L’ammazzamento del viceré Camarasa: un episodio della storia sarda più famoso che conosciuto

L’ammazzamento del viceré Camarasa: un episodio della storia sarda più famoso che conosciuto.

di Francesco Casula

Durante la loro esistenza (dal 1355 al 1718/20) vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi , rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarasa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarasa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura «redemptor y restaurador de la Patria»? «Padre del Pueblo» o «amparador de los pobres», espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento”*.

*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.

Il Garibaldi di Cazzullo supera la retorica patriottarda di De Amicis

Il Garibaldi di Cazzullo supera la retorica patriottarda di De Amicis
di Francesco Casula
Povero Edmondo de Amicis: in quanto a mitizzazione e mistificazione di Garibaldi è stato superato da Aldo Cazzullo. Scrive De Amicis su Garibaldi : «Affrancò milioni d’italiani dalla tirannia dei Borboni […] Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano da lui da ogni parte […] Era forte biondo bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo» (De Amicis, Cuore, Garzanti, Milano, 1967, pagina 176). Su la7 Cazzullo (15-1-2023) celebra, retoricamente Garibaldi, fin dall’incipit della trasmissione, etichettandolo come “l’uomo più famoso del mondo” che ha compiuto, con i Mille in Sicilia, “la più folle ed entusiastica impresa di tutto il Risorgimento italiano”. “I governi lo temono” prosegue, perché “sanno che è capace di tutto”. Ma la vetta del panegirico (e della mistificazione cortigianesca) è: ”Ovunque ci sia un popolo oppresso, appendono il suo ritratto nelle case e gridano il suo nome nei cortei”. E ancora: ”I popoli lo invocano per essere liberati”. Un’occasione persa per la cultura italiana, che pure vorrebbe dominare la Sardegna: e con quale spocchia! Un vero peccato per Cazzullo e la storiografia risorgimentale ancorata viepiù alla retorica e agiografia patriottarda: che dimentica interra omette e nasconde le stragi, i massacri, le ruberie, le devastazioni compiute nella conquista, manu militari, del Sud da Garibaldi o comunque in nome e per conto di Garibaldi. Per ristabilire infatti con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe, messa da parte l’oleografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla e in moltissime altre località, vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai tiranni sabaudi: ancor più sanguinari e famelici. Altro che liberazione!
 
 
 
 
 
 
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Letteratura nazionale ( Non Letteratura regionale o dialettale)

di Francesco Casula

Quando naturalmente gli autori esprimono una condizione specifica sarda, per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici «realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.
Ovvero quando la produzione letteraria esprime una specifica e particolare sensibilità locale, “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.
O ancora – come scrive Antonello Satta – quando “gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.
Pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura, l’identità sarda continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.
Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde, scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.
A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale – non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…
Il mare divide e costringe: la letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.
Segnatamente per due ordini di motivazioni:
1.Il sardo non può essere considerato un dialetto;
2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia e dunque di letteratura italiana.
Da una analisi attenta della letteratura in Sardo potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.
Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”.

De Poesia sarda

De Poesiā sarda

di Francesco Casula

1. la poesia orale, come canto.
La lingua sarda, la nostra lingua materna, è soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.
Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e aoidòs in greco significa “cantore”.
“Canta” Omero (cantami o diva del pelide Achille), ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E poeti come Ezra Pound (con “Cantos”) e Leopold Sedan Senghor (con “Chantes d’ombre”). E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori. Anzi questi cantano e basta:non scrivono la poesia. E non solo perché spesso non sanno scrivere ma perché la poesia nasce come canto, come musica non come testo scritto da leggere. E’ curioso l’esempio di Diego Mele, uno dei più grandi e significativi poeti satirici in lingua sarda, le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti – annoterà Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della lingua – ma non erano ancora scritte. Anzi le sue poesie per decenni circolano solo oralmente e solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta nel 1860.
2. la poesia come canto e musica. Per ballare.
I grandi poeti in limba sarda i versi sembrano carezzarli e coccolare tessendoli così abilmente, che spesso essi si risolvono nel terso nitore della parola, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi e guidati da un orecchio musicale che riesce a ordire, con acuta selezione di lessemi, aggettivi e fonemi, fini ricami di immagini potenti e di metafore ardite.
Essi cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano – la Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio.
3. la lingua materna ricca, libera e pregante,
Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.
Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, viepiù fredde, commerciali e burocratiche, viepiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini. Come la stessa lingua italiana “senza i calli dei dialetti di origine. Perché essa certo deriva dal latino ma soprattutto da un’Amazzonia di dialetti, da un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L’Italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell’accento irrepetibile da chi non ci è nato” (Erri De Luca). Senza questa ricchezza l’Italiano si estingue o comunque deperisce.
Una lingua, quella sarda che – se insegnata con intelligenza nelle Scuole di ogni ordine e grado – potrebbe servire persino per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, a livello comunicativo e lessicale, lo “status linguistico”. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero e banale. Tanto che qualche studioso sostiene la tesi dei giovani “semiparlanti”: che non conoscono più la lingua sarda e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.
4. la lingua sarda: segno e simbolo dell’appartenenza e dell’identità
Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenìa hanno cercato di recidere.
Ma nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, censurato e falsificato, si tratta prima di tutto di ricostruirlo, di dissotterrarlo, di conoscerlo e in qualche modo, anche di inverarlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

La lingua biforcuta dei Partiti italici, le elezioni regionali e l’investitura neofeudale dei cacicchi locali

La lingua biforcuta dei Partiti italici, le elezioni regionali e l’investitura neofeudale dei cacicchi locali.

di Francesco Casula

I Partiti italici hanno la lingua biforcuta, segnatamente in occasione delle elezioni: in Sardegna, per ottenere il consenso, parlano demagogicamente un lessico filo sardo; a Roma ne parlano uno contrapposto: filo italiota e filo romano. Ma non si tratta di un semplice malvezzo.Bensì di una precisa scelta e strategia elettorale, segnatamente in occasione delle elezioni regionali.
Il linguaggio filo sardo, parlato nell’Isola serve loro per accalappiare i voti dei sardi; il linguaggio filo italiota per ottenere l’investitura neofeudale da parte degli imperatori di turno, dei pretoriani e dei vari capobastone: romani o milanesi poco importa.
La condizione per avere l’investitura a cacicchi, la nomina a parlamentari (nel caso di elezioni politiche) e la candidatura per le elezioni regionali (e persino a sindaco, per le grandi città) è una fedeltà canina. Una obbedienza ac cadaver. Senza neppure batter ciglio.
Sanno infatti che, poiché non contano niente, il loro potere, i loro privilegi, le loro prebende, i loro benefici derivano esclusivamente dalla loro “investitura” dal centro. Non contano niente a tal punto che i Partiti, con i loro gerarchi, a Roma decidono persino chi deve essere il Candidato a Presidente della Regione (nel cosiddetto centro-sinistra come centrodestra) in base alle “spartizioni” dei singoli Partiti.
Ripeto: il meccanismo è quello della fedeltà canina, in una sorta di condiviso criterio medievale: a chi procura truppe da combattimento sul territorio delle periferie dell’impero, vanno le candidature per le elezioni oltre i benefici e le prebende.
Già letto sui libri di storia: per chi ha studiato. Naturalmente.

E i bisogni dei Sardi? E gli interessi della Sardegna? Cestinati. Interrati. Dimenticati. E la Sardegna con i suoi immani problemi? Cancellata, derubricata dalle Agende dei Governi italiani: da sempre. Ma soprattutto negli ultimi 30 anni. Macellata economicamente, socialmente, culturalmente e linguisticamente.
Ma usque tandem? Fino a quando potranno abusare della nostra pazienza, che viepiù sta diventando stupidità e autolesionismo?

Quanto contino poco, i politici sardi, subalterni alle centrali romane e ascari, in modo più incisivo di me lo scrive Benvenuto Lobina, uno dei più grandi romanzieri in lingua sarda:
(Ecco un passo della poesia satirica CUADDEDDU CUADDEDDU)
Cussa genti
pinnigada in su corrazzu
non cumandat unu cazzu
funti conca’ de mollenti….
Chi cumandada est’attesu
custus funti srebidoris
mancai sianta dottoris
funti genti senz’ ’e pesu.
Fueddendu in cudda cosa
no adi intendiu fustei
nendu “yes” e nendu “okei”
cun sa oxi pibiosa?

L’ Incanto del cielo stellato di Tonino Bussu

L’incanto del cielo stellato di Tonino Bussu

di FRANCESCO CASULA

Si licet parare magna cun parvis – anche se Tonino Bussu non è proprio tanto “parvus”, tanto pilocheddu – paragonerei, per molti versi, il suo recente libro “L’Incanto del cielo stellato” (Alfa editrice) al capolavoro di Salvatore Cambosu “Miele amaro”: un bastimento carico di essenze e pimpirias di filosofia, arte e architettura, storia e paristoria, d’immagini preziose e di racconti, di miti e credenze e pratiche popolari ruotanti intorno al cielo stellato. Ed anche una enciclopedia e un labirinto di segni e simboli, filastrocche e aneddoti e dicios, esprimenti la nostra antica sabidoria: rigorosamente in sardo. E insieme un breviario di tutto ciò che un sardo può (e deve) conoscere e amare della sua Terra; un mosaicoinsomma della vita della Sardegna intera.
Alcuni dicios sono particolarmente pregnanti e fulminanti, penso a :“abba e sole/tridigu a muntone”; “No importat si pesas chito/est a intzertare s’ora”.
Alcuni simboli come “Sa Pipia de Maju” sono particolarmente aulici e delicati; altri come e “Su Trubu” sono particolarmente potenti e ricorrenti fin dall’antichità, nelle tradizioni e nelle popolazioni sarde; altri ancora come “Su Boe Molinu o Muliache”, legato al Lupo Mannaro, sono temibili temuti e misteriosi.
Il libro si pone, programmaticamente, l’obiettivo specifico di recuperare il nostro patrimonio astronomico che rischia di scomparire, con la lingua e la filosofia ad esso connessa: a esprimere la specifica economia e società dei sardi. Insomma la loro weltanschauung.
Così le Pleiadi (costellazioni a grappolo) diventano: Su Gurdone; le Comete: Sos isteddos colilongos; le Metore: Isteddos tramudantes. E poi vi sono Sos trubadores de sos sete frades e Sa via de sa Paza: a esprimere e rappresentare la nostra economia e la nostra cultura e a dimostrare che la lingua è certo uno strumento di comunicazione ma anche, se non soprattutto, espressione e rappresentazione plastica e concreta della nostra civiltà e della nostra storia.

Domani 4 novembre a Cagliari: un orgia militarista. Senza pudore

Domani 4 novembre a Cagliari: un’orgia militarista. Senza pudore.

di Francesco Casula

Domani a Cagliari, in occasione del 4 novembre,si scateneranno le fanfare della retorica, patriottarda e militarista, con parate militari dei vari corpi dell’esercito, con le viete costose e inutili frecce tricolori. Il tutto legittimato e “benedetto” da ministri e da Mattarella in persona!
Senza alcun pudore. Infatti non c’è proprio niente da celebrare e tanto meno da festeggiare alcuna vittoria. Infatti:vittoria di che e di chi?
Quella guerra fu semplicemente una inutile strage (Nota ai capi dei popoli belligeranti” del 1° agosto 1917, pubblicata in lingua francese!, come la definì il Papa Benedetto XV): una gigantesca carneficina (Enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis).

Qualche dato per ristabilire, con un minimo di decenza la verità storica. Nel 1914, quando la guerra scoppiò, l’Italia non aderì. Il Parlamento infatti era neutralista. La grandissima parte dei parlamentari (liberali, socialisti e cattolici) con motivazioni diverse, convergevano tutti nel rifiuto della guerra. Il re-tiranno sabaudo Vittorio Emanuele III (alias Sciaboletta) con il primo ministro Salandra e il ministro degli esteri Sonnino, per un anno intero “sfiancarono” il Parlamento, di fatto costringendolo a schierarsi per la guerra. E così anche l’Italia partecipò al conflitto, con questa motivazione: liberare le cosiddette terre irredente dallo straniero, una sorta di IV guerra di Indipendenza. Ma era una vera e propria fola o balla che dir si voglia.

Non dissero infatti che, durante un anno intero di trattative (segrete) l’Austria era disponibile a “offrire” all’Italia, purché rimanesse neutrale proprio quelle terre: “e parecchio di più”, scrisse e rivelò Giolitti (il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata sul Quotidiano “La Tribuna”).

Tale balla, ancora oggi viene spudoratamente ripetuta e riportata in tutti i testi scolastici, nonostante da decenni sia stata smentita: ad iniziare, fin dagli anni ’60, dal sacerdote Lorenzo Milani.
E fu dunque guerra come inutile strage e gigantesca carneficina, per usare le definizioni del papa di allora: la sola la Italia ebbe 650 mila morti e 2 milioni tra feriti e mutilati. E insieme alla carneficina di vite umane, la distruzione delle città e la devastazione e della natura.
I 650 mila morti e i più di 2 milioni di feriti e di mutilati erano costituiti soprattutto da contadini, operai e giovani mandati al macello nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto e nelle decimazioni in massa ordinate dagli stessi generali italiani. Carne da macello fornita soprattutto dai meridionali siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali per lo più erano produttivamente impegnati nelle fabbriche di armi e di cannoni.
Sardi soprattutto, almeno in proporzione agli abitanti: alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe infatti contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.

In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.

Come non “sfamerà” la Sardegna la Manifestazione di domani a Cagliari.: boicottarla e partecipare alla contromanifestazione, organizzata dalla CSS e da Sardegna pulita con Santoro in Piazza Garibaldi, è non solo legittimo ma doveroso. Per denunciare la “vergogna” di un’italietta in morienza, che continua con la retorica patriottarda e nazionalista e con le menzogne sulla guerra “vinta”!