Mese: aprile 2023
Verso il 28 aprile: la Festa Nazionale del Popolo Sardo.
Verso il 28 aprile: la Festa nazionale del popolo sardo
di Francesco Casula
Per ricordare lo scommiato dei Piemontesi è nata ”Sa Die, giornata del popolo sardo” –ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi” – con la legge n.44 del 14 Settembre 1993. Con essa la Regione Autonoma della Sardegna ha voluto istituire una giornata del popolo sardo, da celebrarsi il 28 Aprile di ogni anno, in ricordo – dicevo – dell’insurrezione popolare del 28 Aprile del 1794, ovvero dei “Vespri sardi” che portarono all’espulsione da Cagliari e dall’Isola dei piemontesi e di altri forestieri ligi alla corte sabauda, compreso lo stesso inviso Viceré Balbiano.
Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una Festa nazionale sarda, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo.
Il problema è quello di trasformarla in una occasione di studio –soprattutto nelle scuole – della storia e della cultura sarda, di confronto e di discussione collettiva e popolare, per capire quello che siamo stati, quello che siamo e vogliamo essere; per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione; per batterci per una Comunità moderna e sovrana, capace di mettere in campo l’orgoglio e il protagonismo dei Sardi, decisi finalmente a costruire un riscatto ovvero un futuro di prosperità e di benessere, lasciandosi alle spalle la rassegnazione, la lamentazione, il piagnisteo e i complessi di inferiorità e avendo il coraggio di “cacciare” i “nuovi piemontesi” o romani o milanesi che siano, non meno arroganti, prepotenti sfruttatori e “tiranni” di quelli scommiatati da Cagliari il 28 Aprile del 1794.
“Fu un momento esaltante – ha scritto Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante è oggi il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato dunque: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza. Un passato che – solo apparentemente perduto – occorre ritrovare perché è durata, eredità, coscienza. In esso si innesta infatti il valore dell’Identità, non statico e chiuso, non memoria cristallizzata ma patrimonio che viene da lontano e fondamento nel quale far calare nuovi apporti di culture, di vite individuali e sociali che determinano sempre nuove identità.
Il messaggio di Sa die è rivolto soprattutto ai giovani e l’occasione storico-culturale è destinata prima di tutto agli studenti, perché acquistino consapevolezza di appartenere a una storia e a una civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti: i giovani e non solo.
Quale 25 Aprile
QUALE 25 APRILE
di Francesco Casula
Per i morti, per tutti i morti non possiamo che nutrire e riversare tutta intera la nostra pietas. E la pietas cristiana da parte dei credenti.
Ma per favore senza metter sullo stesso piano oppressi e oppressori, vittime e carnefici; chi si batteva per la libertà e chi invece ce la voleva togliere ed eliminare.
Tener viva la memoria, la verità, significa ricordare a chi lo dimentica e a chi non l’ha mai saputo cos’è stato il fascismo, compreso il suo epilogo con la RSI (Repubblica sociale italiana di Salò): fu uno stato fondato sulla tortura, sulla persecuzione razziale e politica, sulla distruzione fisica degli avversari, sulla delazione: né sessanta né cento anni bastano a cancellare tutto questo.
Né basteranno per farci dimenticare i ben 900 campi di sterminio e di concentramento disseminati soprattutto in Germania e nell’Europa orientale ma anche in Italia (Fossoli, Bolzano, Trieste, Borgo San Dalmazzo-Cuneo), con milioni di innocenti sterminati.
Si dirà che è roba vecchia, consegnata ormai al passato remoto; che il fascismo è morto e dunque serve solo all’antifascismo per vivere di rendita, parassitariamente.
Può darsi.
Ma pensiamo veramente che siano morte e sepolte le coordinate ideologiche, culturali e persino economiche e sociali che hanno fatto nascere, alimentato e fatto crescere e vivere il fascismo? Pensiamo sul serio che la cultura – o meglio l’incultura – della guerra e della violenza, del sopruso e della sopraffazione, dell’esclusione e dell’intolleranza, dell’ipocrisia e del perbenismo, del servilismo e dell’informazione addomesticata e velinara, sia morta per sempre?
E gli inquietanti fenomeni – soprattutto giovanili – di rinascita e affermazione di Movimenti che si ispirano al nazifascismo? Roba vecchia anche questa o drammaticamente nuova e attuale?
Si dirà che comunque il Fascismo ha realizzato opere meritorie e importanti, ad iniziare dalla Sardegna: ma, di grazia, quali?
A tal proposito, ecco quanto sostiene nella sua bella e interessante “Storia della Sardegna” (pag.914) Raimondo Carta-Raspi :”Anche della Sardegna appariranno, in libri e riviste, descrizioni e fotografie delle ”opere del regime” durante il ventennio. Favole per l’oltremare, per chi non conosceva le condizioni dell’Isola. V’erano sempre incluse la diga del Tirso, già in potenza dal 1923, le Bonifiche d’Arborea, iniziate fin dal 1919 e perfino il Palazzo comunale di Cagliari, costruito nel 1927. Capolavoro del fascismo fu invece la creazione di Carbonia, per l’estrazione del carbone autarchico, che non doveva apportare alcun beneficio all’Isola e doveva costare centinaia di milioni e poi miliardi che tanto meglio si sarebbero potuti investire in Sardegna, anche per la trasformazione del Sulcis in zona di colonizzazione agraria…più volte Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da rateare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse”.
Che si continui dunque nella celebrazione del 25 Aprile come Festa della Liberazione, ma soprattutto come momento e occasione di studio, di discussione sul nostro passato che non possiamo né rimuovere, né recidere né dimenticare.
Dobbiamo anzi disseppellirlo, non per riproporre vecchie divisioni e steccati ormai anacronistici e superati ma per creare concordia e unità: però nella chiarezza: evitando dunque il pericolo e il rischio, corso spesso negli anni, di ridurre il 25 aprile a rito unanimistico o, peggio, a semplice liturgia celebrativa. Magari accompagnato dal tricolore e dall’orrendo bolso e vieto Inno guerresco di Fratelli d’Italia.
Gli ASSASSINI DI SA DIE E L’IGNORANZA . ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA
GLI ASSASSINI DI SA DIE
E L’IGNORANZA.
ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA
di Francesco Casula
Sono molti i becchini di Sa Die de sa Sardigna. Le istituzioni regionali e i Partiti in primis. Ora ci si mette anche la Stampa: in un quotidiano on line Cagliari-Casteddu, leggo che sarebbe “una inutile festa”.
Mi auguro che sia semplice ignoranza: ovvero che non conoscono (o non hanno capito):
1. Il significato storico.
Intanto occorre chiarire che non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione, lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
2. Il significato simbolico.
I Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.
Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .
SA DIE DE SA SARDIGNA
SA DIE DE SA SARDIGNA
di Francesco Casula
Pro amentare sa dispidida de sos Piemontesos est nàschida ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma deo prefèrgio a li nàrrere “Festa natzionale de sos Sardos” – cun sa lege n.44 de su 14 Cabudanni de su 1993. Cun issa sa Regione Autònoma de sa Sardigna at chertu istituire una die de su pòpulu sardu, de tzelebrare su 28 de Abrile de cada annu, in ammentu – fia narende- de sa rebellìa populare de su 28 de Abrile de su 1794, est a nàrrere de sos “Vespri sardi” chi nch’ant giutu a s’espulsione dae Casteddu e dae s’Isula de sos Piemontesos e de àteros istràngios fideles a sa corte sabauda, inclùdidu su Vitzeré Balbiano chi nemos podiat bìdere.
Su problema chi oe tenimus in dae in antis, a livellu mescamente culturale, no est tantu su de torrare a pònnere in discussione sa data o, peus, su balore matessi de una “Festa natzionale sarda”, ma de non nche la torrare a unu ritu ebìa, a una vacàntzia iscolàstica ebia o a un’eventu petzi folclòricu e de festa.
Su problema est su de la cambiare in un’ocasione de istùdiu – mescamente in sas iscolas – de s’istòria e de sa cultura sarda, de cunfrontu e de discussione collettiva e populare, pro cumprèndere su chi semus istados, su chi semus e cherimus èssere; pro difèndere e isvilupare s’identidade nostra e sa cussèntzia nostra de pòpulu e de natzione; pro gherrare pro una Comunidade moderna e soverana, chi siat bona a pònnere in campu s’orgògliu e su protagonismu de sos Sardos, detzisos, in fines, a otènnere unu riscatu, o siat unu tempus benidore de ditzosidade e de bonistare, lassende•si in palas sa rassignatzione, sas lamentas, sos prantos e sos cumplessos de inferioridade e aende s’ànimu de “nche bogare” sos “Piemontesos noos” o romanos o milanesos chi siant, non prus pagu barrosos, prepotentes isfrutadores e “tirannos” de cussos dispididos dae Casteddu su 28 de Abrile de su 1794.
“Fu un momento esaltante – at iscritu Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Semper e cando, lassende a un’ala totu custu e s’eventu particulare, su chi contat oe est su balore simbòlicu de autocussèntzia istòrica e de fortza unificante. Perunu torròngiu in palas nostàlgicu o risentidu cara a su tempus coladu, duncas: ma su tempus coladu sepultadu, cuadu, rimòvidu, si tratat, in antis de totu, de nche lu tirare dae suta de terra e de lu connòschere, a manera chi diventet fatu nou chi intèrrogat s’esperièntzia de su tempus atuale, pro pònnere fronte a su tempus presente in s’atualidade drammàtica sua, pro definire un’orizonte de sensu, pro nos situare e pro abitare, abertos a s’alenu suo, su mundu, gherrende contra a su tempus de s’ismèntigu. Unu tempus coladu chi – pèrdidu petzi in aparièntzia – tocat de l’agatare ca est durada, eredidade, cussèntzia. In issu, infatis, si inferchit su balore de s’’Identidade, no istàticu e tancadu, non memòria cristallizada ma patrimòniu chi benit dae largu e fundamentu in ue fàghere falare aportos noos de culturas, de bidas individuales e sotziales chi determinant semper identidades noas
Su messàgiu de Sa die est diretu mescamente a sos giòvanos e s’ocasione istòrico-culturale est destinada in antis de totu a sos istudentes, pro chi otèngiant sa cunsapevolesa de apartènnere a un’istòria e a una tzivilidade e de ereditare unu patrimòniu culturale, linguìsticu, artìsticu e musicale, ricu de siendas de elaborare e cunfrontare cun esperièntzias e propostas de unu mundu prus mannu e cumplessu. In ue, moende dae raighinas seguras e frunidos de alas fortes, potzant bolare in artu: sos giòvanos e non solu .
Intervista di Anna Maria Turra (Costa smeralda online) a Francesco Casula .
SU COSTUMENE = L’abito tradizionale sardo (e non “costume”!)
FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI E LA SETTIMANA SANTA
FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI
E LA SETTIMANA SANTA
di Francesco Casula
La Chiesa cattolica, in occasione della Settimana santa, nei suoi riti (e nelle sue preghiere) attinge a piene mani dall’Opera di Fra Antonio Maia da Esterzili. Senza che mai venga nominato o, semplicemente ricordato. E’ stato infatti sottoposto a una damnatio memoriae vergognosa: non solo da parte della Chiesa ma da parte di tutta la cultura italiana ma anche sarda.
Fra Antonio è il fondatore della sacra rappresentazione in Sardegna (1664-1727) con una grande Opera letteraria che rimase “sepolta” nella Biblioteca universitaria di Cagliari per circa tre secoli (dal 1688 al 1959): e gli studiosi, dunque, per secoli a ripetere la litania secondo la quale la lingua sarda non aveva “prodotto” testi teatrali!
Tutto ciò che sappiamo dell’autore lo ricaviamo da una annotazione contenuta nel registro dei frati Cappuccini della Provincia di Cagliari, conservato presso l’Archivio della Curia provinciale dei Cappuccini di Cagliari (vol. II, 1695-1802). Da essa risulta che era presente nel Convento di Sanluri (Cagliari) nel Novembre del 1668 e che morì all’età di 82 anni, il 26 Aprile 1727, dopo averne trascorso 57 di vita religiosa.
Dobbiamo dunque dedurre che nasce nel 1644 e a Esterzili, sulla base della consuetudine vigente soprattutto negli ordini religiosi, secondo i quali quando si entrava in una Congregazione, i novizi abbandonavano il nome secolare e se ne assumevano un altro di devozione, in onore di qualche santo, seguito generalmente dal nome del paese di origine, in questo caso appunto Esterzili.
Da alcuni accenni nelle cronache dell’Ordine dei Cappuccini si desume inoltre che trascorse un periodo della sua vita a Iglesias e che certamente visse anche a Cagliari. Non è improbabile tuttavia – scrive Sergio Bullegas uno dei massimi studiosi di Fra Antonio – che sia stata fatta sparire di proposito ogni traccia del suo cognome secolare e della sua biografia a causa di alcuni fatti imprecisati e incresciosi in cui fu coinvolto. Si parla infatti – nel Registro dei Cappuccini cui si è già fatto cenno – che egli si rese colpevole di un crimine turpissimo (probabilmente ebbe un rapporto sessuale con un fraticello).
Di qui la dimenticanza, per secoli, dell’Autore e delle sue opere. Solo nel secolo XIX si inizierà a parlare di lui, grazie a Giovanni Siotto Pintor, storico e letterato sardo, che ne scriverà nella sua Storia letteraria di Sardegna (vol. IV), ma tratto in inganno dal frontespizio del manoscritto, cadde in un grossolano errore affermando che si trattava di opere in spagnolo.
Nel frontespizio in alto del manoscritto – che si trova attualmente presso la Biblioteca universitaria di Cagliari – è infatti scritto in castigliano, con grossi caratteri: “Libro de Comedias escripto por Fray Antonio Maria de Estercyly sacerdote capuchino en Sellury 9bre a 18 año 1688” (Libro di Commedie scritto da Fra Antonio Maria di Esterzili, sacerdote cappuccino in Sanluri il 18 Novembre 1668).
In realtà le sue “Comedias” (Commedie, drammi) contenute nel manoscritto sono scritte in una bella lingua sarda-campidanese con le didascalie in castigliano, la lingua dominante e ufficiale dell’epoca, in Sardegna.
Il manoscritto che conserviamo contiene: La Natività, La Passione, La Deposizione, più 550 versi, prevalentemente ottonari ed endecassillabi, strutturati in quartine e ottave, intitolati Versos que se rapresentan el Dia de la Resurrection (Versi che rappresentano il giorno della Resurrezione). Vi è inoltre un frammento, costituito dal Prologo e dall’incipit del primo atto di un’altra rappresentazione intitolata Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria señora nuestra als çielos (Grande commedia sull’Assunzione di Maria vergine nostra Signora nei cieli).
A questo punto il manoscritto si interrompe – quasi fosse stato smembrato – e seguono Excomunicationes in diae coenae Domini, (Scomuniche nel giorno della cena del Signore) un compendio di disposizioni ecclesiastiche e canoniche, aggiunte probabilmente durante la rilegatura ottenuta con l’uso della pergamena.
Di tutte le opere di Fra Antonio Maria, contenute nel manoscritto, è stata edita solo la Passione, nel 1959.