è solo un modo di svoltare la giornata con gli spiccioli dei turisti. Di sicuro c'è che questi figuranti sono le sole persone in tutta la capitale ad avere il titolo per farsi chiamare antichi romani. Su una quarantina di centurioni, venticinque sono ebrei di Roma. Appunto, gli unici e veri antichi romani presenti su queste strade da oltre duemila anni.   
     Ne parliamo con un gigante, un immenso 'miles' di trentanove anni e svariati chili - il volto come una meravigliosa zucca di Haloween coi denti radi e il sorriso buono. E' Angelo Sonnino e racconta la sua vita di centurione a cinquanta metri da piazza Venezia.  
 
...Sonnino è un cognome ebraico.
Sì, esatto, bravo...chi glielo ha detto?
Per un caso meraviglioso, anche io sono ebreo. 
Ah piacere allora, complimenti. Sì, de nome faccio Sonnino. Però come nome d'arte mi faccio chiamare Spartacus - nell'ambito turistico, dico.
Ma come è nata questa cosa di vestirsi da romani?...
E' cominciato tutto dieci, dodici anni fa...i primi a fare i centurioni furono due o tre...come è logico, se misero davanti al Colosseo...Il primo fu Franco Disegni...che è ebreo...Franco aveva una sartoria teatrale e vendeva i cosi degli antichi romani. Poi insomma ha chiuso, non gli andava più de vendere...non lo so...i costumi erano robba sua e se li è messi. Poi sono arrivati altri due...sempre giudii...adesso siamo credo quaranta...e un venticinque buoni sono ebrei...A Fontana de Trevi, a piazza de Spagna,  al Pantheon...non avendo altra possibilità de vivere...
E come mai ci sono tanti figuranti ebrei?
Beh...diciamo, per l'inventiva...sa, quelli de religione ebraica a volte per sopravvivere hanno delle invenzioni...
Per fare questo lavoro serve il permesso? 
Sì, della circoscrizione...Però da un par d'anni ce l'hanno tolto e ora aspettiamo che venga rinnovato. Per adesso ce tengono così. 
Sotto quale nome passa il permesso?
De' saltimbanco.
Saltimbanco è un termine antico...
E' antico sì...sarebbe truccamento da piazza...si chiama permesso 121 Tulps, per quelli che prima andavino sotto il nome de saltimbanchi... Per esempio te puoi vestire da Babbo Natale...insomma te metti qualsiasi truccamento.

Io e Angelo Sonnino siamo all'ombra di uno di quei camioncini che vendono bibite e panini lungo i Fori Imperiali. Chissà come fanno lui e i suoi colleghi a sopportare il caldo con la corazza e l'elmo in testa. E' mezzogiorno e mezzo. All'ombra del camioncino,  Spartacus si è tolto la tunica. Il gran volto luccica e sotto il collo la canottiera è sbrindellata.

Lei quanti anni ha?
Quaranta quasi. Sono del sessantasei.
Senta, ma lei dove sta?
Dove svolgo il lavoro mio?
No, dove abita...
Io abito a Boccea Primavalle, e ogni giorno praticamente vengo qui alla piazza Venezia, come uno andasse in ufficio dove svolge il lavoro di centurione romano. Al mattino me alzo, normale, preparo i vestiti, belli puliti, poi li metto dentro la borsa, poi metto la borsa sul motorino...ce imbarchiamo per piazza Venezia e vediamo quello che passa il monumento...Faccio qualche foto per vivere, sa, siamo una famiglia numerosa.
Quante ore state qui all'Altare dell Patria?
Dalle otto e mezzo fino alle sei del pomeriggio...Mo' i miei colleghi sono smontati, sono andati al mare. Si sono presi due ore de permesso...due ore la settimana...se no, che famo?
Ogni giorno con tutte le stagioni?
Sì, nell'ambito de' tutto l'anno...perché anche d'inverno ce stanno i turisti. Non è come cinquantanni fa che i turisti giraveno solo l'estate, adesso il turismo c'è tutto l'anno...Magari i padri di mio padre lavoraveno l'estate e l'inverno facevano altre cose...portavano i fagotti, i cartoni...Mio nonno faceva il pugile, era famoso...Disegni se chiamava, è stato anche in America...l'ha visto il film in televisione?... 
Forse sì.
Ecco, era mio nonno!
Ci sono momenti difficili?...
Magari c'è stato un anno un po' particolare, dieci anni fa...i soldi che avevo non li ho spesi bene, non sono stato attento, poi mia moglie non stava tanto bene e non avevo manco i soldi per pagare la luce...
E come avete fatto?
Eh, come avete fatto...lavoravi fino alla sera tardi, con la pioggia, col freddo... Non avevo manco i soldi per man...per vivere ecco. Mi feci prestare i soldi da mia madre, pensavo: poi li restituìmo...ma dopo non lei non li ha più voluti...Ora è differente, ho avuto la scossa di quell'anno e ce sto attento.Se posso dire, mia mamma se chiama Wilma.

Dall'altra parte della strada i colleghi di Angelo fermano i turisti e sorridono gentili come non lo erano affatto i legionari di Roma. Fermano tutti senza sosta, sono fantastici...fermano i bambini, le ragazze, i giovani, gli cingono le spalle con mano salda e si fanno fotografare insieme. Adesso arriva una signora di chissà dove, su una sedia a rotelle.  Si fa mettere in testa l'elmo col pennacchio rosso e ride. 

La gente è generosa? 
Dipende. Una volta una signora mi ha dato cinque centesimi...poi mi ha detto: "Va bene così?". E io: "Sì sì, va bene, va bene"...I soldi devi pigliarli e basta. Qui è come tutto il mondo: ce stanno quelli maleducati e quelli bravi...c'è chi te li regala e chi no...  
Ma come fate a fermare tutta quella gente?...Avete una tecnica?...
Si capisce...quando facciamo il lavoro, magari mettiamo l'elmo al bambino che passa per fermarlo, poi gli mettiamo anche la spada...e magari il padre vuol dire di no al bambino...allora ci facciamo fare la foto col bambino e così dopo il padre può andare via...per forza abbiamo una tecnica...perché se stai fermo, fai poco. 
E quando ha cominciato questo lavoro?
Sono otto anni che lo svolgo. Però prima, sempre in questa piazza, svolgevo un banco de ricordi di Roma...poi il padrone s'è venduto il permesso e io ho fatto l'antico romano...
E a Cinecittà ci lavora?
No...no...svolgo solo il lavorativo presso qua...Se poi uno ha la fortuna di andare a Cinecittà, è un altro discorso...la vita è tutta una fortuna...Mia nonna diceva: meglio essere fortunati che ricchi, ah ah ah! Così diceva mia nonna.
Mi può raccontare il suo primo giorno da antico romano?
Ma niente...normale...Non è che è stato chissà cosa. Diciamo che il primo contatto l'ho fatto subito, perché ero abituato a vendere le cose a quelli che passano...non mi ha fatto emozione, ecco. 
Come è andata con sua moglie quando le ha detto che andava a lavorare vestito da antico romano? 
Luana è stata subito d'accordo, perché se vogliamo vivere bisogna fare qualsiasi tipo di lavoro...Quando hai quattro figli, è tosta vivere...ah ah ah!...Ma siamo una bella famiglia...Baruch Ashem (Sia benedetto il Nome di Dio)... 
E l'inverno come va?
Certo non è come l'estate, ma facciamo sempe la giornatella. Diciamo che uno lavora l'estate per l'inverno.     
Chi si ferma di più tra i turisti?
Gli inglesi, gli irlandesi, quelli del Galles. Il Regno Unito in genere... st'anno ce n'è tanti. 
E i giapponesi?
I giapponesi sono molto diffidenti. In Giappone gli dicono di non avvicinarsi. L'ho saputo da una guida che glielo avvisano loro nel paese interno...che qui je rubbeno. Ma gli altri in generale se fermano tutti. Però gli inglesi sono molto più meglio. Più simpatici anche.    
Ma lei da quando è che viene qui?
Io è da quando ho dieci anni che vengo. Portavo da mangiare a mio padre che lavorava qui dietro la colonna Traiana. Se chiama Lazzaro, papà. Vendeva i libri, i souvenir. Però era abusivo. Porello, stava tutto il giorno qua e io gli portavo da mangià alla Colonna...pasta e broccoli,  pasta e ceci...specialmente d'inverno che faceva freddo. Lui mangiava in mezzo alla strada e gli americani lo guardaveno... e mentre lui mangiava, io vendevo i souvenir...Piano piano, me sono imparato. 
Insomma, siete una famiglia di ambulanti...
Sì. Anche i nonni. Al tempo dei tedeschi, mio nonno vendeva gli stracci, portava i cartoni...C'erano le leggi razziali e mio padre a scuola non ce l'hanno mandato. Se so' dovuti sempre nascondere. I padri dei miei padri insegnavano a mio padre che doveva stare attento che per strada c'erano le squadre dei fascisti e quelli ti poteveno fermare... e il padre di mio padre insegnava di dire un nome cattolico, perché se dicevi Sonnino....capito no?...A mio padre gli hanno insegnato di dire Del Bono, che è un cognome cattolico sicuro. Poi i fascisti fermavano a mi' padre...dice, ehi, bimbo, vieni qua, je fanno...Come te chiami?...e lui: Del Bono.  Pensa, erano bambini e già gli insegnavano a dire i nomi cognomi falsi. Pensa te a dove arriva la mente per salvarsi.  A mio nonno poi lo presero. E' morto ad Auschwitz. 
Insomma, quelli che lavorano per strada qui intorno sono di religione ebraica...
Allora...l'ottanta per cento di quelli che fanno gli antichi romani e il novanta per cento degli ambulanti sono ebrei de Roma.  Perché i padri dei nostri padri vendevano sempre per strada, poi magari se riposavano e passavano l'attività ai figli, e dopo i figli la passavano ai figli. Diciamo che è una ruota che gira da tanto tempo.        
Ma avete mai avuto problemi con qualcuno per il fatto che siete ebrei?
No. Mica lo sanno. Mica glielo dico io. Poi in Italia sono bravi. Io certa gente che vedo sono pure meglio degli ebrei che conosco.   
E quando ci sono le feste ebraiche lavorate?
Nooo...mai...A Kippur non lavoriamo...Nessun ebreo di nesuna età e parte del mondo lavora di Kippur.  Il sabato semmai si lavora. Al tempio poi ci vado delle volte in Israele, che vado a trovare le mie sorelle. Ma le preghiere le facciamo sempre. Il venerdì a cena facciamo il kiddush, la benedizione del vino, e io aiuto i miei figli a farlo sperando che un giorno lo faranno anche loro...ah ah!...E la mattina prima di uscire bacio sempre la scatolina della mezzuzzà sulla porta di casa, che dentro ci stanno le nostre preghiere. La bacio sempre, quella è una prassi.  E ringrazio il Signore che mi fa alzare la mattina.
  




































 
 
 

LO ZIO COSO - ROMANZO - 2005

Post n°37 pubblicato il 27 Marzo 2012 da Jiga0

 ROMANZO

 

   Viaggiando su un treno diretto in Ungheria per far visita a uno zio miticamente scampato alle persecuzioni naziste, Melik apprende che la Seconda guerra mondiale non c’è mai stata. Glielo spiega il dottor Oscar, un veterinario che prende posto di fronte a lui nello scompartimento, sedendosi sul sedile che viaggia in direzione contraria al senso di marcia del treno. È proprio da qui che si dipartono i due binari opposti e paralleli che legano le vicende narrate. Quello antistorico del veterinario nazista che procede a ritroso cancellando e ricomponendo la realtà e quello dei ricordi del protagonista ebreo, che si protende tra passato e presente avanzando per accumulo di memorie familiari vivide, eppure indefinite. Quando il treno è ormai già entrato nella campagna ungherese, Melik riceve una bastonata sulla testa. E a questo punto, oltre alle verità storiche anche i vocaboli per raccontarle scompaiono dalla sua mente confusa.
Si ride tanto e si ride amaro seguendo le acrobazie revisioniste di Oscar: dalla immensa rappresentazione scenica che sarebbe stato il bombardamento su Londra, con migliaia di insuperabili attori nella parte delle vittime alla inesistente guerra lampo di Danzica, che sarebbe stata il frutto fantasioso di una disputa cabalistica tra due studenti del seminario di Cracovia. Meno male che il treno dei ricordi e della speranza non arriverà mai a destinazione dallo zio Coso ungherese...      
 
 I GIUDIZI      
"Non so come sia possibile scrivere un romanzo straordinario in cui convivono il Pinocchio di Collodi, il Candido di Voltaire, il Come risolvere la questione della fame in Irlanda di Swift e i racconti dei fratelli Singer. È riuscito ad Alessandro Schwed nel romanzo Lo zio Coso."
Fabrizia Ramondino, L’Espresso

"Esilarante, tagliente e mai concluso viaggio attorno al problema dell’identità."
Pier Mario Fasanotti, Panorama

"... un’epopea buffa e a volte struggente, densa di pagine irresistibili e di altre che fa male anche solo a leggerle."
Elena Loewenthal, Tuttolibri

"... un libro che, miracolosamente, sa accordare le note d’una straordinaria levità alla musica più cupa e sorda del secolo che è appena trascorso."
Massimo Onofri, La Nuova Sardegna

"Il romanzo... è una sorpresa, uno scarto. In ogni caso un’invenzione."
Edmondo Berselli, la Repubblica      
 
 UN BRANO      
"La nostra lunga conversazione, del cui verificarsi sono quasi certo ma non del tutto, come accade per certi sogni appena fatti, fu mormorata in una continua penombra, dentro a uno stato di veglia, mentre lo spazio tra i divani e il finestrino giaceva sepolto nell'oscurità delle gallerie; poi il tu tuu usciva all'aperto, sotto un cielo al limite del violaceo. In quel mondo all'aperto che sembrava al chiuso, la natura iniziò a essere rischiarata dai lampi della tempesta imminente e i vetri del ciuf ciuf furono colpiti dalle prime ampie gocce, grandi ampolle tenui pronte a disfarsi sul finestrino. In un momento, un oceano d'acqua prese a rovesciarsi su di noi. O almeno così mi pare di ricordare.
«Bene» disse ancora il mio compagno di viaggio. «Adesso mi segua con attenzione. Lei ha mai sentito parlare della Seconda guerra mondiale?»
«Abbastanza» dissi.
«Be'» credo che abbia proseguito «non c'è mai stata»."      


 
 
 

LA VITA ROGNA

Post n°36 pubblicato il 27 Marzo 2012 da Jiga0

cane randagio


Ore e minuti rognosi di giornate rognosissime

Non può continuare così. Non so voi, ma io  inteso come un vostro connazionale, non mi sento tanto tranquillo. Lascia stare il default. Sto parlando delle vita minima. Un esempio? Stamattina alle cinque dovevo partire per la Sicilia perché ho un meeting di tre giorni sulle nuove tonnare elettriche. Questo significa a un certo punto prendere il traghetto.  Mi sono detto: siamo pazzi? Sarebbe triste andare a sbattere perché a prua c'è un marinaio fissato con la poppa. Sto a casa. Oltretutto, per viaggiare sul traghetto, prima avrei dovuto addirittura prendere il treno, col rischio di  rimanere due giorni bloccato in una galleria a 25 sotto zero e perdere l'uso di un arto; a parte che per andare alla stazione ferroviaria avrei dovuto prendere un taxi, magari c'era lo sciopero, mi ritrovavo a camminare chilometri e chilometri, e addio menisco. Poi i viaggi non li faccio più in  macchina, con quello che viene la benzina. Poi il freddo spacca i motori: metti si rompe un pistone e  me ne rifilano uno taroccato...l'ultima volta che ho cambiato le pasticche ai freni, è stata una catastrofe. Non erano pasticche originali, ho scoperto che erano state assemblate in Nepal e quando frenavo si accendeva la radio. No, sto a casa. Magari poi esco. E se nevica? Anche cominciasse fina, non ci vuole niente a trovarsi sotto quattro metri di neve e soffocare. Sai che? Ho un'idea pazzesca.  Vado dal giornalaio, prendo la settimana enigmistica, mi metto in poltrona e unisco i puntini tutto il giorno. Se esco ora che non nevica, in cinque minuti vado e torno.  Ma pensandoci bene, non so se è il caso di uscire: metti che mentre sto andando dal giornalaio mi si conficca in testa una stalattite di quelle della prima nevicata di febbraio. Sono le più appuntite. Se mi prende in testa dove sono molto esposto, è la fine: lì ho la piazzetta e sono estremamente molle. Ma siamo pazzi andare in giro con le stalattiti conficcate nella testa? Mi sono appena fatto lo shampoo colorato: con tutto quel ghiaccio mi si stinge il nero-seppia. Perché io me li coloro alla Little Tony, non quel marrone-vinaccia alla Gianni Morandi. Mette tristezza, mi fa pensare a quando ho dato l'antiruggine alla caldaia. No: sto a casa. Ci sono troppe variabili quando uno esce. Ma anche a essere ottimisti e restare chiuso  in casa, guarda che è successo in Giappone.  Ma voglio essere ottimista: mettiamo che non venga il maremoto. Mettiamo che faccio una pazzia: esco di casa e  resto vivo. Mi dici quante probabilità ho di arrivare dal giornalaio? Sono lì che cammino e passa  un proiettile vagante sparato da un cecchino della Magliana, venuto a comprare i ricciarelli. Ma mi voglio allargare: diciamo pure  che schivo il proiettile. E' domenica, mezzogiorno e mezzo, e al bar ci sono dei ragazzi del sabato sera che stanno andando a dormire. Mi chiedono una sigaretta. Gli dico: "Mi spiace cari, purtroppo non fumo", loro mi spaccano la testa con una bottiglia di birra  e per sicurezza mi accoltellano al fegato. No, guarda, resto a casa e guardo la Tv. Maremma troia, tra poco c'è il Papa alla finestra!  A parte che se nevica, alla finestra non si affaccia, a parte che magari si affaccia con l'ombrello, a parte che l'ombrello glielo tengono gli altri, a parte che nevica  a vento e non si affaccia neanche con l'ombrello. Allora se non si affaccia, guardo Poker Tv. A parte che guardare tanta Tv è estremamente pericoloso. Ho letto su Wikipedia uno studio della Japon University di Tokio sulle nuove malattie della terza età: su un campione di uomini fra i 50 e i 65 anni che guardano la televisione la mattina tardi, l'85% perde l'udito e intanto diventa sterile. Non scherziamo! Vado a letto perché sento un venticello nelle ossa, non vorrei fosse il lizard, senti come mi fischia la tibia. Sì, passo una magnifica  domenica a letto: accendo la termocoperta e leggo subito l'Informacoop dell'anno scorso. Aspetta, tolgo le tarme. Guarda...a febbraio 2011, le lenticchie messicane venivano ventuno centesimi di meno, che tempi! Fammi leggere...e se va via la luce proprio mentre sto per leggere il capitolo sul sapone di Marsiglia? Magari resto una settimana senza luce, come con  la nevicata di martedì. Mi si è scongelato tutto l'agnello tre per due e ho dovuto anticipare il pranzo di Pasqua. Macché, è inutile leggere se va via la luce. Ho un'idea formidabile: mi avvantaggio. Sto con la testa sotto le coperte, così quando va via luce non ci resto male. Però che faccio al buio e al freddo sotto la coperta elettrica spenta, perché se va via la luce, addio. Potrei pensare. Sì, vai: penso. Ma a che penso? Aspetta, ci sono un sacco di pensieri in sospeso. Primo: chissà perché la Conad si chiama Conad. Secondo, e la Pam? Perché si chiama proprio Pam? E l'Esse lunga?  E la Lidt? E Penny Market? Ed Eurospin? E la Dico? E perché l'Upim è sparita? Procediamo con metodo, mi concentro sulla Conad.  Oddio, mi mordono i piedi! Chi è?...Deve essere uno sciacallo. Basta che c'è una calamità che quelli si calamitano in casa.  Apetta, guardo...Uh, c'è la luce, uh era il cane.  Si è sistemato sulla coperta calda, il furbo. Ciao Hicks...beato te, sempre felice a grattarti. Guarda come è inconsapevole, non sa neanche cosa sia la Conad. Eppure, guarda come rosicchia l'osso. Mi fai assaggiare?
 
Jiga Melik

 
 
 

NON MI PARTE IL ROMANZO SARANNO LE CANDELE - 1999

Post n°35 pubblicato il 27 Marzo 2012 da Jiga0

Giga Melik
Non mi parte il romanzo, saranno le candele

"Mentre sto sotto l'albero delle idee in attesa che almeno una me ne cada in testa, mi rasserena il fatto che scrivere un romanzo, cioè fingere uno o più destini, oggigiorno non comporta responsabilità penali."


Cosa accade se un romanzo "non parte", se non si trova un degno inizio? Quale può essere una soluzione ragionevole per uscire dall'empasse? Semplice, iniziare dal terzo capitolo e in questo disquisire sull'essenza stessa di quello che si definisce "capitolo", sulla probabilità che un lettore medio lo legga, sulla necessità di saltare i primi due, nel tentativo di impedire a chiunque ogni critica sulle parti mancanti, che in quanto tali non si conoscono e non si possono commentare... Questa la ricetta di Melik per dare vita a un testo diverso, con un "tormentone" trascinato lungo tutto l'arco del libro: come scrivere una storia, se si hanno molte idee, ma assai confuse e difficili da "assemblare".
È un romanzo che si trasforma, muta come una creatura spaziale, si espande e si restringe come un verdastro, indefinito Blob, dando vita a capitoli-racconti lunghi o brevi, diretti o indiretti, in sostanza slegati da ogni regola narrativa.
È anche un'opera surreale, un tentativo di realizzare qualcosa di veramente originale, che si discosti da qualsiasi canone. Alla ricerca di un incipit, alla ricerca di un genere, alla ricerca di un seguito. Anche se poi, in fondo, è pur sempre un romanzo diviso in capitoli, che vede un protagonista, l'autore, dibattersi fra una storia e l'altra, "invischiato" in trame che lo trascinano, lo coinvolgono e, forse, un po' lo stressano. Il tutto sul filo dell'ironia e del sarcasmo. Come nella storia "esemplare" di Barba Khan (scrittore all'inchiostro, in aperta polemica con il padre, narratore a bocca) trovato morto "con la faccia sopra un pacco di fogli, gli ultimi: quelli scritti coi piedi. I migliori." Oppure ne La vita molliccia del fiabista (il capitolo ventiquattro), in cui si paragona un fornaio a un romanziere "tormentato" come l'autore: "La moglie del fornaio si scuserebbe mesta coi clienti: Macché. Non gli viene. Stanotte ci ha provato e ha sfornato un divano-letto. Dopo qualche mese di crisi creativa del fornaio, i clienti più sentimentali metterebbero sulla tovaglia la foto rievocativa di una rosetta." E tanti altri sarebbero gli esempi da pescare tra le pagine, anche a caso. Perché un romanzo che "non viene" può essere letto nel modo più "creativo". E recensito con fantasia... perché ogni tanto non sarebbe male poter dire "non mi parte la recensione" e parlare solo degli ultimi tre capitoli, o di tutt'altro, raccontare un aneddoto, disquisire sul senso della vita o sull'ultimo film visto al cinema. Non sarebbe male, ma rimane solo un sogno. Melik si è divertito invece a realizzarlo, in grande e dal suo personalissimo punto di vista.


Non mi parte il romanzo, saranno le candele di Giga Melik
153 pag., Lit. 18.000 - Edizioni Ponte alle Grazie
ISBN 88-7928-454-1


Le prime righe

CAPITOLO TRE

Capitolo tre


Cominciamo subito con una buona notizia: l'autore, congiuntamente alla casa editrice, ha deciso di facilitare la vostra lettura saltando le prime quaranta pagine. È convinzione comune che questo sia l'unico modo per arrivare serenamente (e in fretta) alla conclusione del libro.
Ragion per cui, se siete in strada e state correndo con lo scontrino in mano a riportare in libreria questa copia in quanto difettosa, fermatevi immediatamente e calmatevi: il primo e secondo capitolo non esistono. Quindi, per favore, vediamo di iniziare dal terzo capitolo.
E ora voglio vedere chi mi viene a dire: "Che noia i primi due capitoli!"
In conclusione, fedeli al proposito di sbrigarci, cercheremo di sfornare fatti brevi ed essenziali, con l'accorgimento di un corpo tipografico accettabile. Perciò, ritmo, ritmo!
Per il resto, trama e altre faccende simili, vediamo di non fare troppo i pignoli, con tutti i problemi che ci sono nel mondo.

CAPITOLO QUATTRO

Occhio al gambero


Sinceramente non me l'aspettavo. Pur avendo cominciato col terzo capitolo, sto proseguendo col secondo. D'altra parte c'è da considerare che se io non avessi cominciato il libro direttamente dal terzo capitolo, ora sì che mi troverei nella classica posizione di chi inizia il secondo. Anzi, a tuttora, nel ricapitolare i capitoli, la situazione si presenta così: il presente è il primo vero capitolo del libro, perché in realtà quello che precede, il cosiddetto "Capitolo tre", non è altro che un prologo mascherato da capitolo. Se poi non è incoronato dal titolo di "Prologo", ma classificato come "Capitolo tre", è perché a un vero prologo si richiede di anticipare subito il tema del romanzo, mentre l'unico anticipo che io mi sento di chiedere subito è quello all'editore.
A questo punto mi chiedo: cosa succederà al prossimo capitolo? Semplice. Sarà il quinto solo apparentemente. Infatti seguirà il primo che si spaccia per terzo e il secondo che si mistifica addirittura come quarto. Lo grida la matematica che il capitolo cinque sarà il capitolo tre.

© 1999, Ponte alle Grazie

 
 
 

IL TESTAMENTO DI TITUS

Post n°34 pubblicato il 23 Marzo 2012 da Jiga0
 

  Titus

 

La cerimonia funebre per il piu' famoso re gorilla ci ricorda che l'anello mancante è nel giardino della Natura

 

 

E' di poco tempo fa un insolito comunicato  dell'ufficio del turismo e dei parchi nazionali del Ruanda che annunciava la morte di un gorilla chiamato Titus. Il tono era di protocollare costernazione, come se fosse venuto a mancare un capo di stato molto popolare. In effetti era così. Titus era il re dei gorilla. Nato trentacinque anni fa con un fisico gracile per poi divenire un esemplare di duecento chili, con il suo dorso argentato e quella mole di dominatore  era assurto a celebrità mondiale come protagonista di un  film con Segourney Weaver.  Questo primate che ha avuto più figli di ogni altro primate censito, poi è fatalmente morto per il dispiacere causato da un figlio che gli stava portando via l'ultima moglie, in una scena quotidiana che lui seguiva nascosto tra gli alberi e umiliato. Titus era stato molto amato dal popolo dei gorilla. Nel 1983, durante la sanguinosa guerra civile in Ruanda, aveva condotto il suo clan in salvo, lontano dai massacri. Dopo quindici anni di eccezionale stabilità per un regno di primati, il trono fu rovesciato da uno dei figli, forse lo stesso che lo ha fatto morire di infarto. Titus dal dorso d'argento accettò di buon grado di non essere più re, rimase nella tribù la quale continuò ad essergli devota, il che significa che ogni giorno gli hanno portato il cibo nella tana o sugli alberi. Ma la cosa più  importante che lo riguarda, è accaduta dopo la morte. I membri della famiglia, mogli, figli, nipoti, sono arrivati sul luogo dove giaceva il corpo, si sono messi a rispettosa distanza e hanno fatto la guardia, impedendo agli esseri umani di avvicinarsi alle spoglie. Poi, alcuni di loro lo hanno lavato. Nel corso della riunione, il figlio maggiore, quello che gli ha causato l'infarto, ha alzato la testa e ha lanciato grida prolungate e cupe, e così hanno fatto gli altri familiari. La quale cosa assieme a tutte le altre assomiglia a un che di luttuoso. Abbiamo la libertà di immaginare che i lamenti dei gorilla abbiano chiesto a cielo, aria, alla foresta, agli spiriti della Natura-Dio, dove fosse finito re Schiena d'Argento, che li aveva tanto protetti e che prima era sempre vivo. Anche se presso i primati esiste una cerimonia di solenne rispetto e tristezza così simile a delle esequie di stato, non è una prova che gli uomini vengano dalle scimmie; di certo, si percepisce nei gorilla la consapevolezza della morte e che la morte esige rispetto e un congedo  - il punto è quanto possa estendersi la memoria di Titus nei primati: a questa generazione e basta, o prosegue?  Siamo propensi a credere che si fermi in questa generazione. Ma si percepisce un'antica epoca comune di uomini e gorilla, un patrimonio su cui è calato un oblio violento; una cancellazione ascrivibile al tempo infinito trascorso, e magari a un trauma collettivo. E se i gorilla fossero errori di costruzione genetica, se la selezione naturale avesse bloccato i rapporti fra uomini e primati, essendo i primati una specie dalla crescita bloccata per mancanza di una memoria che oltrepassi la singola generazione? Una specie senza mai un futuro? Se fra le due comunità ci furono rapporti e poi gli uomini decisero di porre fine all'unione, magari per la nascita di creature mostruose, non lo sappiamo per una rimozione o per un deficit di memoria che la scienza oggi non sa colmare.  Solo i  miti ricordano quello di cui un tempo ci si ricordava; ma i miti non hanno voluto costruire memoria su tale punto che assomiglia a un giallo dai risvolti agghiaccianti. Di oggettivo, rimane l'aspetto  meravigliosamente equivoco della natura. In ogni caso, dopo le "esequie" di Titus mi sono messo a pensare agli animali, che sempre ci danno notizie, ci rinviano a qualcosa. Mi sono messo a pensare come uno che stia fermo e a un tratto riceve una spinta,  e così, volente o nolente, si muove - traballando, ma si muove. Potrebbe esserci stato un tempo in cui uomini, scimmie, cavalli, anatre, lupi, ma tutte le bestie di cielo terra e mare erano fluidamente una società; prima che si frantumasse l'unità della vita, e che i mitologici primi uomo e donna, Adamo ed Eva,  aprissero gli occhi e si vedessero reciprocamente nella cosiddetta nudità; deve esserci stata una fratellanza con gli animali, prima che l'uomo si accorgesse della tremenda povertà della sua condizione. Durante l'infanzia del mondo, allegoricamente descritta in Genesi, noi e gli animali ci  capivamo: sapevamo chi fosse il Re generatore e con il serpente discutemmo anche di politica. Questo accadeva prima che noi, e loro, cacciati tutti per un terribile errore umano, scoprissimo la fame, la sete, il dolore, e peggio ancora, la morte. E così, prima che la necessità sviluppasse la conoscenza come violenta discontinuità con l'armonia, noi e gli animali ci frequentavamo. 

Oggi, consideriamo gli animali singolarmente: il cavallo mentre tira la carrozzella con sopra i turisti che ridono; il cane che corre nel parco e quasi ride riportando il bastoncino al padrone; al  telegiornale, la balena arenata sulla spiaggia.  Eppure, per quanto nelle nostre città noi li si incontri solo uno alla volta ed essi  vivano in esilio dalla natura e separati tra loro, gli animali riescono a mantenere una sorta di unità politica dentro di noi. Sono depositari dell'idea di istinto. Portano impresso lo stile iniziale. Lasciano intravedere che tra noi e loro corre qualcosa come tra i membri  di una nazione. Davanti a noi, ora, gli animali domestici sono come sonnambuli; assumono inerti le conseguenze dell'esilio dalla natura; subiscono le nostre abitudini e il nostro ego. Dormono in attesa che torniamo a casa; davanti al frigorifero, miagolano e chiedono il latte che possono avere solo tramite noi, invece di andarsi a procurare una lucertola come i loro avi. Gli animali selvatici poi sono remoti, dall'altra parte del mondo. Corrono su un altopiano; volteggiano su cime di montagne innevate; scivolano sul fondo degli oceani e molti non sono mai stati visti. Se no, smembrati e cucinati sono parte irriconoscibile di un bue, di un suino, di un pollo, di un gran pesce esotico, di popolare tonno - animali come cibo. Animali in mezzo alla natura, come improvviso pasto di bellezza; simboli di Giuseppe il sognatore e di Giovanni l'apocalittico; inchiodati alla parete, teste o corpi di una collezione imbalsamata. Notizia del mondo primordiale dai graffiti di una grotta; depositi di vertebre per lo studioso e per il pubblico di un museo. Imbambolata proiezione psichica: "Lulù, pappagallino di mamma!". Oggetto di delirante conversazione in treno: "Guardi, gli animali son meglio dei cristiani!". Intontita osservazione davanti al televisore:  "Quel delfino sembra parli!". Poi gatti, cani, delfini non parleranno mai - ma sogniamo il tempo in cui lo facevano, sogniamo che lo facessero - ci servono per sognare. Nel simbolismo cinese, dove sono presenti gli animali selvatici e non i domestici, la tigre ha una luce che splende sulla testa e ha potere di  comprendere se un uomo è buono. Più sommessamente, vedo che il mio gatto torna subito a casa quando lo penso - è telepate. D'accordo, siamo uniti: ma a quale fine?  Ora che abbiamo classificato tutti gli animali, dal primate al mollusco, che trapiantiamo il cervello ai topi, ricacciamo nel buio impressioni che forse sono suggerimenti. Dice Filone l'alessandrino che quando gli animali furono nominati da Adamo, ricevettero il nome come segno di singole passioni umane, le quali sono paragonabili ad animali selvaggi, e vanno domate. E allora, quando l'uomo conosce ogni parte di sé, è ricco, e quando non la conosce, è debole. Ora che non conosciamo gli animali come ad esempio li conoscono i contadini, in modo familiare; che è svanita la sapienza dei bestiari e gli animali non fanno da specchio con il loro carattere,   non c'è da meravigliarsi se non sappiamo che compiti abbiamo nel posto chiamato mondo. Guardiamo un  gorilla: ride e piange, e chissà se davvero ride e davvero piange; lava un morto, o sembra che lavi un morto? E per quale motivo non dovrebbe avere il sentimento di lavarlo, per non perdere il nostro primato spirituale? Il nostro primato è dunque così miserabile da essere messo in discussione dal fatto che i gorilla piangono come noi, o c'è un lato della vita che è senza fine, scivola in avanti e non riusciamo a sfiorarne la comprensione?  In ogni caso, gli animali sono degli incompresi. Noi li abbiamo. Li collezioniamo. Non li conosciamo. Finiti nelle nostre mani, non sono più veri cani, veri gatti, veri canarini. Sono ombre. Camminiamo con loro, stiamo in groppa a loro, giochiamo con loro, parliamo a loro, ma ci rivolgiamo a prigionieri. Creature ignare di avere perso il proprio regno - come noi? Chissà che succederebbe, a scoprire gli animali. Ah - scoprire gli animali. 

 

Ventanni fa lasciai la città e con mia moglie andammo a vivere in una valle di fronte al monte Amiata, nei boschi e in mezzo alla natura. Entrammo in un altro ordine di vita. C'erano  templi naturali fatti di ulivi, fichi selvatici, giganteschi e improvvisi arcobaleni che andavano da una parte all'altra della valle, funghi e fiori  e  giacimenti di insalata selvatica e legna fine con cui avviare il fuoco. Poi affiorarono gli animali. La notte, da sotto le finestre di un vecchio tentennante podere nel cuore del bosco, pervenivano borbottii, un raspare alla porta che poteva essere turbinare di foglie secche. Al mattino, nei praticelli intorno casa c'erano tracce di rami rotti che il giorno prima erano interi, un minuscolo sterco, e il cibo che avevamo dimenticato su un piatto era sparito; e un giorno, un sasso che pareva un sasso appoggiato alla porta di casa si mosse ed era un porcospino: era lui che veniva a prendere il cibo che avevamo iniziato a lasciare ogni sera a un amico sconosciuto e fedele. A notte, venivamo con la macchina e incontravamo file di cinghiali che attraversavano pazienti la strada bianca; ci fermavamo e contavamo i piccoli cinghiali dietro la madre e una volta ne contammo tredici. Una sera, sulla cassetta della posta, davanti ai fari, turbinò il biancore di un gufo reale, come neve in volo nella notte. E c'erano daini che guardavano da lontano come se non guardassero, in tralice, e avevano la groppa già piegata per scappare; e aquile che calavano dagli altipiani e scendevano  fino a radere la campagna e forse a scrutare che facessimo dietro quelle finestre. I due giovani cani che avevamo tornavano felici da lontano, nei fianchi avevano i morsi fondi dei cinghiali e non uggiolavano - potenza della libertà. Quando uno dei cani morì, fu per lo sparo di un cacciatore.  

 

Ero ragazzo. Avevo un cane, si chiamava Vaniglia. Era una femmina di restone, bionda; anzi: gialla. Come accade spesso tra padrone e cane, mi somigliava. Veniva alla redazione del giornale dove lavoravo; si accucciava sotto al mio tavolo, e alla riunione di redazione sotto quello dei grafici. Il giornale era satirico e misi il nome del cane sul tamburino. In seguito, Vaniglia entrò anche nella sigla di un varietà televisivo. Ma ecco che successe la prima volta che la portai al mare. Non aveva neanche un anno. Si mise a riva, davanti alle onde - sotto i minuti spruzzi bianchi. Osservava le acque con rispetto. Il tempo passava, e composto e in silenzio, quel cane non smetteva di farsi uno col vento e col mare, come se a un tratto avesse visto casa e ci fosse finito dentro. Quello lì davanti al mare era il vero cane, non quello della sigla Tv. Ma continuai a non conoscerlo. Quando il cane fu vecchio, andai a vivere in campagna e lo lasciai libero di andare e venire. Senza collare, senza tavoli sotto i quali stare, fu incontrollabile, ridivenne animale: razziò un pollaio, era una piccola fiera. Sparì. Credevo fosse morta. La rividi da lontano, dopo un anno: era su un crinale, correva alla testa di un branco di cani randagi, di quelli persi dai cacciatori.  La chiamai: fu come se non sentisse. Corse avanti ancora. Era parte della natura.  Non la vidi più.

 

In Genesi 1-21, il testo dice: "...Dio creò i grandi mostri del mare e tutto quello che vive e guizza nelle acque. E Dio vide che era bello".  Il passo è abissale. Come può un grande mostro essere bello, anzi, giudicato bello? Eppure è vero, dato che risuona in noi. La bellezza animale dei mostri strega lo sguardo.  Una piovra che vortica in una giostra di spuma, lo sguardo vitreo del pescecane sopra l'abisso dentato e un colpo di pinna che taglia l'oceano come fosse burro. In questo v'è energia e allegria, una visceralità della vita che toglie il fiato. Nel quadro del Tintoretto, "La creazione degli animali" un Dio canuto  e gagliardo come un ragazzo temperamentoso, cammina nell'aria dato che è Dio. Lo vediamo di profilo, proiettato in avanti in un gioco di cui è entusiasta. Fiancheggiato da cielo e mare, il Padre-Ragazzo dell'Universo è colto nel grandioso gesto creatore degli animali. Uccelli e pesci appaiono già lanciati nell'aria, in volo come schiere di frecce. Alle spalle del Dio dell'entusiasmo e dell'energia, in mezzo a   poche fronde, premono il muso di un cavallo, di un cane e altri volatili ancora, tutti impazienti di partecipare al mondo nuovo di zecca. E' di questa immane famiglia che ci viene raccontato, dove il padre degli uomini è più di conduttore e guida, più di pastore: è padre generativo di ogni specie.  

 

Sul sito internet del parco nazionale del Ruanda c'è una foto scattata sulla tomba di Titus, subito dopo la sepoltura.  Si vede una lunga linea di persone. Sono gli inservienti del parco, in tute da lavoro blu oppure verdi. Una quarantina di persone di colore, e un bianco. Le loro espressioni sono meste e solenni, degne di un'occasione storica e di una giornata da ricordare. Sono gli amici di Titus ritratti accanto alla tomba del re che pesava duecento chili, che era morto a 35 anni, aveva regnato su un piccolo popolo che alla morte aveva lavato le spoglie e montato la guardia al suo corpo gigantesco. Sopra la tomba c'è un cartello con scritto "Titus riposi in pace. Nato il 24 agosto 1974. Morto il 14 settembre 2009". Se i fumetti sopra le persone esistessero anche nella vita, sopra le teste di tutte queste persone intorno alla tomba di Titus ci sarebbe un grandissimo fumetto con scritto il pensiero di tutti i presenti: "Che re era Titus, il nostro amico" e alla fine, un punto esclamativo. E proprio adesso penso che l'anello mancante che i darviniani cercano, è l'anello spezzato dalla fine dell'armonia; che uomini, gorilla e animali erano fratelli, e gli uomini  responsabili dell'intera natura - giardinieri. Poi la responsabilità fu lasciata cadere. Da quel momento tutto fu diverso. La foto intorno alla tomba di Titus illustra il mondo come era. Come era l'unione della natura. Ogni tanto si riesce a vedere tutto questo, stando di vedetta in mezzo alla nebbia. 

 

 ALESSANDRO SCHWED

IL FOGLIO, 19 OTTOBRE 2009

 

 

 

 
 
 

CICCIO PORCHEZIO - TESTI JIGA MELIK DISEGNI PAOLA CHARTROUX

Post n°33 pubblicato il 20 Marzo 2012 da Jiga0

STRIP

 
 
 

LE DEMORALIZZANTI AVVENTURE DEL SIGNOR GIOVANARDO

Post n°32 pubblicato il 20 Marzo 2012 da Jiga0

 STRIP

 
 
 

AIA CHE STRONZI

Post n°31 pubblicato il 20 Marzo 2012 da Jiga0
Foto di Jiga0

 

 

 

    VIGNETTA VAURO

La corte internazionale ha deciso: la Germania non paga i danni per le stragi naziste in Italia

 L'Aia ha deciso: non saranno  pagati i danni per l'eccidio nazista dei 203 italiani uccisi a Civitella, Cornia e San Pancrazio. La sentenza scaturisce da una cultura giuridica per la quale ora c'è la pace con la Germania e per i discendenti il danno maggiore è di acquistare dei wurstel tedeschi fabbricati in Cina.  L'assunto è che la guerra c'era quando c'era la guerra, ora c'è la pace e il diritto internazionale ha perdonato la Germania. Ormai le sofferenze sono finite: prevale l'idea che non si possa far causa a uno stato come se fosse una persona. Io posso fare causa al signore che abita al piano di sopra perché alle tre di notte si mette a  camminare sulla mia testa, ma uno stato mica può mettersi a camminare sulla mia testa. Sarebbe l'apocalisse internazionale del disturbo notturno. A parte che una persona  non è uno stato. Si è mai sentito che uno finisce le uova, va sul pianerottolo e le chiede alla Germania? Il secondo assunto che si aggira nelle stanze dell'alta corte è che ci sono 400 casi italiani di eccidi delle SS: vogliamo istruire 400 cause e scoprire che la strage è una condizione di vita normale quando c'è la guerra? In altre parole, ora che c'è la pace  è un reato avere ragione e farlo presente alla Germania.  Infine, anche volendo, i riscontri non sono possibili perché i testimoni principali sono morti subito. A quanto pare, chi  fosse in lite con la Germania per fatti negativi avvenuti in Italia tra il '42 e il '45, deve rivolgersi ad Adolf Hitler. Era lui il titolare. Non dovrebbe essere difficile rintracciarlo: dall'Aprile del '45 non ha più lasciato Berlino. Se proprio non fosse possibile controinterrogarlo, le pretese cadono automaticamente:  la legge dell'Aia mica è una ciofeca. Del resto, le richieste italiane sono valutate come derivazione di una cultura popolana: chiacchiere, pettegolezzi di taglialegna, segatura. "Mi ricordo, mi ricordo...". Eh no: tante cose si ricordano, e poi in via dei Ricordi non abita mai nessuno. Cosa c'è agli atti? Scaffali con fotografie, lettere di innamorati, voci che rimbombano nella testa. Niente di concreto.  Erano in battaglia? No, erano in chiesa e i soldati si misero i grembiali mimetici. E in questo bisogna riconoscere che dopo la fucilazione i tedeschi erano pulitissimi e gli italiani erano sudici come al solito. Dice: ma non è giusto, ci sono  pacchi di testimonianze. E allora? All'Aia coi dattiloscritti ammazzano le mosche e con la varechina del diritto internazionale sterilizzano la Storia.  Bisognerà pur arrendersi: di fronte alla nebbia dei ricordi, ora c'è la pace e il nazismo va in prescrizione. La Seconda guerra mondiale diventa un gigantesco "si dice". La guerra c'era prima, se c'era. Ora c'è la pace. Dicono: "Le vite delle nostre famiglie sono rovinate: la notte sogniamo le SS che portano via mio padre".  "Su, sentiamo: chi sogna queste SS, lei o questo suo padre?". "Io. Mio padre l'hanno ammazzato le SS". "Allora non millanti, non spagnoleggi, non suborni: torni con una delega di suo padre con la richiesta di rimborso per essere stato ammazzato". "Ma vostro onore!...". "Senta, intanto si soffi il naso che mi sporca lo scranno. E ragioni! Se suo padre  viene tamponato da un camion, l'assicurazione chi rifonde lei o suo padre?". "Mio padre". "Visto! Lei che c'entra?". "Ma qui c'è una famiglia devastata, mia madre vedova, nessuno che lavorava...ci hanno portato via la casa". "Lo vede: si riduce tutto a una questione di soldi. Avido, si vergogni: un po' di rispetto per suo padre. Avanti il prossimo...". "Eccomi, vostro onore. In famiglia, soffriamo tutti di depressione". "Bene. Siete pazzi. Poi?". "Sono entrati in casa, hanno preso il mio fratellino di tre mesi, l'hanno tirato in aria e gli hanno sparato come a un piccione". "Eh, per un piccione". "...Io non ho detto piccione, ho detto 'come a un piccione". "Senti, matusalemme, tra dieci minuti ho l'autobus. Non rompermi le palle: siamo all'Aia, mica a casa di Mao". E' questa la pace. Non possiamo rovinare la pace ai tedeschi, sono appena riusciti a far dimenticare la guerra alla corte dell'Aia. Le cose andrebbero riconsiderate a mente fredda, davanti a una botte di gin. 203 italiani vengono accompagnati in una chiesa e mitragliati finché non ce n'è più bisogno. E' così che va la guerra quando si invade un paese estero: bisogna farsi rispettare perché c'è la guerra. E' durante la pace che è sufficiente farsi rispettare in Borsa. Comunque, i tedeschi sono puliti: si misero dei grembiali.  

 

Jiga Melik

 

 
 
 

IL CORPO STANCO DEL ROCKER

 

 

Allora la vita era questa

Vasco smette. Dice che ha sessantanni, dice che non ce la fa più: non ha l'età per una vita da rocker - quella spericolata. Cantare, viaggiare, fare giorno,  il rombo del furgone, gli alberghi. Il corpo  del rocker è stanco. Il suo congedo è stato da rocker: ruvido, reale. Era stanco, l'ha fatto sapere. Non mi posso immaginare un cantante italiano famoso e amato come lui, che riempie gli stadi come lui, che fa come lui e spara dritto in faccia alla stampa di essersi stancato del tran tran. A lui invece è  venuto di dirlo, lo ha fatto all'improvviso: questa burrasca non la regge, ed è chiaro che non se l'aspettava. Vasco è frastornato. Lo capisco. In effetti, per noi, per la generazione della giovinezza al potere e il potere alla giovinezza, non era previsto che la giovinezza se ne andasse. Dovevamo scintillare e basta, al massimo uno poteva spezzarsi in due, ma non provare seccature come il fatto di non reggere il ritmo, lo stress, la ripetizione. E in particolare, quanto alla scomparsa della giovinezza, quarantanni fa non era prevedibile perché da giovani nessuno si mette a pensare che poi la giovinezza ti pianta in asso. A sedici anni, e anche a trenta c'è il presente,  così grande che non si vede la fine. E tutte le altre cose, il futuro, le tradizioni, le responsabilità, i doveri, la previdenza, la pazienza e la coerenza sono il recinto degli adulti - e la giovinezza è brada. Chi avesse detto tra i miei amici rocker, ribelli, militanti, beatnik, "ma poi che faremo da vecchi", sarebbe stato classificato come un caso disperato di umore nero. Il fatto che la giovinezza passi e un giorno si è vecchi così come a un tratto certi giorni comincia a piovere, era una litania che apparteneva alle prediche materne così come l'incombere della  vecchiaia e la vecchiaia appartenevano agli anziani sconosciuti per strada e a quelli noti a casa, ai genitori e ai loro amici funebri che per le feste regalavano un servizio da té, alle foto nell'album di famiglia con una zia che aveva vissuto lucida fino a novantasette anni, ma gli ultimi venti era stata costretta a letto e sarebbe stato molto meglio che se ne fosse andata a settantanni. In questa nostra generazione nessuno progettava di vivere con prudenza e nessuno guardava il padre o la madre per fare un ragionevole calcolo su quando avrebbe iniziato a invecchiare e con quale malattia ereditaria addosso. Quando abbiamo iniziato a essere rocker e beatnik, avevamo negli occhi Hendrix che bruciava la sua chitarra al festival di Montreaux e la giovinezza appariva un presente sconfinato e inattaccabile dalle forze nemiche. L'età adulta era fascista, la vecchiaia reazionaria e meno male che c'eravamo noi.  Nel rock poi uno è contagiato dal virus micidiale della giovinezza: il corpo è una molla il cui fine è tendersi e scoprire quando si spezza, le esagerazioni sono la norma e la norma un'esagerazione. Il rocker non pensa al dopo: il rocker è cicala, non formica. Dice Gregory Corso: "...beat è qualunque uomo che rompa il sentiero stabilito per seguire il sentiero destinato", e i rocker seguono il sentiero destinato: suonano. Seconda cosa, i rocker non pensano, la loro attività è catturare brividi. Terza cosa, se uno nella vita suona il rock, non è un professionista, ma un rocker. E non è finita: per un rocker non è immaginabile diventare come gli altri, e poi non è immaginabile diventare: un rocker è un rocker; inoltre, i rocker non hanno scelta: devono suonare. Se non hanno successo, pazienza, i rocker non vivono in funzione del successo, loro possono sopravvivere anche tutta la vita, ma la via è segnata, ed è che la notte il rocker  canta, tira  allo spasimo le corde della chitarra e poi fa un rapido inchino. L'inverno, se non è famoso, il rocker resta in silenzio; se è famoso, gira i teatri. D'estate, a seconda della fama, canta su palco grande o medio, oppure su uno piccolo nell'angolo di una piazza, e mentre canta la gente al bar beve il caffè, parla al telefonino e qui e lì scappa un applauso. Perché se no, nella vita, che avrebbe dovuto fare Vasco: l'urbanista, il bidello, il chirurgo? Vasco ha seguito il suo univoco destino beat e adesso il corpo del rocker è stanco. Magari non si aspettava che a un tratto la maggior parte del  tempo gli si sarebbe presentato alle spalle; e noi non ci aspettavamo di arrivare al paradosso di essere non dico dei vecchi, e neanche gente malridotta, ma sostanzialmente delle persone non giovani con la necessità di dormire mezz'ora dopo pranzo - e questa è una cosa che alla nostra generazione non doveva essere fatta. Non che noi ci credessimo giovani divinità del canto roco, venute in Terra a rockblues mostrare. A far vedere come è bella una canzone svogliata e sguaiata, oppure come fosse "Spoonfull", versione 1967, quando a Londra scrivevano sui muri "Clapton is God".  Ma la nostra generazione non si aspettava, e ancora non si aspetta di invecchiare:  non perché qualcuno si ritenga immune dalla mortalità, dalle ordinarie malattie e da questa cosa dei reumatismi. Ma tale è stato il nostro culto del presente, da non vedere che il tempo stesse passando - e la nostra è  stata una vita estremamente distratta: non guardando che succedesse al nostro involucro, il cosiddetto corpo. E a forza di dare del tu a degli sconosciuti incontrati a un concerto di Frank Zappa e The Mothers of Invention, come se questa affinità estetica potesse riempire il cosmo; a forza di prendere le cose così come vengono, a non interessarsi al rinnovo della patente, alla visita di leva, al ritiro  del diploma di maturità, a cambiare città e a un tratto cambiare di nuovo città, e di città in città svegliarsi senza sapere dove abitiamo - abbiamo dimenticato di segnare i numeri di telefono dei vecchi amici e di guardare il calendario. I vecchi amici e il calendario hanno una funzione quotidiana: ricordano bene l'anno di nascita, le medie, le ripetizioni di matematica, il concerto dei Rollino Stones a Roma nel 1969 - e il corpo del rocker è stanco. Porterà via dalla scena quel modo di Vasco di tenere le mani davanti al corpo, il modo di uno che brancola nel buio ed è proprio lì che trova idee e versi, nel buio - come il minatore il diamante nella tenebra della miniera. Il rocker-minatore vive nel buio, mica di giorno: di luce c'è la luce del palco, artificiale e  sparata, l'energia viene dalle chitarre, dai microfoni, il distorsore, e il concerto è una vibrante centrale umano-elettrica. Il rocker vive sul palco, non a casa. Nella vetrina spalancata degli stadi, nel gigantesco morso del pubblico. Il rocker abita allo stadio.  Vasco, il cappellino in testa, arriva allo stadio e comincia a vivere la sua vita rocker, e gli stadi si somigliano tutti e sono la stessa casa, e alla fine un uomo non ne può più. I cancelli di ferro sbattono, il camion dell'amplificazione entra, dietro il furgone con la band. Vasco, il cappellino in testa, scende dal furgone, scende di macchina, forse da una moto e avrà gli occhiali da sole, si sarà alzato da poco: io queste cose me le immagino, sono quelle dei Led Zeppelin ai ventitre anni o giù di lì di Jimmy Page alla Royal Albert Hall, dei Rolling vecchi bucanieri incartapecoriti a Parigi, nel film di Scorzese, dei Blind Faith a Hide Park nel 1968, e poi dei Queen a Wembley, di Hendrix all'isola di White - tutti con sgargianti  pantaloni a campana. E così Vasco Rossi entra allo stadio e avrà l'andatura da rocker: i rocker si riconoscono perché camminano come cowboy, ti aspetteresti che abbiano un lazo, lo lancino tra la gente e peschino qualcuno. Vasco lancia i versi delle canzoni e afferra la gente per la punta del cuore. Clac. Però, dopo quarantanni negli stadi, alla fine il corpo del rocker è stanco: nel pomeriggio il sound-check, la sera torni allo stadio, suoni e sei spremuto. Prima di un concerto davanti a quarantamila persone, dal corpo del rocker vanno via  cinque anni. Non c'è una dissipazione simile. A un'ora dall'inizio del concerto, entri allo stadio e la paura ti tiene le zampe sul collo. La paura è una carogna meravigliosa. Chi non ha paura, non può essere un rocker. Il rocker deve suonare col ventre pieno di paura. Ti immagino, Vasco, prima del concerto. Arrivi  allo stadio, cammini nei corridoi con gli altri della band, e nei corridoi tutti sorridono a Vasco - l'artista da vicino. Aspettano qualcosa da te, un miracolo.  Sei Babbo Natale rock'n'roll, sezione Italia. Aspettano un miracolo quelli del botteghino, gli inservienti che vanno sulle gradinate a vendere gelati, i raccattapalle, gli uscieri, i magazzinieri e tutti i loro amici entrati di straforo. Sei nel corridoio che cammini e cammini, fuori la folla urla: Vasco,  Vasco. Punti il camerino, secondo me sai già dove ti hanno messo. Poi dico che ti siedi e che pensi alla scaletta. Il chitarrista accorderà la Gipson, uno della band riderà più forte degli altri, è quello che ha paura, il più giovane. Mi immagino un tale che non c'entra con lo staff, un saputello con le mani in tasca, racconta una barzelletta a voce altissima - come si fa a raccontare una barzelletta a voce altissima? - il saputello ride a voce altissima come se si facesse un male cane e ora dovessero portarlo all'ospedale. Poi penso che vengono a chiamarti: Vasco, cominciamo, sei pronto? Tutto a posto, ragazzi. Prima di uscire e cantare, farai un pensierino alla donna, a Dio, a mamma, alla tua famiglia, alle tue famiglie, a tutti i tuoi amici o a un amico che non c'è più, al posto dove sei nato, e a bere un sorso buono. Ok, cominciamo. Apri la porta e sei di nuovo in corridoio. Cammini rapido verso l'uscita sul campo di calcio; quelli della band camminano rapidi con te. Nessuno parla, sorrisi tirati. Il clamore del pubblico aumenta, sali le scale che portano al campo, d'estate l'erba è sciupata. Odore di quest'erba, e anche di un'altra erba, una folata. Lo stadio è nel buio, fa parte dello show. Vicino all'uscita degli spogliatoi c'è una folla di fotografi, di gente che non capisci chi sia, uno ti stringe la mano e dice sono il sindaco, i poliziotti hanno il cane lupo che tira forte e ci sono i flash dei fotografi: Vasco sorridi, Vasco guarda qui. Vasco, Vasco. Una pioggia di pacche sulle spalle: sei anestetizzato, ridi. Qualcuno ti ricorda di entrare sul palco dalla scaletta dietro. Nel buio, le luci sono a posto, quando arrivi al microfono, lo sai, si accende l'inferno e si comincia. Ok? Ok. Le assi del palco, le torri degli amplificatori. Ci siamo: il cuore rulla. Sulle gradinate una ragazzina urla: eccolo!...E gli altri: Vasco, Vasco. I flash dei telefonini, i flash dei fotografi, un flash di quando eri bambino. Sei all'asta del microfono, prendi un respiro, vai.  Il pedale della batteria batte sulla cassa, e uno, e due, sul palco si accendono milioni di luci, e ci sei solo tu: Vasco, Vasco.  Il rock era bellissimo, ma ora non ce la faccio più. Basta. Basta sound-check, basta spogliatoi, basta corridoi, basta neon, basta camion, basta pacche sulle spalle e gente che ride urlando: il corpo del rocker è stanco. La giovinezza che non c'è più, è una prigione. Una vita in alberghi, autogrill, cercando fra stadi e autostrade un angolo a misura, un posto dove dire in confidenza a sé stesso: "Vasco, allora, come va?". Ci sono sessanta stagioni, il corpo del rocker è stanco. E' difficile che ci sia di nuovo un mondo come quello del rock: per carità, la notorietà è la stessa infezione in tutti gli show: i corridoi e le pacche sulle spalle, ma il mondo del rock è diverso. Nomade. Esoterico. Trasandato alla gran perfezione. Si trattava di concentrarsi, andare sul palco e coprire la folla di brividi. Stabilire un contatto con la gente come se la gente là sotto fosse la tua famiglia, e lo sa fare uno ogni cento milioni di persone. E se c'è modo di vedere che cosa sia la giovinezza, a che punto sia, quanto duri, è il rock. Il rock chiede il tuo coraggio, non basta essere bravi. Il rock è un brivido, il resto sono canzoni. Ma la vita prima e dopo il palco, logora. I ristoranti dove sogni un uovo al tegamino, e sono le tre di notte, la cucina è chiusa e c'è solo salsa tartara. Stancano le promiscuità e quel fatto che la gente ti dia del tu, e il cellulare che squilla, le interviste, gli impresari, gli agenti, il segretario, i ristoratori che corrono al tuo tavolo stropicciando il grembiale, i cuochi, un altro cameriere che porge un foglietto per l'autografo a suo figlio, e tutti che fanno l'occhiolino. Resisti a questo, resisti a tutto, ma non si può fiammeggiare tutta la vita, e il corpo del rocker è stanco. Hendrix riposa in pace nei suoi dvd, lo stesso fanno Janis e Jim Morrison. Steve Ray è caduto giovane come Patroclo, aveva fretta di andare a casa, era salito da solo sull'elicottero di Clapton. Gli altri, quelli che non sono morti, suonano e sono famosi, ma alla fine devono passare al blues, diventano meditativi  - il corpo del rocker è stanco. Gli artisti morti giovani hanno avuto fortuna, si sente dire, e la loro fortuna sarebbe che morendo sono rimasti giovani. Chi ha continuato a essere vivo, a cantare, è solo uno normale: infatti è rimasto vivo. Hendrix e Mozart sono morti giovani e poveri e ancora ne parlano, dice qualcuno. Nel rock, se non sei  morto da giovane in una vasca da bagno, da giovane in una piscina o sopra un water la siringa nel braccio, o fatto a pezzi e messo in una valigia come Alan Wilson dei Canned Hit (quelli di "On the road again"), se non capitano tali cupe vicende, ci vuole qualcosa in più per diventare un mito. Per esempio è successo a Beethoven. Beethoven era Beethoven, che discorsi, ma aveva toccato il cuore a tutti, e quando alla fine della vita diresse la Nona in un teatro di Vienna, ormai non sentiva più niente. Era sordo. La diresse  aiutandosi con un sistema di cornetti acustici, pare che percepisse un ronzio ritmato e che un'assistente gli girasse le pagine dello spartito. Quando la musica finì, a Beethoven fu fatto cenno di girarsi verso il pubblico - si girò.  Dai palchi e dalla platea fu sventolato un muro di fazzoletti bianchi. Nel teatro si sentiva il rumore che fanno le vele quando ci sono i colpi di vento. Questo è da leggenda rock. Ma per sopravvivere senza preoccuparsi dei colleghi leggendari morti, si deve essere giovani, incoscienti: suonare e cantare perché non c'è niente di meglio. Invece, anche se non l'avresti mai detto, a un certo punto il corpo del rocker si è fatto stanco. Mentre la gioventù è spensieratezza, parità con con qualsiasi cantante sconosciuto e con qualsiasi star. La giovinezza è l'unico comunismo realizzato senza danni. Per questo le canzoni di Vasco venivano bene, la voce non si curava di quello che la voce lasciava dietro - o così pareva a tutti. Un giorno deve essere successo qualcosa, forse a un certo punto conta cosa lasci in una giornata, e così è arrivato l'annuncio: il mio corpo di rocker è stanco. Proprio così, Vasco, non si può esser giovani per sempre come credevamo. O meglio: si può, solo che mentre dentro senti la giovinezza di sempre, la sensibilità di sempre, e il modo di dire le cose è quello di quando dicevi "allora ragazzi, che si fa stasera, andiamo al cine?", poi non è affatto così. Mentre ti continui a sentire  il solito te stesso di sempre, parli agli altri e hai ventanni come loro, la verità è che quelli non ne hanno sessanta come te, non sono i tuoi coetanei, loro sono nuovi di zecca. Tutti quei ragazzi potrebbero essere tuoi figli, tuoi nipoti, e a volte si rivolgono a te con deferenza, e la deferenza non va bene - sarebbero mai arrivati alla deferenza con Hendrix? Non lo sapremo mai. C'è un film dove si vede Hendrix che suona tenendo la chitarra dietro la schiena, poi la fa girare intorno al corpo, la porta alle labbra e la suona con i denti. Davanti a lui, sotto il palco, un ragazzo lo guarda con la bocca spalancata, immobile come fosse di gesso.  Vasco dice che non se la sente di continuare. Penso che succeda lo stesso ai comici: si può essere comedians per tutta la vita, Jerry Lewis per cinquantanni di seguito? "Ooooh, ragaaaaaazzi...che beeeeeeeello". Non si può essere clown per sempre. Anche a Chaplin è successo. Da vecchio faceva un film, bello, bellissimo, struggente, e ogni volta sembrava dicesse educatamente addio. Il comico da vecchio diventa una maschera tragica. Il rocker è come il comedian, chiuso nella prigione dello show - il rocker deve guizzare, o dare l'impressione di farlo. Di sicuro, ora che Vasco smette, non ci sarà più una parte del primo rock. Nel rock c'era una libertà potente, vera e falsa, quella vera molto vera e quella falsa molto falsa - erano belle tutte e due. La libertà del rock è appariscente e tagliente, e chi non l'ha vista, chi non  ci si è tagliato, non può sapere quanto mancherà. Gli amplificatori friggevano sempre, domani Vasco li spenge. Curioso che si invecchi, allora la vita era questa. 

 

Alessandro Schwed   

 

Il Foglio 5 Luglio 2011

 

 

 
 
 

Storia di Dunn,lo stuntmann star diventato simbolo dei clown della morte

Post n°25 pubblicato il 27 Giugno 2011 da Jiga0
 

Ryan Dunn 

  

Brividi

I nuovi ragazzi del mondo, quelli che vanno dai quattordici ai quaranta, sono tristi. E' morto Ryann Dunn. Chi di voi sapesse chi era, andrebbe censito come rara specie vivente; oppure è il contrario: si avvia ad essere specie da proteggere chi ignora la profusione degli eroi mediatici, nomi di qualche anno, destinati a essere sostituiti da altri nomi: più immagini che persone; più pixel che carne e ossa. Così, senza che noi adulti del Novecento lo sapessimo, ci è morto Ryan Dunn. Aveva fatto qualche film in Tv, una pellicola al cinema, ma era un eroe di MTV,  uno stuntman eccentrico. Intanto, era fra i protagonisti dello show televisivo di avventure spericolate "Jackass", più o meno "Idioti", ma andrebbe bene anche il più stradaiolo "Bischeri".  Ryan era di un cosmo che in Italia va in onda sulla parabola, un successo televisivo dell'altra parte del mondo. Si era fatto conoscere per acrobazie poi divenute mitiche: spaccare le piccole vetture dei campi da golf, volare dai tetti, o eseguire preziosismi discutibili, come quando inserì nel proprio retto una macchinina-giocattolo. Ryann radunava pubblico a qualsiasi costo con le sue  imprese da locanda di bucanieri, goliardate da brivido. Non un eroe come nella classicità, quando gli eroi erano Achille ed Ettore e le loro gesta oltre a essere cantate da Omero, o nelle veglie invernali di regge che alla fine erano spelonche, venivano dipinte intorno al giro di un'anfora - le anfore erano i media di una volta. Ryann era un eroe della Tv giovanile americana e planetaria, un esuberante alter ego di milioni di adolescenti, avatar di ognuno come alla playstation ogni giorno. Quando cinquantanni fa Mario Riva cadde dal palco dell'Arena di Verona e morì, la mia emozione di ragazzo non fu la stessa: non fui triste, ma sconcertato che la morte potesse entrare nella vita con questa facilità trasandata. Dunn era una star del mondo degli stuntmen,  un solista delle esagerazioni roboanti, cugine del wrestling e di ogni eccesso spettacolare, ma molto più pericolose. I brividi e la morte affascinano il pubblico giovanile che oscilla tra documentari sul nazismo travestiti da Storia e gente che si lancia dal grattacielo con la macchina. E appunto che sia morto Dunn, l'ho appreso da mio figlio adolescente - che non so come faccia ad avere tempo a sapere tutto, mentre suona la chitarra, guarda film, gioca a playstation, amministra i dibattiti del circolo culturale del social forum, e poi ogni tanto dorme. Ryann Dunn era come Bear, ex marine delle forze speciali inglesi, protagonista di decine di puntate televisive che sono le sopravvivenze nei deserti e nelle foreste di tutto il mondo, in crepacci dove si fa lasciare con l'operatore televisivo che lo riprende mentre lui sopravvive mangiando talpe, accendendo sterpi bagnati, depurando l'orina e bevendola. Solo che Bear, per fortuna, è vivo - anche se ora, dopo due stagioni di devozioni a voce alta mio figlio e i suoi amici stanno lasciandoselo alle spalle. Ryann era come Andrew Zimmern, l'anchorman viaggiatore di Bizarre Foods, documentario di cucina a dir poco esotica, ma esotica è poco e cucina è troppo. Andrew entra in un villaggio dell'Uganda, si fa invitare a pranzo dagli aborigeni e banchetta con il loro piatto speciale, le termiti al vapore. Un eroe dell'assaggio. E' che gli eroi del mondo di ora sono volatili, potrebbero morire di indigestione, di lavanda gastrica, di puzzola indigesta. Se no, lasciano la vita volando fuori strada con la macchina per via di una bevuta di birra. Non maledetti, ma incauti; eroi di questo lungo tempo di inconcludenza quotidiana e  benessere inavvertito che neanche la crisi economica sta riuscendo a scuotere - eroi postmoderni che ormai non sono il nulla e non sono più postmoderni:  ormai il flusso di immagini è permanente. Elude l'arcaica differenza tra il giorno e la notte, trasforma il tempo in una parentesi. Nell'indecifrabile adolescenza sempre più lunga e ludica, dove i quattordicenni giocano a playstation giochi di uomini trenta, quarantenni, i Ragazzi-Sempre-Ragazzi si affezionano a dei clown della morte che rischiano la vita in modo buffo. Tutto questo, oltre che discendere dalla tradizione che lo spettacolo americano ha mutuato dal cinema e consiste di inseguimenti, salti nel vuoto e nel fuoco (che infatti in gergo tecnico sono chiamati gag come i numeri comici), tutto questo, dicevo, potrebbe provenire dall'antico, eterno mondo delle scommesse anglosassoni, dai giorni piovosi passati al pub e al whisky, puntando mezza sterlina su quante uova sode un uomo possa mangiare in tre minuti. Ryann era ubriaco e andava a centosessanta. E' morto come un ragazzo qualsiasi.  

 

Alessandro Schwed

Il Foglio, 25 giugno 2011

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Recenzione - Jakov Lind - PAESAGGIO DI CEMENTO - Cargo

Post n°24 pubblicato il 29 Aprile 2011 da Jiga0
 

copertina   copertina divise naziste

IL NIPOTE DI SC'VEIC

Come dall'interno di una botola teatrale che è la Seconda guerra mondiale, sbuca il sergente della Wermacht Gauthier Bachmann. golem di un'umanità immersa nel nazismo. Dopo il massacro del suo reggimento, svanito in pochi minuti sul campo di battaglia, Bachmann è stordito, o forse lo è sempre stato. In ogni caso, viene dichiarato inabile, tara fisica e morale che non accetta. Al contrario, vuol dimostrare che sa eliminare benissimo gli esseri umani e obbedire a un ordin copertina

copertina e in qualsiasi momento. Combatterà per la Germania e morirà, così vedranno di che pasta è fatto. La sua intelligenza ci appare attonita come se dal cielo gli fosse caduto in testa un lavandino. Non sappiamo se Bachmann sia sempre stato così, o così l'abbia ridotto la guerra o il cocktail hitleriano. Ma è un colosso vuoto in attesa di essere riempito di ordini e di amore. E ora, assemblato il golem, Lind lo mette in moto. Il colossale sergente Bachmann inizia a peregrinare per boschi e pianure, alla ricerca del proprio reggimento. Il suo cammino è divagante come quello del protagonista di una fiaba. Invece del gatto e la volpe, il lupo cattivo e le streghe, Bachmann incontra imboscati, assassini, l'industria del crimine nelle retrovie. Creatura animalesca e leggiadra, orco e angelo di forme come bovine, Bachmann rumina pensieri insensati o sublimi, e all'ordine "ammazza", lo fa, emblema di una stupidità che è una maschera. Tramite la prosa di Jakov Lind, un tornado lievissimo plana sul lettore e lo bersaglia con un dramma vestito da umorismo grottesco. Il comico si alterna al sublime della miseria umana, facendo venire in mente Brecht, e poi Singer. Lind, sodale e amico di Elias Canetti, osserva. Qui c'è un uomo che è un assassino che è un uomo. Lui lo guarda con la pietas yiddish. Il massacro del reggimento nel luogo chiamato Woroschenko lo martella e ne sveglia la coscienza primordiale ma paradossalmente spirituale. Il sergente, ragazzone ciclopico che fisicamente richiama il protagonista fassbinderiano di Alexanderplatz, prima della guerra era orefice, figlio di orefici da generazioni, tradizione familiare che cita come fosse un casato nobiliare. Il suo primo incontro fiabesco è appunto nel bosco con una sorta di gollum che pare uscito dal Signore degli Anelli, il nome che pare uno starnuto, Schnotz, e caracolla intorno a lui come un cane da caccia. Costui vive sottoterra come una talpa e nel suo nascondimento potrebbe essere davvero una talpa. Abita in una buca che il sergente fa crollare proprio come un bambino dispettoso fa crollare il castello di sabbia ad un altro bambino. Arrivato in un distaccamento militare, dove mostra a tutti la sua amata stanghetta di tiratore scelto, Bachmann viene plagiato, e senza sapere in che modo, si trova a fucilare Schnotz, ex amante del comandante militare che ora non serve più. Alla stazione ferroviaria, Gauthier Bachmann viene adocchiato da un tale, il signor Halftan, che si rivelerà un mostro psicopatico. Per suo ordine, elimina un'intera famiglia e ne disseziona le interiora come avverrebbe per dei polli. Bachmann è inorridito dai misfatti che compie per la sua abitudine mansueta a eseguire ordini. La coscienza tira fuori la testa e soffre. "Non può più andare avanti così, signor Halftan. Altrimenti dove va a finire? Qualcosa dovrà pur succedere per me, se no vado in putrefazione". Gauthier Bachmann è il nipote del soldato Sc'veik, grande personaggio di Hazek e del '900 di cui è parzialmente erede. In Sc'veik, la satira era all'ottusità dell'ordine asburgico, in una popolare vena praghese; qui la vena yiddish perfora l'orrore nazista, soffermandosi sul mistero della vicenda umana. La letteratura ha ancora senso.

Alessandro Schwed

Il Foglio, Aprile 2011

 

 

 

 
 
 

CINTURINO TORNA DALLA GUERRA

soldato italiano

Cinturino torna dalla guerra

 

Eccomi in treno che torno a casa. A un tratto la guerra è finita e io guardo l'Ucraina dal finestrino...Lo vedi, il treno è pieno di ragazzi italiani. Torniamo. Ero prigioniero...sono finito in Russia... Appoggio la testa allo schienale...ancora non mi abituo alla libertà. Una ventata dai binari, un treno di gente che canta. Scommetto che la mamma è in carrozzella davanti all'uscio. Vedo il cartello con la scritta: Italia.  Sul treno gridano: l'Italia! Grido anch'io. Ecco, guarda: Bolzano. Sul marciapiede c'è una folla che urla, ma che succede? sono donne,  gridano ciao, battono le mani, c'è anche una bandiera, ragazze, mamme coi bambini in braccio, bambine coi fiori, donne coi capelli bianchi, la guerra è finita, il suono dell'italiano è dolce.  Quella ha gli occhi come la mamma nella foto da fidanzata, una ragazza regala una pentola di patate, c'è il latte, il pane fresco, una frittata. Mi affaccio al finestrino, mi danno qualcosa, bevo vino e neanche lo so, mi piego fuori, una ragazza mi abbraccia, è bella,  rido con le lacrime, ciao Bolzano, non ti dimentico per tutta la vita. Non è finita, Piacenza, Reggio, alle stazioni le donne, i fiori, il ragù, una festa lunga come l'Italia,  sono un ragazzo italiano che torna a Montalcino. E' il 2 di luglio e adesso arrivo. A Siena c'è il Palio. A Montalcino la corriera si ferma alla tornata della piazza.  Davanti alla fiaschetteria incontro lo zio Bruno: fa una faccia.  A casa si apre la porta, per prima vedo la mamma.  

 

Poi senti. Dopo una decina di gior ni sono andato a lavorare alla fornace. Siamo liberi, dissi, si comincia un'altra vita. 

 

 Alessandro Schwed

2005 - Le voci di Montalcino  

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Recensione- FRED WANDER - HOTEL BAALBEK - Einaudi

Post n°22 pubblicato il 18 Febbraio 2011 da Jiga0
 
Foto di Jiga0

  Marsiglia

 

HOTEL A STELLA GIALLA 

1942.Vigilia dell'invasione tedesca in Francia. Una folla di ebrei si accalca all'Hotel Baalbek di Marsiglia, città-ultima spiaggia qualora si abbia il denaro per imbarcarsi in direzione dell'America; per gli altri, città-trappola dove sognare di salvarsi. In albergo, il tumulto delle stazioni: si arriva, si parte. Ci si separa: da amici occasionali; dai bar del porto; dalla società malavitosa che compra e vende; dagli ultimi giorni di normalità. Una sera c'è Edith Piaf, piantata sul palco all'Odeon, canta con la voce metallica in spregio alla morte. Protagonista è un ventenne in fuga, sventato, povero. Vorrebbe fuggire in America. Incontra Katia, bella e inquieta ragazza ebrea, segretamente partigiana. Lei lo porta al Baalbek, rifugio dove vivere la parvenza di una vita. Il padre di Katia, un vecchio sarto, gli fa subito una bella giacca di lino. I due giovani si innamorano, ma non se lo dicono. Si sono incontrati in una vita senza futuro, si guardano e basta. Il ragazzo scopre gli ebrei: operai, medici, insegnanti, lo scemo del vilaggio. Al Baalbek ci si organizza: con trecento dollari puoi scappare ad Algeri, nella stiva di una nave. In viaggio passano l'acqua potabile, niente più.  Nel viavai di improvvise partenze, i poveri rimangono e ricevono regali dai ricchi che invece partono - e allora i poveri si rallegrano amaramente. La polizia fa retate nel foyer. Il proprietario protegge, ma forse è della polizia.  Ai commissariati le celle sono cantine, le prostitute si pettinano, cantano: incontro dantesco con un'umanità marginale e immensa. Il Baalbek è una tendopoli a più piani. Le porte delle stanze sono aperte, la gente è addossata sulle scale, guarda dalle ringhiere ed è guardata. Le donne cucinano zuppe di cavoli, il cui odore ricorda la normalità, e gettano sguardi nelle stanze altrui. Le partenze sono quelle di chi ha comprato un visto, le notizie dalla realtà sono quelle di un piroscafo carico di ebrei, affondato dai tedeschi: non basta l'oro per rimanere vivi. Chi parte, lascia tutto nelle soffitte dell'albergo. Qui, fino a dopo la guerra, sosteranno valige, pacchi. Come in una vacanza insensata, nel foyer dell'albergo la gente discute di economia, di che cosa faranno i tedeschi. Molti non credono possibile che il mondo lasci fare i nazisti, fatale discussione ebraica. In mancanza di informazione libera, le notizie vengono desunte: quali eventi internazionali avranno fatto lievitare drasticamente il costo di pasta, margarina e pesce essiccato? Scorrono i caratteri degli inquilini, l'amore tra i due ragazzi, la gelosia fanciullesca di lui, la giovinezza inesperta di lei, nonostante i fucili nascosti sotto il letto. Poi Katia svanisce: si dice che fosse sul piroscafo per la Martinica affondato dai tedeschi, ma ancora dopo la guerra non si sa se Katia sia viva. Prima della deportazione, il ragazzo ha tempo per un amore, questo vissuto,  per Lily, la moglie di un amico che poi tornerà dal marito. I vecchi coniugi Stern partono per la Spagna: valicheranno le montagne con dei passatori. Spediscono in altre città i propri libri, gli oggetti, i vestiti. Regalano le proprie cose agli amici dell'albergo. Un mattino li trovano  distesi sul letto della  loro piccola camera. Si sono tolti la vita. Era questa la loro partenza. "Avremmo dovuto fuggire per tempo, ma dove?", domanda il ragazzo a un amico del Baalbek, una notte che marciano al freddo, ormai prigionieri dei nazisti. Il grande personaggio è l'albergo. "...mobili pieni di fessure che diffondevano un odore acidulo, come in tutti gli alberghi a poco prezzo: avevano assorbito tutto,  tutto, quei mobili e quelle pareti, come spugne avevano assorbito il dolore degli uomini e il loro fallimento". Gran libro.

Alessandro Schwed

 

Il Foglio ,18 febbraio 2011

 

 

 

 

 
 
 
 

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