Storico militante.
Un ossimoro? Oppure no?
di Francesco Casula
Soprattutto in seguito alla pubblicazione del mio libro “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” sono stato etichettato come “storico militante”. E sono stato criticato in quanto la mia opera sarebbe “intrisa di sardismo”. Dunque di parte. E’ vero e lo rivendico orgogliosamente. Sono di parte:dalla parte del popolo sardo.
Del resto – si licet parare magna cun parvis – Raimondo Carta Raspi, forse il più grande storico sardo, è stato accusato di aver scritto una “Storia della Sardegna” sardista.
Ebbene, a mio parere, non esistono storici super partes. Neutrali. Oggettivi. Spesso chi si ritiene tale è semplicemente un ipocrita. O si vergogna di confessare e riconoscere a quale parte appartiene: magari a qualche fazione, parrochietta, clan, camarilla inconfessabile.

Ciò premesso affermo che:
Le mie concezioni politiche sono strettamente intrecciate con la mia professione di docente e studioso di storia, lingua e letteratura sarda, perché politica e storia, politica e lingua, politica e letteratura sono un unicum inscindibile. I miei scritti sulla storia non mancano di avere riscontri nel presente. Ecco perché mi ritrovo bene nella definizione di “storico militante”.
Grazie alla storia, intesa appunto in senso militante, ho derivato l’idea che sia necessario incorporare il passato per aprirsi all’avvenire. E’ questo il senso del binomio “radici-ali”.
Nella missione civile dello storico c’è sempre il discorso politico.
Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo e un confronto aperto e rispettoso in 40 anni di insegnamento. E che continuo ad avere.
In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali.

Sono nato a Ollolai, un paese della Barbagia, ricco di storia e ne sono orgoglioso perché il paese è il luogo più vicino all’umanità. Mi piace ricordare il poeta rumeno Lucien Blaga, amato dal compianto amico Antonello Satta, che citava sempre un verso bellissimo e universale:”L’eternità è nata nel villaggio”. Devo molto alla civiltà pastorale e ai suoi valori comunitari, perché chi è senza radici perde il “plus valore dell’identità” e non sa più camminare sicuro nel mondo.

Il testo di cui sopra (da “le mie concezioni…) non è mio: io l’ho solo adattato e personalizzato. Ecco il testo originario che è di GIOVANNI LILLIU, l’intellettuale sardo più grande negli ultimi 50 anni, valente archeologo e storico, unico sardo nell’Accademia dei Lincei.

“Le mie concezioni politiche sono strettamente intrecciate con la mia professione di archeologo, perché politica e archeologia sono un unicum inscindibile. I miei scritti sull’archeologia non mancano di avere riscontri nel presente. E la “costante resistenziale sarda” deriva proprio dalle mie riflessioni sul passato. Ecco perché mi ritrovo bene nella definizione di “archeologo militante”.
Grazie alla all’archeologia, intesa appunto in senso militante, ho derivato l’idea che sia necessario incorporare il passato per aprirsi all’avvenire. E’ questo il senso del binomio “radici-ali”.
Nella missione civile dell’archeologo c’è sempre il discorso politico, e ciò credo che sia un’anomalia nel settore archeologico.
Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo aperto e rispettoso In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali.

Sono nato a Barumini, un paesino della Marmilla e ne sono orgoglioso perché il paese è il luogo più vicino all’umanità. Mi piace ricordare il poeta rumeno Lucien Blaga, amato dal compianto amico Antonello Satta, che citava sempre un verso bellissimo e universale:”L’eternità è nata nel villaggio”. Devo molto alla civiltà contadina e ai suoi valori comunitari, perché chi è senza radici perde il “plus valore dell’identità” e non sa più camminare sicuro nel mondo.

(tratto da Premessa, Opere, Giovanni Lilliu, Zonza Editore, a cura di Alberto Contu, Cagliari, 2006, pagine 8-9)

Le 2 Unità d’Italia

Le 2 Unità d’Italia
di Francesco Casula

1. Quella “ufficiale” dei libri di testo scolastici e accademici ma dominante anche nei Media.
2. Quella de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì.

La prima, quella ufficiale è tutta tesa a esaltare le “magnifiche sorti e progressive” dell’Unità e, contestualmente, del processo risorgimentale, delle guerre d’indipendenza, e della “liberazione” del Sud, dall’oppressione borbonica.
La seconda sia nel romanzo di Tomasi di Lampedusa che in quello di Dessì, fortemente critica e smitizzante la visione oleografica e mistificatoria – quando non semplicemente falsa – degli storici codini e neosabaudi.

Iniziamo con il “Gattopardo”. Fu il Risorgimento e con lui l’Unità d’Italia, un processo di “cambiamento” o, addirittura, una “Rivoluzione”?
Per lo scrittore siciliano assolutamente no: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”*. dice Tancredi, nipote di Don Fabrizio, principe di Salina e protagonista del romanzo.
E tutto rimarrà come prima: anzi, i grandi proprietari terrieri continueranno a conservare e detenere i vecchi privilegi economici e sociali. E saranno addirittura nominati senatori del regno.
E per il Sud? Avrà “la libertà, la sicurezza, tasse più leggere”*?
Il contrario.
“Lo stato italiano che si formava sarà rapace…con leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colera. Vedrete, fu la sua non originale conclusione, vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piagere”*.
E i plebisciti?
Un imbroglio: anche i no diventano sì: Dice un personaggio del romanzo che aveva votato no :”Il mio no diventa un sì…ora tutti savoiardi sono!”*.
*Le frasi virgolettate sono tratte dal romanzo “Il gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Edizione conforme al manoscritto del 1957, Ed. La Biblioteca di Repubblica, , Roma, 1975)

Proseguiamo con “Paese d’ombre”.
“Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo”. E l’Italia era “divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati”. E conclude: ”L’unità vera, quella per la quale tanti uomini si erano sacrificati, si sarebbe potuta ottenere soltanto con una federazione degli stati italiani”.

In Sardegna la Quarantena per colera di Honore’ de Balzac, il “negazionista “!

Francesco Casula

Honoré de Balzac, romanziere, critico, drammaturgo, giornalista e stampatore, è considerato il principale maestro del romanzo realista francese del XIX secolo.
Scrittore prolifico, ha elaborato un’opera monumentale – la Commedia umana – ciclo di numerosi romanzi e racconti che hanno l’obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese contemporanea all’autore o, come ha detto più volte l’autore stesso, di “fare concorrenza allo stato civile”.
Fece un breve viaggio, di circa tre settimane, in Sardegna dove arriva nel Marzo del 1838 imbarcandosi da Marsiglia, con la speranza di riattivare le locali miniere d’argento, attraverso lo sfruttamento di giacimenti di scorie abbandonate nell’Isola, presso l’Argentiera nella Nurra, a Nord-Ovest di Sassari. Fallito quel tentativo, ci riprova nel sud della Sardegna, si precipita infatti nella zona di Domusnovas percorrendo in cinque giorni oltre duecento chilometri in diligenza e molti altri a cavallo. Ancora un fallimento.
Il resoconto del viaggio in Sardegna, da Alghero all’Argentiera, da Sassari a Cagliari, e della sua picaresca impresa è contenuto in sette lettere, indirizzate da Balzac alla contessa polacca Ewelina Hanska, che lo scrittore sposerà nel 1850, pochi mesi prima della sua morte, che avverrà il 18 Agosto 1850 a Parigi.
Il manoscritto, oggi conservato all’Institut de France, è stato per la prima volta tradotto in italiano, a cura della Biblioteca di Sardegna che nel 2010 ha anche organizzato una mostra a Cargeghe, (Sassari), attorno al viaggio avventuroso del grande scrittore francese.
Nella quarta epistola, del 2 Aprile, fa sapere alla contessa polacca che “Questa sera alle dieci mi prende una piccola barca, e poi cinque giorni di quarantena ad Alghero, piccolo porto che voi potete vedere nella Carta della Sardegna; è lì che tra Alghero e Sassari, seconda capitale dell’Isola, si trova il distretto dell’Argentiera, dove andrò a vedere delle miniere abbandonate dalla scoperta dell’America”.
Nella quinta spedita da Alghero il 7 Aprile, preannuncia quanto svilupperà nella sesta lettera:”L’Africa comincia qui:ho intravisto una popolazione in cenci, tutta nuda, abbronzata come gli etiopi”, scrive. Oltretutto, “questa popolazione in cenci”, “questi selvaggi”, si lamenta, “non vogliono darci niente”! E così, è costretto, con i marinai, a nutrirsi di una orribile zuppa di pesce! Si lamenta anche con il Governatore di Alghero “che ha dato l’ordine di levare la fune appena il mare si sarebbe calmato; questo loro sistema di quarantena è assurdo, giacché o abbiamo contagiato il colera o non lo abbiamo contagiato. E’ una pura fantasia del Governatore che vuole che si faccia ciò che egli ha detto, come prova della sua autorità e della sua potenza di ogni cosa”.
Si tratta – precisa in Una fallita intrapresa mineraria di Onorato Balzac, lo storico sardo Dionigi Scano – “di Don Andrea Cugia, Maggiore generale nella Regia Armata, salda tempra di soldato che, poco curandosi della grande nation e meno del rinomato romanziere, fece rimuovere la fune e non permise l’ormeggio se non dopo ultimato il periodo della quarantena”.

LA QUINTA INFAMIA DI SCIABOLETTA

La QUINTA INFAMIA DI SCIABOLETTA
9 settembre 1943: la fuga ingloriosa

di Francesco Casula
Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) si macchiò, indelebilmente e ignominiosamente di ben 5 infamie, con conseguenze devastanti per la Sardegna e l’Italia intera.
1.La partecipazione alla 1° Guerra mondiale, caldeggiata dal suddetto tiranno sabaudo. La Sardegna, alla fine del conflitto, avrebbe contato ben 13.602 morti . Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
2. Il fascismo: fu lui a nominare capo del Governo Mussolini.
3. La firma delle leggi razziali.
4. La seconda Guerra mondiale.
5. L’Olocausto: ad iniziare da quello sardo.

Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati.
L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti.
Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
Ne ricordo alcuni, tre che ebbero la fortuna di rientrare dopo la tragedia dei lager:

-GIUSEPPE SASSU, di Bolotana. Padre dell’amico Damiano. Nato il 6 aprile del 1919 verrà chiamato al servizio militare nel 1939 proprio il giorno del suo ventesimo compleanno.
Nel 1943 (si trovava nel fronte greco) verrà internato nei campi di concentramento.
Fortunatamente, finita la guerra, dopo due anni e mezzo di internamento nei campi di concentramento nazisti,ritornerà in Sardegna e nella sua Bolotana dai lager di a Norimberga, alla fine del 1945: pesava 38 kg , quando partì pesava 60.
Nel novembre del 1946 si arruolò in Polizia e rimase fino all’ età di 58 anni. Morirà a Cagliari il 13 agosto del 1989.

MODESTO MELIS,di Gairo, trasferitosi nel 1938 nella nascente Carbonia, per fare l’operaio, finirà a Mauthausen. La sua esperienza sarà raccontata in un libro: “Da Carbonia a Mauthausen e ritorno”. Muore a 97 anni il 9 gennaio del 1917.
SALVATORE CORRIAS, di San Nicolò Gerrei, della Guardia di Finanza, partigiano, deportato a Dachau e poi fucilato a Moltrasio (Como) dai fascisti della RSI. Medaglia d’oro al merito civile alla memoria. E’ riuscito a salvare, muovendosi nella Guardia di Finanza fra la frontiera italo-svizzera, centinaia di ebrei e di perseguitati politici.

Uno invece morì in un campo di concentramento dell’attuale Repubblica Ceca: si tratta di

COSIMO ORRU’ di San Vero Milis. medaglia d’oro della resistenza, morto nei campi nazisti tra il 1944 e il 1945, il cui ricordo resisteva nella famiglia, nei conoscenti e nel nome di una via del suo paese. Da anni il suo Comune ha portato avanti una ricerca sulla sua storia, in collaborazione con l’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ISSRA), tanto da ricostruirne in modo ancora incompleto il viaggio dal suo lavoro, magistrato a Busto Arsizio e membro del CLN, sino al campo di Flossemburg in Germania, quindi in quello di Litoměřice nell’attuale Repubblica Ceca dove poi è morto.