L’attacco al 25 aprile

Festa della Liberazione

25-aprile-sempreL’attacco al 25 aprile
di Francesco Casula

Anche quest’anno prosegue l’attacco al 25 aprile: il neofascista Ignazio La Russa propone di trasformarlo in una “Giornata per ricordare le vittime del Coronavirus e i caduti di tutte le guerre”.
Una vera e propria sciocchezza sesquipedale, che al di là della strumentalizzazione dei morti per la corona virus, nasconde un’insidia pericolosa: equiparare i “morti di tutte le guerre”, anche se in realtà pensa segnatamente ai morti durante la Resistenza, che ha visto contrapposti fascisti e antifascisti.

Sia ben chiaro: per i morti, per tutti i morti non possiamo che nutrire e riversare tutta intera la nostra pietas: ma per favore senza metter sullo stesso piano oppressi e oppressori; chi si batteva per la libertà e chi invece ce la voleva togliere ed eliminare.

Tener viva la memoria, la verità, significa ricordare a chi lo dimentica e a chi non l’ha mai saputo cos’è stato il fascismo, compreso il suo epilogo con la RSI (Repubblica sociale italiana di Salò): fu uno stato fondato sulla tortura, sulla persecuzione razziale e politica, sulla distruzione fisica degli avversari, sulla delazione: né sessanta né cento anni bastano a cancellare tutto questo. [segue]

Né basteranno per farci dimenticare i ben 900 campi di sterminio e di concentramento disseminati soprattutto in Germania e nell’Europa orientale ma anche in Italia (Fossoli, Bolzano, Trieste, Borgo San Dalmazzo-Cuneo), con milioni di innocenti sterminati.

Si dirà che è roba vecchia, consegnata ormai al passato remoto; che il fascismo è morto e dunque serve solo all’antifascismo per vivere di rendita, parassitariamente.

Può darsi.
Ma pensiamo veramente che siano morte e sepolte le coordinate ideologiche, culturali e persino economiche e sociali che hanno fatto nascere, alimentato e fatto crescere e vivere il fascismo? Pensiamo sul serio che la cultura – o meglio l’incultura – della guerra e della violenza, del sopruso e della sopraffazione, dell’esclusione e dell’intolleranza, dell’ipocrisia e del perbenismo, del servilismo e dell’informazione addomesticata e velinara, sia morta per sempre?

E gli inquietanti fenomeni – soprattutto giovanili – di rinascita e affermazione di Movimenti che si ispirano al nazifascismo? Roba vecchia anche questa o drammaticamente nuova e attuale?

Si dirà che comunque il Fascismo ha realizzato opere meritorie e importanti, ad iniziare dalla Sardegna: ma, di grazia, quali?

A tal proposito, ecco quanto sostiene nella sua bella e interessante “Storia della Sardegna” (pag.914) Raimondo Carta-Raspi: «Anche della Sardegna appariranno, in libri e riviste, descrizioni e fotografie delle ”opere del regime” durante il ventennio. Favole per l’oltremare, per chi non conosceva le condizioni dell’Isola. V’erano sempre incluse la diga del Tirso, già in potenza dal 1923, le Bonifiche d’Arborea, iniziate fin dal 1919 e perfino il Palazzo comunale di Cagliari, costruito nel 1927. Capolavoro del fascismo fu invece la creazione di Carbonia, per l’estrazione del carbone autarchico, che non doveva apportare alcun beneficio all’Isola e doveva costare centinaia di milioni e poi miliardi che tanto meglio si sarebbero potuti investire in Sardegna, anche per la trasformazione del Sulcis in zona di colonizzazione agraria… più volte Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da rateare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse».

Che si continui dunque nella celebrazione del 25 Aprile come Festa della Liberazione, ma soprattutto come momento e occasione di studio, di discussione sul nostro passato che non possiamo né rimuovere, né recidere né dimenticare. Dobbiamo anzi disseppellirlo, non per riproporre vecchie divisioni e steccati ormai anacronistici e superati ma per creare concordia e unità: però nella chiarezza. Evitando dunque il pericolo e il rischio, corso spesso negli anni, di ridurre il 25 aprile a rito unanimistico o, peggio, a semplice liturgia celebrativa. Magari accompagnato dal tricolore e dall’orrendo bolso e vieto Inno guerresco di Fratelli d’Italia.

Ricordare Sa Die de sa Sardigna

 Di Francesco Casula

Chiusi in casa, per il 28 aprile, la Giornata della Sardegna, ovvero la Festa nazionale del popolo sardo, non possiamo fare quasi niente. Possiamo però almeno ricordarla. “Fermatevi” Che vergogna! Che onore! Sardi gente di onore? E che diranno di noi, di tutti! Che abbiamo cacciato lo straniero per amore della libertà? No, per amore della roba! Lasciate stare tutto! Non toccate nulla! Non ce ne facciamo niente di quella merda degli stranieri! Che se la mangino a Torino con salute! A noi interessa di essere padroni in casa nostra! Libertà, lavoro, autonomia! Nella finzione letteraria e teatrale divertente e brillante, in “Sa dì de s’acciappa”, lo scrittore Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis – macellaio, protagonista della ribellione dei cagliaritani contro i piemontesi – rivolgendosi ai popolani che arrabbiati volevano assaltare i carri zeppi di ogni grazia di Dio, per sottrarre ai dominatori la “roba” che stavano rubando e che volevano portare a Torino. Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile del 1784: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a piegare la schiena, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo abituati a abbassare la testa, sopportando ogni tipo di prepotenza, umiliazione, sfruttamento e prese in giro, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di orgoglio, si ribellano e alzano la testa, raddrizzano la schiena e dicono basta! In nome dell’autonomia e dunque per “essere padroni in casa nostra”! E cacciano i Piemontesi e i savoiardi, non per ragioni etniche ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosabaudi come Giuseppe Manno o Vittorio Angius che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – ricordo sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”. A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

La lingua sarda racconta il mondo. (No sceti Contos de foghile)

La lingua sarda racconta il mondo. (No sceti Contos de foghile)
A cura di Francesco Casula

Un noto storico sardo, dell’Università di Sassari ha scritto : “Sono d’accordo con certe forme moderate di bilinguismo, ma la lezione universitaria in sardo la trovo controproducente e ridicola. Oggi non avrebbe alcun senso utilizzare il Sardo come linguaggio scientifico, giacché esso nelle sue due grandi varianti, campidanese e logudorese, è una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”. Si muove sullo stesso versante il linguista Alberto Sobrero, (In “Introduzione all’Italiano contemporaneo”, Ed. Laterza, 2 voll.). “E’ giusto scrive – non dimenticare le lingua locali ma “sarebbe assurdo o, nella migliore delle ipotesi, comico, pensare di usare le parlate locali per la matematica, la fisica e la filosofia!”.

In altre parole, secondo i due illustri intellettuali, la lingua locale, in questo caso il Sardo, sarebbe incapace e inadatta a esprimere la cultura rbana e scientifica, la modernità in quanto lingua arcaica, agro-pastorale, utile solo per raccontare contos de foghile. Questa posizione nasce sostanzialmente da un pregiudizio: che la lingua sarda si sia “bloccata”, ovvero sia ancorata permanentemente alla sola tradizione agropastorale, e dunque sia incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina, allo sport.

I “nostri”, non fanno i conti con la “dinamicità” delle lingue e dunque anche di quella sarda: che non è un bronzetto nuragico ma cambia, muta e si modifica continuamente arricchendosi di nuovi lemmi. Così termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale scientifico negli ultimi decenni sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha assimilati. Questo “scambio” (con accumuli, arricchimenti, contaminazioni) è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue. E tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate” sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.

A rispondere a chi parla di “blocco” e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione de “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio “blocco dialettale”, ma che pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un “dialetto” o meglio “un gruppo di dialetti”. Mentre il più grande studioso di bilinguismo a base etnica, l’americano J. F. Fishman (In “Istruzione bilingue”, Ed. Minerva Italica, 1972) scrive: “Ogni e qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”. A chi pensa che le lingue locali e native – e dunque per noi il Sardo – siano incapaci e inadatte a raccontare la “modernità” e la cultura “alta”, perché intrinsecamente povere e inadeguate, risponde in modo particolare un semiologo come Stefano Gensini (In “Elementi di storia linguistica italiana”, Minerva Italica, Bergamo 1983). Fra l’altro ricorda e cita Leibniz – filosofo e intellettuale tedesco – secondo cui non vi è lingua povera che non sia capace di parlare di tutto. Ma rispondono soprattutto Ferdinand de Saussurre, il fondatore della linguistica moderna (In “Corso di linguistica generale”, Laterza, Bari,1983) e Ludwig Wittgenstein, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. in (In “Osservazioni filosofiche” Einaudi, Torino,1983).

Mazzini

sabato 4 aprile 2020

Pimpirias de istoria/istoriografia su Mazzini. Quello che i testi scolastici non ci hanno mai raccontato. Di Francesco Casula.

  1. Mazzini scrisse un libretto sulla Sardegna*, ferocemente critico contro la politica coloniale dei tiranni sabaudi: alcuni passi. “La Sardegna fu sempre trattata con modi indegni dal Governo sardo (leggi dai Savoia): sistematicamente negletta, poi calunniata, bisogna dirlo altamente”. “Mera appendice d’Italia“ . “Quell’isola dal clima temperato, dal suolo mirabilmente fecondo destinato dalla natura alla produzione del frumento, dell’olio, del tabacco, del cotone, dei vini dei melaranci, dell’indaco; ricca di legname da costruzioni marittime, e di miniere segnatamente di piombo argentifero, fu guardata da un governo che non fu mai se non piemontese, come terra inutile, buona al più a raccogliere, monopolizzatori d’uffici, gli uomini i quali, se non impiegati nella capitale, avrebbero screditato il Governo” . “Vittorio Amedeo accettò a malincuore, e dopo ripetute proteste, nel 1720, da Governi stranieri, al solito, la Sardegna in cambio della Sicilia. E diresti che la ripugnanza con la quale egli accettò quella terra in dominio, si perpetuasse, aumentando, attraverso la dinastia”.
  2. Mazzini eletto due volte nel Parlamento: e due volte l’elezione non venne convalidata perché “condannato a morte”. Le terza elezione fu convalidata ma fu lui a non accettare perché antimonarchico e antisabaudo. Il 25 febbraio 1866 Messina fu chiamata al voto per eleggere i suoi deputati al nuovo parlamento di Firenze. Mazzini era candidato, nel secondo collegio, Mazzini vinse con larga messe di voti. Il 24 marzo, dopo due giorni di discussione, la Camera annullava l’elezione in virtù delle condanne a morte precedenti.

il governo dichiarerà che mentre le sentenze di tutti gli altri paesi preunitari erano decadute con l’Unità per l’estinzione degli stati che le avevano emesse, la condanna a morte di Mazzini da parte di un tribunale sabaudo era ancora valida, perché non era stata unificata l’Italia, ma solo ampliati i confini del Piemonte. Due mesi dopo gli elettori del secondo collegio di Messina tornarono alle urne: vinse di nuovo Mazzini. La Camera, dopo una nuova discussione, il 18 giugno riannullò l’elezione. Il 18 novembre Mazzini viene rieletto una terza volta; dalla Camera, questa volta, arrivò la convalida.

Mazzini, tuttavia, anche nel caso fosse giunta un’amnistia o una grazia, decise di rifiutare la carica per non dover giurare fedeltà allo Statuto Albertino, la costituzione dei monarchi sabaudi. Egli infatti non accettò mai la monarchia e continuò a lottare per gli ideali repubblicani. Nel 1868 lasciò Londra e si stabilì in Svizzera, a Lugano. Due anni dopo furono amnistiate le due condanne a morte inflitte al tempo del Regno di Sardegna: Mazzini quindi poté rientrare in Italia e, una volta tornato, si dedicò subito all’organizzazione di moti popolari in appoggio alla conquista dello Stato Pontificio.

L’11 agosto partì in nave per la Sicilia, ma il 14, all’arrivo nel porto di Palermo, fu tratto in arresto (la quarta volta nella sua vita) e recluso nel carcere militare di Gaeta. La prima volta fu arrestato dal tiranno sabaudo Carlo Felice nel 1830, per attività cospirative.

*Giuseppe Mazzini, La Sardegna, Casa editrice Il Nuraghe, Cagliari, 1923

Di Francesco Casula

Storico e saggista

Autore, tra gli altri, de “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”