Don Abbondio e il ministro Giuli.

Don Abbondio e il ministro Giuli.
di Francesco Casula 
nel capitolo ll dei Promessi Sposi, Manzoni mette in bocca a Don Abbondio “il latinorum”. A Renzo, che vuole sposarsi con Lucia, il prete – minacciato dai bravi di Don Rodrigo perché quel matrimonio non s’ha da fare – per trarsi d’impaccio e per giustificare il suo rifiuto di celebrare il matrimonio in quel giorno e quindi di rinviarlo per fare altri accertamenti, ricorda, ricorrendo al latino, tutti gli impedimenti dirimenti, previsti dal diritto canonico: “error, conditio, votum, cognatio, crimen, vis, orso, ligamen…”. Siamo così di fronte a una vera e propria manipolazione del linguaggio a danno degli umili, in questo caso di un popolano come Renzo. La lingua che don Abbondio utilizza con Renzo infatti è usata e strumentalizzata per imbrogliare. Il latinorum, espressione ormai d’uso comune, tanto da comparire nei vocabolari italiani (latinòrum in Vocabolario – Treccani) diventa strumento di sopraffazione e di dominio sui deboli. Del resto i bravi lo utilizzano per convincere il curato stesso. – mi si dirà: che c’entra il latinorum di Don Abbondio con Giuli? Mutatis mutandis, c’entra! Eccome se c’entra! Nel presentare le Linee guida del suo Ministero, il già giovane ultraestremista di destra, (contestava il missino Fronte della gioventù perché troppo “moderato”!) ricorre a questo lessico, a tali locuzioni verbali: “L’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia. Di fronte a questo cambiamento di paradigma, la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare: l’entusiasmo passivo che rimuove i pericoli della iper-tecnologizzazione, e per converso, l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia. Siamo dunque precipitati nell’epoca delle passioni tristi? No”. “Apocalittismo difensivo…Ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale”. Siamo di fronte a contorsioni intellettualistiche e a arzigogolamenti linguistici e lessicali nonché a tecnicismi barocchi, astratti e incomprensibili. E non solo da parte dei popolani come il Renzi manzoniano ma della stessa maggioranza della popolazione con una media cultura e conoscenza linguistica. E dunque, oggettivamente siamo, come nel caso di Don Abbondio, di fronte alla manipolazione del linguaggio come strumento di dominio e di controllo del popolo e del pubblico in generale. Perché, c’è da chiedersi? A mio parere, il neo ministro ancora “nero”, (ma oggi piu “morbido”, essendosi liberato delle incrostazioni estremistiche giovanili) sia pure in modo goffo, vuole accreditarsi come persona colta, prendendo le distanze ma anche marcando e segnando una forte discontinuità con il suo predecessore Sangiuliano, il ministro delle gaffes, che confonde Londra con New York e Colombo con Galileo. Ma, a mio parere, c’è anche un’altra ragione, forse ancora più corposa e plausibile: un complesso di inferiorità. Pensavate che i ministri meloniani e di destra fossero tutti incolti e incompetenti? Ecco le mie credenziali! E giù citazioni di Hegel, infosfera e ontologia! Mi chiedo: non è che Giuli confonde erudizione e rimasticature scolastiche con “cultura”?
 
 
 
 
 
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QUESTIONE PALESTINESE: genesi storica e genocidio odierno

QUESTIONE PALESTINESE: genesi storica e genocidio odierno
di Francesco Casula
La questione palestinese è di vecchia data ed è insieme problema etnico e politico, nazionale e sociale, con plurimi risvolti internazionali. Essa affonda le sue radici nella travagliata vicenda della Palestina fra le due guerre mondiali. Nel 1945 resta un mandato britannico: in essa abitano 1.250.000 palestinesi e 560.000 ebrei: immigrati questi, in maggioranza fra le due guerre. L’Inghilterra, che inizialmente aveva favorito il flusso migratorio, all’inizio del 1945 adottò una politica restrittiva, per mantenere buoni i rapporti con gli Stati arabi e anche perché non voleva che fossero i Palestinesi a pagare al posto degli europei, per colpe che non avevano commesso. “L’atteggiamento inglese irritò l’opinione pubblica europea e americana, convinta che la creazione di uno Stato sionista in Palestina fosse il giusto indennizzo per le stragi perpetrate dai nazisti nei campi di stermini, e spinse gli ebrei all’azione. Dall’ottobre 1945 le milizie sioniste di autodifesa dell’«Haganà» (difesa) cominciarono ad attaccare i militari inglesi e il movimento terrorista dell’«Irgum» (organizzazione estremista ebraica) moltiplicò gli attentati, il più grave dei quali fu l’esplosione che distrusse l’hotel «King David» di Gerusalemme, sede dell’Amministrazione civile mandataria, in cui persero la vita più di cento persone”1. L’Inghilterra a questo punto, incapace di gestire la situazione, all’inizio del 1947 affida la questione alle Nazioni Unite che nel novembre dello stesso anno approvarono un piano che prevedeva la divisione della Palestina in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo-palestinese e Gerusalemme internazionalizzata, sotto il controllo dell’ONU. Il Piano fu respinto dai palestinesi perché favoriva nettamente gli ebrei. Così il 14 maggio 1948, alla partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele. E’ soprattutto da quel momento che inizia drammaticamente, la “Questione palestinese”. In seguito alla guerra arabo israeliana (1948-49) infatti, lo Stato israeliano vincitore, allarga i suoi confini, “ampliati con Gerusalemme ovest e altri territori che portarono la sua superficie dal 55% al 78% dell’antica Palestina” 2. Di contro “lo Stato palestinese non vide la luce, perché il resto della Palestina (tranne la striscia di Gaza, amministrata dall’Egitto) fu annesso alla Transgiordania, che acquisì così la Cisgiordania e Gerusalemme-est e che nel 1950 prese il nome di Giordania” 3 . Per circa 900.000 palestinesi ci fu l’inizio dell’espulsione e del forzato esodo dalla Palestina ai paesi arabi vicini (Siria, Libano, Egitto soprattutto) e altrove. Verso la metà degli anni ’50 assunse la fisionomia di una vera e propria diaspora e per l’identità dei profughi dispersi nelle varie parti del mondo (1.250.000) e, al tempo stesso, per il loro tenace e sacrosanto attaccamento alla propria identità nazionale e al loro legittimo territorio Da quel momento si infittirono le politiche discriminatorie e repressive da parte del Governo israeliano, sia nei confronti di quelli rimasti che degli esuli sistemati dei campi di raccolta dei paesi arabi ospitanti. Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 l’intera Palestina storica sarà consegnata a Israele e ciò porterà il numero dei profughi palestinesi intorno ai 2.500.000. La storia, relativamente più recente fa parte di una cronaca drammatica: pensiamo solo al massacro di Tal-El Zaatar nell’agosto del 1976 in Libano, con centinaia e centinaia di morti, la maggior parte civili, opera dei partiti libanesi di destra accompagnati da milizie filo-Israeliane. O all’eccidio di Sabra e Shatila, compiuto dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano del sud, con la complicità dell’esercito israeliano, di migliaia di civili, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi. Il massacro avvenne fra le 6 del mattino del 16 e le 8 del mattino del 18 settembre 1982 nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut. Il conflitto continua con l’Intifada del 1987 e anche dopo che Arafat, dal 1969 Presidente dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tribuna dell’ONU annuncia nel 1988, il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e la rinuncia ad azioni terroristiche, accettando la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, concernente la restituzione dei territori occupati dagli israeliani nel 1967. Non se ne farà niente. E servono a poco anche gli accordi di Waschington nel settembre 1993 fra i premier israeliano Yitzhak Rabin e Arafat: con l’autonomia amministrativa dei 900.000 palestinesi nella cosiddetta “striscia di Gaza” (occupata militarmente da Israele nel 1967) e della città di Gerico, situata in Cisgiordania (anch’essa occupata da Israele) e divenuta sede di un governo provvisorio palestinese. E neppure servono gli ulteriori accordi fra OLP e Israele del 1995 che stabilivano le modalità del ritiro dell’esercito israeliano e un governo civile palestinese in Cisgiordania. Tali accordi saranno rifiutati sia dagli integralisti palestinesi di Hamas che dagli integralisti ebraici, con uno stillicidio di sanguinosi attentati: fra cui quello attuato da estremisti religiosi ebraici con l’assassinio del premier Rabin, più disponibile al dialogo e l’elezione a primo ministro de Benjamin Natanyahu, “capo di una coalizione di nazionalisti e religiosi ultraortodossi, ostili alla concessione di una reale autonomia ai Palestinesi” 4 . In seguito all’assassinio di Rabin e con il governo di Natanyahu, in questi 25 anni e più, il dramma palestinese si acuisce: ed è caratterizzato soprattutto da una ulteriore “colonizzazione”: tanto che il numero di coloni israeliani in Cisgiordania avrebbe raggiunto i 475.000, cui vanno aggiunti altri 300.000 coloni a Gerusalemme Est. Ovvero nei territori “palestinesi”. E’ frutto di una ulteriore colonizzazione anche il conflitto fra Israele e Hamas di maggio 2021, con 232 morti Palestinesi e 12 israeliani. Con 75 mila Palestinesi in fuga dai bombardamenti israeliani. Ma una tragedia ancor più immane arriva dopo il 7 ottobre del 2023: in questa data un atto terroristico di Hamas, nella striscia di Gaza uccide 1.194 ebrei e ne prende in ostaggio 243. In seguito a questo massacro si scatena la vendetta israeliana che per un anno intero bombarda uccide e devasta Gaza: a tutt’oggi – ma la strage continua – sono stati uccisi 42 mila Palestinesi (circa la metà bambini – 11 mila e donne – 6 mila. Un vero e proprio genocidio, come afferma la stessa Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite all’Aja. Questa la storia e la cronaca. Per quanto attiene il giudizio, ad iniziare da quello concernente l’ultimo conflitto, faccio mio quello espresso da un intellettuale e artista come Moni Ovadia che ha scritto:” “Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare la pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Nethanyau. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”. E sulle reazioni della comunità politica internazionale e in particolare dell’Italia, Ovadia è netto: “Ci sono israeliani coraggiosi che parlano e denunciano. Ma la comunità internazionale no, ad esempio l’Italia si nasconde dietro la sua pavidità, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ci dovrebbe essere una posizione ferma, un boicottaggio, a cominciare dalle merci che gli israeliani producono in territori che non sono loro”. Soprattutto in questa occasione mai vi è stata discrasia più grande fra gli Stati e le popolazioni: gli uni (mi riferisco al’Europa e agli USA) a difendere Israele e la sua politica genocidiaria, e le altre a solidarizzare con i sacrosanti diritti dei Palestinesi, esprimendo la loro vicinanza con oceaniche Manifestazioni in tutto il mondo, soprattutto di giovani e studenti. Vicinanza e solidarietà che non è mai mancata anche da parte di Papa Francesco che il 7 ottobre ha scritto:” “Sono con voi, abitanti di Gaza, martoriati e allo stremo, che siete ogni giorno nei miei pensieri e nelle mie preghiere. Sono con voi, forzati a lasciare le vostre case, ad abbandonare la scuola e il lavoro, a vagare in cerca di una meta per scappare dalle bombe. Sono con voi, madri che versate lacrime guardando i vostri figli morti o feriti, come Maria vedendo Gesù; con voi piccoli che abitate le grandi terre del Medio Oriente, dove le trame dei potenti vi tolgono il diritto di giocare”. Riferimenti bibliografici 1.Franco della Paruta, Storia del Novecento-dalla Grande Guerra ai nostri giorni, le Monnier, Firenze, 1991, pagine 286-287. 2. Ibidem, pagina 287. 3. Ibidem, pagina 287. 4.F. Della Paruta- G. Chittolini- C. Capra, Il Novecento, Le Monnier, Firenze, 1997, pagina 412.
 
 
 
 
 
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BLINDATI NEL PALAZZO

BLINDATI NEL PALAZZO

di Francesco Casula

210.729 firme su una popolazione di 1.549.832 persone. Una cifra che è più dei voti ottenuti dai due più grandi Partiti nelle scorse elezioni regionali in Sardegna: Pd (94.411) e FdI (93.122).
Un risultato clamoroso. Ancor più significativo se pensiamo che la proposta di legge non era sostenuta dai Partiti e dai Sindacati di Stato. Anzi la osteggiavano.
Un risultato da attribuire interamente alle Sarde e ai Sardi LIBERI. Liberi da incrostazioni ideologiche o da appartenenze a Partiti e camarille.
Un risultato che vale mille elezioni: in cui, spesso i voti sono di scambio: per mance favori e protezioni. Talvolta persino comprati e pagati. O comunque dati per lo più a amici parenti familiari famigli padrini e padroni.
Le decine di migliaia di firme sono state apposte per un Progetto: di libertà e di liberazione.
Le sarde e i sardi hanno voluto esprimere con una scelta libera e consapevole, la denuncia la protesta l’opposizione la resistenza all’assalto lo scempio lo sfregio lo stupro che faccendieri di mezzo Pianeta volevano inferire al territorio al paesaggio all’ambiente all’identità della Sardegna intera.
Le firme sono state raccolte, ubiquitariamente, in tutta l’Isola. Ma segnatamente nella Sardegna rurale, agropastorale, interna. No a caso. Storicamente, ieri come oggi, si rivela la parte dell’Isola più “resistente” e “resistenziale.
I numeri parlano chiaro, scrive sull’Unione Sarda del 3 ottobre scorso Ciriaco Offeddu, intellettuale nuorese di vaglia e attento osservatore delle cose sarde e non solo: “210.729 firme su una popolazione di 1.549.832 persone, quasi il 14% equivarrebbero a livello nazionale a una raccolta di 8.142.000 firme, cioè oltre 8 milioni di firme su una popolazione di circa 59 milioni di italiani, un risultato inimmaginabile…Aggiungo un fatto che deriva dall’esperienza professionale su diversi mercati e progetti. Un risultato del 5% o come si dice in inglese, una “reception” di risposta a una qualsiasi campagna di marketing, è considerata un sogno e ultimamente un’utopia… Il fatto che i sardi abbiano riposto in maniera così diffusa, così profonda e pronta, rappresenta invero un’inversione storica che nessuno può permettersi di non cogliere e dimenticare…”.
Ebbene, i primi segnali della classe politica sarda, in primis della Presidente Todde, sono inquietanti: fanno velina, sottovalutano. Fanno i legulei e gli azzeccagarbugli, riferendosi a regolamenti regole e papiros (meglio sarebbe chiamarli con il loro vero nome: paperalla). Prendono tempo rimandano e ritardano. Fanno i cuncatores, i temporeggiatori: come novelli Quinto Fabio Massimo Verrucoso. Mentre la casa brucia e ci sarebbe bisogno di approvare immediatamente la Proposta di “Pratobello 2024” per tentare di bloccare l’assalto e lo scempio dei mostri eolici, per terra e per mare. Rivendicano, arrogantemente assurdamente e ignorantemente, il monopolio legislativo. Manca solo, alla Presidente, che si autoproclami: l’Etat c’est moi! E la democrazia diretta che fu già cavallo di battaglia, un vero e proprio mantra di 5 stelle cui appartiene la Presidente Todde? Evidentemente per lei carta straccia: da mandare al macero.
Gli è che, come scrive in un suo post Giuseppe Melis Giordano, valente docente nell’Università di Cagliari: “La democrazia diretta non piace a chi detiene il potere.
Quella rappresentativa, opportunamente blindata da legge elettorale antidemocratica (come accade in italia e in Sardegna), permette di fare quel che si vuole. Perché loro sono loro e i cittadini non sono un xxxxx come disse il buon Alberto Sordi.
La verità è che rappresentano se stessi e le loro truppe cammellate”.
Gli è che ancora una volta, a prescindere dalle maggioranze o minoranze, la classe politica è sorda (ma soprattutto cieca), lontana e avulsa dalla società reale, dai suoi bisogni, dalle sue lotte. Mai come in quest’occasione abbiamo notato infatti la separatezza del Palazzo dalla Piazza: pensiamo solo alla sedia “vuota” della Todde in occasione della straordinaria Manifestazione, partecipata festosa e colorata, di migliaia e migliaia di Sarde e Sardi il 2 ottobre scorso a Cagliari, in occasione della consegna delle Firme per “Pratobello 2024”.
Gli è l’invalicabile palazzo di Via Roma, chiuso ai Sardi e blindato, anche simbolicamente e plasticamente rappresenta enfatizza e ribadisce, superbamente, la separazione fra la piazza e lo Stato, fra i dannati della terra e gli addetti ai lavori: i mandarini politici e burocratici. Con una Regione che si è fatta stato e l’autonomia si estenua nei tempi morti della burocrazia e nei giochi simulati dei vassalli che chiedono a Roma gli inutili riti dell’investitura. Continuando con il ruolo di sempre: cortigiani agli ordini e al servizio dei vari Cesari romani.

Una portentosa impresa dei Romani: lo sterminio dei Sardi.

Una portentosa impresa dei Romani: lo sterminio dei Sardi.

di Francesco Casula

In tempi di risorgente “romanità”, favorita anche dai personaggi “neri” che si sono impadroniti del governo e dello Stato, ecco le imprese dei Romani in Sardegna.
Con il dominio romano fu ancora peggio che con i Cartaginesi. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. Negli anni 177 e 176 a.c – scrive lo storico Piero Meloni – un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata dallo storico romano Tito Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.
Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio Sardi venales: Sardi di poco valore e dunque acquistabili e da vendere, a basso prezzo.
Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i Sardi.
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade, cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.
Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre, foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Giovanni Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage – già ricordata – di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.C., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori).
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).

Le imprese dei romani in Sardegna

LE IMPRESE DEI ROMANI IN SARDEGNA (1)

di Francesco Casula

In un momento di risorgente “romanità”, sono andato a spulciare le mirabolanti “imprese” dei Romani in Sardegna.
Certo i romani fecero strade, ponti, palazzi, terme cloache vespasiani e teatri, per transitare velocemente le forze armate e il bottino per ristorarsi, alleggerirsi e divertirsi. E tracciarono le vie per tutti gli invasori successivi
Fecero soprattutto strade e ponti.
Infatti per meglio governare quel territorio secondo le proprie logiche di dominio furono costruite strade carrabili sui tracciati di quelle già realizzate dai Punici, che furono ampiamente collegate con nuove vie secondarie che penetravano nelle zone interne per meglio controllarle e gradualmente assoggettarle.
Nei punti nevralgici che fungevano da cerniera fra i territori sottomessi e quelli ancora nelle mani dei ribelli resistenti, i Romani insediarono presidi nei quali stazionavano guarnigioni di soldati, a fare da argine alle scorrerie di quelli che chiamavano sardi pelliti, nelle pianure coltivate dai contadini assoggettati.
Il sistema stradale che costruirono nell’Isola era certamente funzionale al più efficiente presidio militare nel territorio per meglio difenderlo dai nemici interni ed esterni e per consentire alle legioni di muoversi rapidamente per i loro interventi, ma era utile, per loro naturalmente ma non per i Sardi, anche per agevolare i traffici delle merci e gli scambi commerciali, oltre che per connettere i vari centri abitati tra loro, diversi dei quali presero proprio il nome delle colonne miliarie romane, come gli odierni centri di Sestu, Quartu, Settimo, Decimo.
La merce principale da trasportare è il grano: se nei produce tanto , (per 250.000 persone) : serve anche (o soprattutto) per gli eserciti e la plebe romana. Quella, panto per intenderci, cui distribuire e dare “Panem et ciscenses”, per addomesticarla e cloroformizzsarla, per impedirle di ribellarsi.
Con il grano sardo infatti si riempiranno tutti i granai dell’Urbe e per contenerlo se ne costruiranno altri nuovi: specie nel Campidano e nel meridione dell’Isola.
Ma l’impresa più grande e di cui si vanteranno a Roma, sarà lo sterminio dei Sardi. Un vero e proprio etnocidio o, se volete, genocidio.

CONTROSTORIA DELLA SARDEGNA: dalla Civiltà Nuragica al dominio spagnolo. ( GraficadelParteolla Edizioni)

Fra qualche giorno in tutte le librerie.

CONTROSTORIA DELLA SARDEGNA: dalla Civiltà Nuragica al dominio spagnolo. (Grafica del Parteolla Edizioni).

Dopo una lunghissima gestazione, ho partorito una nuova creatura. E sono contento anzi felice per questo mio lavoro.
Ci sono voluti ben sei anni di ricerche, studio, consultazioni e riflessioni: fra archivi e biblioteche, testi e documenti storici e archeologici ma anche letteratura e poesia popolare, quotidiani, riviste e persino social.
Come anticipato fin dal titolo è una “Controstoria”, dissonante rispetto alla storia ufficiale della scuola e degli stessi Media. Una storia che molti troveranno “fastidiosa” e persino urticante. Perché mette in discussione contesta e smonta vecchie e inveterate certezze, luoghi comuni e pregiudizi diffusi e circuitati ad arte dai nostri nemici: ad iniziare da Cicerone, insultante e diffamatore.
Siamo abituati a testi, anche di livello e specialistici, sulla “Sardegna punica”, “Sardegna romana”, “Sardegna bizantina”, “Sardegna spagnola”. In cui soggetti storici sono sempre gli “Altri”, gli occupanti, i dominatori e, noi Sardi sempre “oggetti”. Passivi marginali e “arretrati” noi, e centrali invece loro: addirittura diffusori e portatori di civiltà e non, come realmente erano, predatori e sanguinari: ad iniziare dai Romani.
Ebbene questa mia nuova opera racconta la “Sardegna, Sardegna” : analizzata, vista, “letta”, interpretata dal punto di vista di un sardo: senza alcun etnocentrismo ma anche senza ombre di subalternità culturale né di complessi di inferiorità o di minoritarismo.
È un ulteriore omaggio che faccio alla mia Terra e ai Sardi tutti, ma soprattutto ai giovani, agli studenti, perché conoscano il nostro passato per lo più sepolto, nascosto, rimosso.
E perché tale passato, una volta dissotterrato e conosciuto diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, come sardi aperti al suo respiro, il mondo; lottando contro il tempo della dimenticanza: quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.
Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo aperto e rispettoso.
In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna, vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali.
Spero altresì che questo mio nuovo lavoro possa servire anche a tal fine.
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La copertina riproduce una foto dell’ingresso del Pozzo di Santa Cristina del grande archeoastronomo francese, Arnold Lebeuf, docente di storia delle religioni presso l’università di Cracovia che scoprì per caso l’esistenza del pozzo sacro nel 1973, in un convegno in Bulgaria, grazie a un articolo di Carlo Maxia ed Edoardo Proverbio.
Scrive Lebeuf il 4 maggio 2011: “Il pozzo nuragico di Santa Cristina? Un osservatorio astronomico perfetto. Un sistema raffinato per calcolare un fenomeno di grande complessità come quello delle fasi lunari e prevedere le eclissi”.
Nel 2005, approdò nell’isola per compiere ricognizioni e studi approfonditi ora raccolti nel volume, “Il pozzo di Santa Cristina, un osservatorio lunare” con oltre duecento pagine, tra testi, calcoli scientifici, splendide foto (in parte realizzate dal fratello Guillaume e Tomas Stanco) che raccontano una tesi sbalorditiva. Tremila anni fa su quell’altopiano a due passi dalla Statale 131, i nuragici edificarono, nell’arco di diversi anni, una elaboratissimo osservatorio. Tale da suggerire conoscenze astronomiche e scientifiche avanzatissime in un’epoca così lontana.
Un fatto probabilmente unico nella nostra geografia occidentale.
E così sul sito archeologico improvvisamente sembrerebbe accendersi una luce e allo stesso tempo aprirsi un enigma. Perché di quel raffinato sapere nuragico non è rimasta traccia? Si deve forse rivedere la tesi che il pozzo fosse dedicato al culto delle acque?
“L’uno non esclude l’altro – risponde Lebeuf – era un tempio delle acque come tantissimi altri nell’Isola”.

LE MALDICENZE CONTRO GRAZIA DELEDDA

LE MALDICENZE CONDRO GRAZIA DELEDDA

di Francesco Casula

Contro Grazia Deledda continuano ad essere circuitate – spesso ad arte e poco interessa se per ignoranza o per mala fede – una serie di contumelie, maldicenze e vere e proprie calunnie.
Due in particolare rivolte alla sua persona.
1. Sarebbe stata una donna “provinciale”, arretrata, con lo sguardo rivolto solo al passato, premoderna.
Niente di più falso.
Nel 1909 accettò la candidatura, per il collegio di Nuoro, del Partito radicale, per le elezioni politiche.
Il Partito radicale era allora il Partito più aperto e “progressista”, specie in relazione ai diritti civili. Tanto che fin da allora sosteneva una legge sul divorzio.
,A questo proposito la Deledda, intervistata nel 1911 dal Quotidiano “La Tribuna” sostenne che il divorzio diventa indispensabile quando i due coniugi sono impossibilitati a convivere. Ce lo ricorda Neria de Giovanni, una delle massime studiose della Deledda (in Grazia Deledda, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2016).
Alla Deledda Neria de Giovanni ha dedicato ben 13 libri.
2. La seconda “maldicenza”, ancor più grave, è l’accusa di essere stata fascista o comunque corriva con il Fascismo, grazie al quale avrebbe ottenuto il Premio Nobel.
Si tratta di un vero e proprio falso storico. In realtà – è sempre Neria de Giovanni a documentarlo – pare che in quell’anno Mussolini avesse segnalato Ada Negri non la Deledda, cui il Premio non arriva comunque improvvisamente. Ha infatti avuto ben “12 candidature negli anni passati, la prima nel 1913 e poi, una all’anno fino al 1927, con l’esclusione del 1916, 1919, 1926”.
E a proposito del suo atteggiamento verso il Fascismo ecco il racconto di Neria De Giovanni nel libro sopracitato (pagine 57-58) :”Dopo il Nobel, a Roma la vuole incontrare Mussolini. Il duce manda una macchina per condurla a Palazzo Venezia nella sala del Mappamondo. Dopo averle donato una sua foto con cornice d’argento e dedica: «A Grazia Deledda con profonda ammirazione», Benito Mussolini, le domanda cosa può fare per lei. Grazia risponde decisa che non vuole niente per sé, ma chiede clemenza per il proprietario della sua casa natale di Nuoro, Elias Sanna, che era al confino benché lei garantisca essere persona onesta sotto tutti i punti di vista… Appena congedata da Mussolini, un funzionario di partito le chiede che cosa volesse fare per il Fascismo, vista la benevolenza del duce e lei risponde asciuttamente: «L’arte non conosce politica».
Come ritorsione ci fu «un consiglio» ai librai di non esporre i libri della neo Premio Nobel. I diritti d’autore sulla vendita dei libri, quell’anno, furono molto più scarsi del previsto per questa motivazione che lo stesso editore Treves svela in una lettera di risposta alla Deledda, seccata per il poco guadagno”.
Bene.
Questa la verità storica sui rapporti fra la Deledda e il fascismo.
Ma, premesso che uno scrittore deve essere valutato per le sue qualità letterarie ed estetiche e non per le sue appartenenze politiche, perché si tira fuori l’improbabile “fascismo” a proposito della Deledda e non si fa cenno a proposito di autori e intellettuali come – e sono solo degli esempi – Ungaretti, Malaparte, Soffici?
Ma soprattutto a proposito di Pirandello? Che aderì al esplicitamente al Fascismo nel settembre 1924, in uno dei momenti di massima crisi di Mussolini e del movimento, dopo il caso del delitto Matteotti?
E aderì attraverso un telegramma pubblicato il 19 settembre del ’24 su “L’impero”, un giornale fascista dell’epoca, con una vergognosa dichiarazione di servilismo?
Ecco il testo del telegramma: “Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio per dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Pnf pregerò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera, Luigi Pirandello”.
L’anno seguente Pirandello sottoscriverà anche il “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Giovanni Gentile.
Ma tant’è: verso i Sardi il dileggio e/o l’autodileggio. Verso gli italiani l’esaltazione e le lodi.
Cando l’amus a acabare?

120 mila firme. ” da non svendere”!


120 mila firme. Da non “svendere”!

di Francesco Casula

Ma forse saranno molte di più. A significare la consapevolezza e volontà di migliaia di sarde e sardi, che liberi da incrostazioni ideologiche e di appartenenza partitica, hanno firmato la Proposta di legge “Pratobello 2024”. Si sono mobilitati, in tutta l’Isola. Ubiquitariamente. Con manifestazioni sit-in assemblee popolari dibattiti discussioni e confronti. Un raro esempio di protagonismo sociale, di democrazia diretta, di partecipazione popolare. Dal basso. Senza mandarini politici o sindacali.
Per difendere la loro Terra: dagli assalti de su furone che benit dae su mare. Per resistere alle ruberie agli sfregi e agli stupri che vorrebbero inferire al nostro territorio, al nostro paesaggio, alla nostra identità, interi eserciti di speculatori o meglio di veri e propri colonizzatori faccendieri affaristi e predatori incalliti invasivi invadenti e sbrigativi, che sono entrati (e i più), vogliono entrare in casa nostra. Senza permesso. Al di fuori e contro la nostra volontà.
Sono predatori venuti da tutto il Pianeta, d’oltreoceano e d’oltralpe, che hanno deciso di mettere a ferro e fuoco, ogni angolo di questa terra promessa, votata al ruolo di genio naturale, trasformata per scelte scalmanate e devastanti in terra di ulteriori servitù: con migliaia di pale eoliche e distese infinite di pannelli cinesi.
Piani di assalto studiato nelle casseforti delle banche d’affari mondiali, congegnato nelle diplomazie europee ma messi a punto “accolti” e “legalizzati” nei Palazzi romani e nel Governo Draghi e oggi, ribaditi dal governo dell’urlatrice amica di Vox. E, ahimè, purtroppo con il beneplacito o comunque, la connivenza e collusione dei “basisti” e vassalli locali.
Vengono in Sardegna per sfruttare e depredare le nostre risorse, deprivandocene: vento e sole, terra e mare. Suolo e sottosuolo. Per devastare manomettere e squassare il nostro territorio: imbruttendo il nostro paesaggio. Violentando l’ambiente. Sradicando gli alberi. Interrando la nostra storia e la nostra cultura e identità etno-antropologica, e linguistica.
Senza alcun ritorno neppure in termini economici e finanziari per la Sardegna e i Sardi. Per produrre energia “verde”, pulita e bella e pronta all’Italia, ma soprattutto al Nord. E consegnare i colossali profitti dei mostri delle Pale e dei campi eolici a imprese e fondi finanziari di mezzo mondo.
Le 120.000 firme sono per loro un avvertimento: non prevalebunt! Non pasarán!
Se le sapremo ben usare e “spendere”. Senza svenderle. Magari in nome dell’unità o della “ragionevolezza”!
Il 2 ottobre, giornata della Consegna delle firme, dovrà essere una ulteriore prova di forza e di unità popolare: per questo Cagliari dovrà assistere quel giorno alla partecipazione di migliaia e migliaia di Sarde e Sardi decisi a manifestare il proprio dissenso e l’opposizione netta a su disacatu e sa titulia de sos colonialistas novos e betzos. In segus non si torrat!

La scuola Italiana

La scuola italiana è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, mascio e del Nord.. Certamente non a una/o sarda/o.

La scuola È una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Spesso anche nei docenti.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea.
Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori.
Di qui la lontananza e l’estraneità di questa scuola. . Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente, né appetibile.
Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore.
Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita.
Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico.
Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica: a muntone. A tal punto che la nostra Sardegna detiene tutti i record negatuvi fra tutte le 20 Regioni d’Italia.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, l’organizzazione scolastica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici. Anche perché la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), certamente influenzano negativamente i risultati scolastici, ma non li determinano.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti i record negativi della scuola in Sardegna permarranno.
E continuare a piangersi addosso e a lamentarci servirà a poco.

Il centralismo statuale? Ha partorito un gatto

IIl centralismo statuale? Ha partorito un gatto.

di Francesco Casula

Un gruppo di intellettuali e sindaci del Pd e dintorni vuole riscrivere lo Statuto sardo. Sarà il tempo a dirci se si tratta di chiacchiere di fine state e strumentali – come troppo spesso nel passato è successo – o di reale volontà politica.
Da parte mia ritengo che chiunque si avventuri a riformulare lo Statuto speciale della Sardegna deve ripartire dalla storia e dal ruolo nefasto del centralismo: di quello del leviatano statale moderno come di quello più antico dei Principi rinascimentali: tesi ambedue a escludere di fatto dal potere i cittadini e la partecipazione popolare.

I Principi rinascimentali prima e i sovrani assoluti poi tendono storicamente a contrapporre l’accentramento alla disseminazione del potere politico proprio del mondo feudale: tale posizione inol¬tre – peraltro costante nella lunga vicenda dello Stato moderno – ¬tende a negare ai cittadini qualsiasi ruolo politico e qualsiasi “po-liticità”, o, quanto meno a restringerla.
Tende cioè ad escluderlo da ogni ruolo effettivo decisionale e di potere, che non si riduca a semplice assenso o a manifestazione e rafforzamento del consenso. In questo modo la partecipazione al potere politico è solo for¬male: il potere reale infatti rimane concentrato nello Stato e nei suoi apparati.
Così i Principi come i Sovrani tendono ad abolire ogni forma di politicità alternativa all’interno dei propri domini, sottraendo man mano ai signori feudali scampoli di potere per affidarli pro¬gressivamente a una burocrazia stipendiata e “competente”,– per quanto è possibile – ma comunque subalterna e dipendente dal “Centro”.
L’attribuzione del potere a una minoranza ristretta – fin dal 1300 ma soprattutto nella successiva fase di sviluppo della socie¬tà e dello Stato moderno – è legata in modo particolare all’esigenza di garantire il “naturale” dispiegarsi degli scambi sul mercato e di controllare nel modo più razionale e funzionale possibile conflitti e tensioni che man mano la società capitalistica – segnatamente dopo la Rivoluzione industriale – indurrà, produrrà e accelererà.
È soprattutto da questo punto di vista che lo Stato moderno assolverà essenzialmente a una funzione del meccanismo econo¬mico del capitalismo e del mercato. Lo stato italiano risorgimentale, nonostante la posizione di Cavour che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self–gouvernement e non il modello francese napoleonico, nasce dentro tale versante, come stato unitario accentrato e centralista.
Il Fascismo porterà a più coerenti conseguenze autoritarie e centralizzatrici strumenti e tendenze che erano già abbondantemente presenti nel regime liberale, giolittiano e prefascista. Di fatto annientando le istanze “regionalistiche” che si affermano nel primo dopoguerra, in modo particolare nelle regioni meridionali (con Gaetano Salvemini e don Luigi Sturzo) ma in specie in Sardegna con la nascita e l’affermazione del Partito sardo d’azione
La Resistenza, per come nasce, si sviluppa e si svolge ha “un carattere intrinsecamente regionalistico” (Leo valiani): pensiamo ai CLN regionali o alle repubbliche partigiane. Il processo di restaurazione moderata, con l’avallo e la complicità della Sinistra – se non addirittura per sua diretta iniziativa, – spazzerà le esperienze regionalistiche.
Ma è soprattutto con il dibattito alla Costituente prima e la vittoria dei moderati nel ’48 che si affosserà definitivamente il “regionalismo” e ancor più il federalismo. A difenderlo Lussu si troverà sostanzialmente da solo: destra, sinistra e centro, in una sorta di union sacrée, lo osteggeranno del tutto.
Non a caso lo Statuto sardo che verrà concesso, nascerà debole e limitato, più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu. Ma c’è di più: persino i flebili miagolii del nostro gattino saranno completamente strozzati. Lo Statuto speciale infatti subirà un processo di progressi¬vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale; sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
La Regione inoltre tenterà di riprodurre la struttura piramidale dello Stato: così al centralismo romano si aggiungerà il centralismo regionale. Con l’ingabbiamento e la marginalizzazione delle Autonomie locali e i Comuni in primis. A denunciarlo è – fra gli altri – un grande storico medievista, Cesare Casula, che scrive:” la Regione ha concentrato nell’istituto «ministerializzato» le funzioni amministrative che Costituzione e Statuto affidano alle autonomie sub-regionali. Sicchè al posto di un sistema «a stella» (sia all’interno delle Regioni sia dello Stato) si è mantenuto un sistema «a piramide»: una grande « piramide» al centro e tante piccole « piramidi», in ciascuna delle venti Regioni italiane”.
Ancora più ficcante la critica di Eliseo Spiga secondo cui la Regione sarda, non può essere considerata una istituzione di autogoverno della comunità sarda. “Non è tale – scrive Spiga – intanto, per la sua struttura organizzativa che è una misera e minuscola fotocopia dello Stato con i suoi assessori come ministeri e il suo accentramento politico-burocratico nel capoluogo cagliaritano. E non lo è perché la Regione non ha un reale rapporto giuridico con i Comuni, rimasti nella sostanziale dipendenza dello Stato, perché la Sardegna continua ad essere presidiata dai prefetti, che sono il simbolo oltre che lo strumento del centralismo statale; e infine perché deve coabitare forzosamente con le succursali provinciali dei Ministeri romani, pronti a pascolare anche abusivamente nei territori regionali”.
Bene: lo Stato sardo indipendente, cui corpose e importanti porzioni della società isolana sembrano guardare viepiù con interesse e simpatia, a mio parere deve essere il più dissimile possibile dallo stato italiano e dalla stessa regione sarda che storicamente abbiamo conosciuto. E non solo per quanto attiene al “centralismo”, o all’intreccio e alla confusione fra attività di governo e attività di amministrazione e gestione, (che comunque non è casuale: serve infatti a trasformare gli Assessorati in veri e propri califfati con cui creare consenso attraverso il clientelismo); ma per quanto riguarda il superamento di una democrazia meramente rappresentativa, istituzionale e istituzionalista, per dare luogo a una democrazia partecipativa e partecipata. O, se si preferisce: a una democrazia, diretta, di base. Dal basso. Anche sulla scia di Emilio Lussu secondo cui occorreva “sviluppare, esprimere e sprigionare le capacità e le forze alla base della società civile”.