Ricordando Gramsci nell’84esimo anniversario della sua scomparsa.

 
di Francesco Casula
1.Gramsci e il suo primo sardismo. Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna dall’Italia. 2.Gramsci e il colonialismo Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere– ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” . 3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti –ad iniziare dai Quaderni– una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo specifico,organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste:Sardegna, Sicilia, repubblica del Nord e del Sud. Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?> Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile… mi pare insomma che l’Italia peninsulare non possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo” . 4. Gramsci e la Questione Meridionale. Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo. In secondo luogo –per così dire come premessa– Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” . Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti– sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali. Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora. Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali. 5. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927), (….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro. 6. Gramsci e le tradizioni popolari. Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”. In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. 7.Gramsci e il “folclorismo”. Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni conservatrici e reazionarie” legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “. 8. Gramsci e le “pardulas”. In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”. 9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda. Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Conclusione “Tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”:Lettera a Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007 Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
di Francesco Casula
1.Gramsci e il suo primo sardismo. Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna dall’Italia. 2.Gramsci e il colonialismo Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere– ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” . 3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti –ad iniziare dai Quaderni– una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo specifico,organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste:Sardegna, Sicilia, repubblica del Nord e del Sud. Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?> Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile… mi pare insomma che l’Italia peninsulare non possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo” . 4. Gramsci e la Questione Meridionale. Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo. In secondo luogo –per così dire come premessa– Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” . Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti– sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali. Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora. Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali. 5. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927), (….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro. 6. Gramsci e le tradizioni popolari. Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”. In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. 7.Gramsci e il “folclorismo”. Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni conservatrici e reazionarie” legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “. 8. Gramsci e le “pardulas”. In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”. 9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda. Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Conclusione “Tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”:Lettera a Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007 Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI, IL NEGAZIONISMO E LE RESPONSABILITA’ DI ATATURK

 di Francesco Casula
Tra la primavera del 1915 e l’autunno del 1916, per volontà del movimento ultranazionalista dei Giovani Turchi, quasi un milione e mezzo di cittadini armeni dell’Impero ottomano fu sterminato. Si trattò a tutti gli effetti del primo genocidio del Ventesimo secolo e anticipò sinistramente i successivi. Parlarne è stato per decenni, se non proibito, almeno inopportuno per l’ostinato negazionismo storico dei regimi turchi. Ancora oggi il dittatore Erdoğan si ostina a negare quel genocidio. Come sostanzialmente, è stato negato anche dalla stessa storiografia occidentale a iniziare da quella italiana: tutta tesa, come documenterò ad esaltare Atatürk, il principale responsabile del genocidio armeno (e kurdo). “Nel caso armeno, le basi della storiografia ufficiale negazionista della Repubblica turca furono poste da Mustafa Kemal, detto Atatürk,il padre della patria. Il fondatore della Repubblica turca in un primo tempo aveva condannato l’operato del Partito dei Giovani turchi, definendoli assassini e ladri, ma poi, quando gli ufficiali, i governatori, i militari, i gendarmi e l’intera burocrazia genocidaria sono confluiti nel partito repubblicano da lui organizzato per costruire la Turchia del futuro, cambiò atteggiamento. Quattro dei maggiori carnefici erano divenuti suoi ministri e Mustafa Kemal portò a compimento la pulizia etnica degli armeni su tutto il territorio: dei 3 decreti legge emanati dal precedente governo unionista (riforme, deportazione e confisca dei beni degli armeni), ha mantenuto in vita la legge della confisca dei beni abbandonati. Sui passaporti dei pochi armeni sopravvissuti, poi “espulsi”, era scritto: pas possible le retour (non è possibile ritornare). In un celebre discorso politico del 1927, Mustafa Kemal sottolineava la capacità del Paese di rinascere e di uscire rafforzato dalla guerra avendo saputo resistere agli attacchi di “minoranze immorali”, nello specifico della minoranza armena insediata da tremila anni sul territorio e che veniva così separata ed espulsa dalla storia dell’Impero ottomano. Come potevano i turchi dopo la fine della Prima guerra mondiale disconoscere gli “eroi” che avevano dato vita alla repubblica monoetnica, sterminando gli armeni e appropriandosi di tutti i loro beni? Se ci interroghiamo sulle cause che impedirono agli armeni di ricevere giustizia e di dare sepoltura ai loro morti, può servire operare un confronto con la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. L’esercito tedesco fu sciolto, i nazisti messi fuori legge, le nazioni vittoriose ottennero giustizia. Se oggi ci fossero al potere in Germania i nazisti chi potrebbe affermare che c’è stata la Shoah, il genocidio degli ebrei?” (Pietro Kuciukian, saggista di origini armene). Ebbene Mustafa Kemal più noto come Atatürk che dopo la Prima Guerra mondiale e la liquidazione dell’impero ottomano, fondò lo Stato Turco e fu suo Presidente dal 1923 al 1938, è stato il principale persecutore e massacratore del popolo armeno (oltre che di quello kurdo), eppure viene celebrato anche dai “nostri” storici in modo entusiastico come “autorevole Giovane Turco”, “Valoroso ufficiale”, “ammodernatore” del Paese che grazie a lui diventerebbe “laico” e “democratico”. Ecco – ma sono solo degli esempi – alcune “perle”. Secondo questi storici Atatürk “Fece propria la concezione modernistica e laicizzante”(1); “Lottò per l’indipendenza e la democrazia” (2); “Avanzò un notevole programma di riforme: tutte le religioni furono poste sullo stesso piano, si promulgarono nuovi codici, furono occidentalizzati il calendario e l’alfabeto, si abrogarono le tradizionali restrizioni cui erano soggette le donne. Fu promossa l’agricoltura, incentivata l’industria, vennero effettuate molte opere pubbliche” (3); “Fece varare una serie di riforme quali la fine dell’islamismo come religione ufficiale dello Stato, la laicizzazione dell’insegnamento, la promulgazione di nuovi codici, l’abolizione della poligamia, l’adozione dell’alfabeto latino”(4); “Avviò una vasta modernizzazione del sistema politico e dell’intera società ispirandosi ai modelli occidentali”(5); “Creò uno Stato moderno e laico”(6); “Si impegnò in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. L’esperimento riuscì solo in parte, ma ebbe il valore di un modello (sic!) per molti paesi impegnati sulla via della modernizzazione e dell’emancipazione dai vincoli coloniali”(7); “Potè attuare quelle grandi opere di rinnovamento interno che avrebbero trasformato un arretrato paese islamico in uno Stato laico, moderno e indipendente”(8); “Impose una serie di riforme che occidentalizzarono e laicizzarono lo stato e la società, fu introdotto l’alfabeto latino, fu adottato il calendario occidentale” (9). A quest’entusiasmo occidentalizzante ed eurocentrico, osannante il Giovane Turco, xenofobo e precursore delle leggi razziste contro i Kurdi, massacratore degli stessi e della Comunità armena, secondo il criterio della “pulizia etnica”, non sfugge neppure l’Unesco, organismo delle Nazioni Unite che ha il compito di proteggere e sviluppare le varie culture e le lingue del mondo, soprattutto nel campo dell’istruzione. Il 27 Ottobre del 1978 questo Organismo internazionale ha infatti deciso di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Kemal Atatürk considerandolo come “Pioniere della lotta contro il colonialismo”. Nella decisione dell’Unesco si legge che il merito di Ataturk è stato quello di aver svegliato i popoli oppressi per condurli verso la libertà e l’indipendenza. Dio ci liberi da questo benemerito Organismo internazionale. C’è infatti da chiedersi: ma di quale libertà e di quale indipendenza, parla l’Unesco? Di quella forse che la Turchia anche con Ataturk ha riservato agli Armeni e ai Kurdi? Note Bibliografiche 1.Franco Della Peruta, Storia del ‘900, Editore Le Monnier, Firenze 1991, pag.344. 2.Giovanni De Luna-Marco Meriggi- Antonella Tarpino, Codice Storia, vol.3, Il Novecento, editore Paravia, Milano 2000, pag. 107. 3.Antonio Desideri- Mario Themelly, Storia e storiografia, vol.3 secondo tomo, casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1992,pag.593. 4.G. Gracco-A.Prandi- F. Traniello, Le nazioni d’Europa e il mondo, vol.3, Sei editore, Torino 1992, pag. 385. 5.Mario Matteini-Roberto Barducci, Didascalica, Storia vol.3, Casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1997, pag. 44. 6. Aurelio Lepre, La Storia del ‘900, vol.3, Zanichelli editore, Bologna 1999, pag. 1115, paragrafo 51/2. 7.A. Giardina-G. Sabbatucci- V. Vidotto, Guida alla storia, Dal Novecento ad oggi, vol.3, Editori Laterza, Bari 2001, pag. 94. 8.A. Brancati- T. Pagliarani, Il Novecento, Editrice La Nuova Italia, Pesaro 1999, pag. 66. 9. Giorgio Candeloro-Vito Lo Curto, Mille Anni, vol.3, editore D’Anna, Firenze 1992, pag. 389

28 de abrile: sa Die de sa Sardigna SA FESTA NATZIONALE DE SOS SARDOS IN TEMPOS DE PANDEMIA

 
De Frantziscu Casula
Serraos in domo, pro su 28 de abrile, sa Die de sa Sardigna, est a narrer sa Festa nazionale de su populu sardu, non podimus fagher bell’e nudda. Nessi peroe la podimus amentare. “Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!|”. In sa fintzione literària e teatrale ispassiosa e brillante, in “Sa dì de s’acciappa” s’iscritore Piero Marcialis faghet nàrrere gai a Frantziscu Leccis, – masellaju, protagonista de sa rebellìa Casteddàrgia contra a sos Piemontesos – furriende•si a sos de su pòpulu chi, abenenados, cheriant assaltare sos carros, prenos de cada gràtzia de Deus, nche cheriant leare a sos dominadores chi si nche fiant furende “s’arroba” chi si nche cheriant giùghere a Torino. E est custu – a pàrrere meu – su significadu profundu, istòricu e simbòlicu, de su de nch’àere bogadu a foras sos Piemontesos dae Casteddu su 28 de abrile de su 1794: sos Sardos, a pustis de sèculos de rassignatzione, de abitùdine a pinnigare s’ischina, de ubidièntzia, de asservimentu e de inèrtzia, pro tropu tempus abesos a abassare sa conca, sufrende cada casta de prepotèntzias, umiliatziones, isfrutamentu e leadas in giru, cun unu motu de orgògliu natzionale e unu corfu de renes, de dignidade e de fieresa, si ribellant e àrtziant sa conca, adderetant s’ischina e narant: bastat! In nùmene de s’autonomia e duncas, pro “essi meris in domu nostra”. E nche bogant a foras sos Piemontesos e savojardos, non pro resones ètnicas, ma ca rapresentant s’arroddu, sa prepotèntzia e su podere. Ant naradu e iscritu chi s’est tratadu de “cosa de pagu contu”: petzi una congiura ordimingiada dae unu grustu de burghesos giacobinos, illunminados e illuministas, pro nche bogare pagas chentinas de Piemontesos. Non so de acordu. A custa tesi, de su restu at rispostu, cun richesa de datos, documentos e argumentos, Girolamo Sotgiu3. S’istòricu sardu, connoschidore mannu e istudiosu de sa Sardigna sabauda, polemizat cun grabu ma cun detzisione pròpiu cun s’interpretatzione chi ant dadu istòricos filosavoia comente a Manno o a Angius, a su 28 de Abrile, cunsideradu comente chi esseret, apuntu, una congiura. “Simile interpretazione offusca – a pàrrere de Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura –so mentovende semper s’istòricu sardu– potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”. A pàrrere de Sotgiu custa manera de cunsiderare un’eventu cumplessu e prenu de sugestiones, non cunsentit di cumprèndere s’isvilupu reale de s’iscontru sotziale e polìticu nen de cumprèndere sa gàrriga rivolutzionària chi animaiat grustos mannos de sa populatzione de Casteddu e de s’Isula in su mamentu chi si bortaiat contra a sos chi aiant dominadu dae prus de 70 annos. No est istadu, duncas, congiura o ribellismu improvisu: a lu nàrrere est finas Tommaso Napoli, padre iscolòpiu, iscritore ispavillu e popularescu ma finas testimòngiu atentu e atendìbile, chi at vìvidu cussos eventos in prima pessone.. A pàrrere de Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – li narat pròpiu gai- contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – sighit – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

I 100 anni di storia del Partito sardo: 1946,quando propose uno Statuto federalista.

di Francesco Casula
Il 10 gennaio 1946 il Partito sardo d’azione pubblica su “Il Solco” il proprio Progetto di Statuto, che riprende alcune parti della precedente bozza di Gonario Pinna in cui si rifletteva la formazione repubblicana e azionista e lo spessore culturale del suo estensore, inquadrando la Sardegna in una repubblica federale, esplicitamente basata su principi di democrazia, di uguaglianza e di partecipazione.
Particolarmente ampie e corpose nel Progetto risultano le competenze legislative “esclusive”: fra cui Istruzione, Lavoro, Trasporti, Agricoltura, Industria, Commercio nell’interno e con l’estero, Finanze, Igiene e sanità, Pubblica sicurezza, Previdenza sociale, Affari interni, Servizi postelegrafonici. Lavori pubblici, Determinazione delle Circoscrizioni giudiziarie.
Come si può notare, siamo al limite dell’indipendenza!
La struttura amministrativa della Regione è organizzata attraverso delle circoscrizioni o distretti, che sostituiscono le Province: l’abolizione di queste con il relativo Prefetto, storicamente la figura più centralista e statalista che conosciamo, è un ricorrente obiettivo di Emilio Lussu e dei Sardisti.
I Comuni sono dotati di ampie autonomie ed è prevista un’autonomia doganale che sottrae la Sardegna al regime doganale dello Stato .
L’accoglienza da parte di tutti i Partiti italiani sarà del tutto negativa: il PCI, da sempre antifederalista lo osteggia apertamente; la DC è più possibilista ma ritiene che il federalismo non sia praticabile in quanto oramai avversato dagli orientamenti di tutte le forze politiche.
Lo schema di Statuto che prevarrà, si ispirerà a quello elaborato dal democristiano Venturino Castaldi. Presentato alla Consulta sarda e ai deputati sardi eletti alla Costituente, verrà approvato il 29 aprile 1947.
La posizioni sardiste avranno un’influenza minima. Ma c’è di più: il progetto di Statuto approvato dalla Consulta, in sede di Costituente, dai parlamentari italiani sarà viepiù “castrato” e svuotato di poteri.
E nascerà su un crinale biecamente “economicistico”. Alla cultura, alla lingua, alla storia, nostra specificità etno-nazionale, nessun riferimento: nonostante gli avvertimenti di Lussu sulla necessità di sancire l’obbligo dell’insegnamento della lingua sarda nelle scuole in quanto “essa è patrimonio millenario che occorre conservare”. E nonostante i consigli di Giovanni Lilliu che suggeriva ai Costituenti sardi di rivendicare per la Sardegna competenze primarie ed esclusive almeno per quanto riguardava “I Beni culturali”.
E se il PSD’Az, per ricordare e festeggiare il suo centesimo anniversario, avesse un sussulto, culturale e politico, riprendendo il suo vecchio Progetto di Statuto di 75 anni fa?

La Sardegna interrata, “vinta e dominata per sempre” e Ospitone…

 di Francesco Casula
La Sardegna, nei libri scolastici è stata semplicemente abrasa, interrata, sepolta. Mancu lumenada. E la Sardegna degli studiosi, degli accademici, degli storici di professione? Ugualmente. Parlano di Sardegna fenicia, punica,romana, vandala, bizantina ecc. ecc. E la Sardegna dei Sardi? Scomparsa anche nei loro scritti. Parlano sempre di “Altri” non di noi. Sembra che non esista. Pare che i Sardi, siano sempre stati oggetti e mai soggetti di storia intendo: esclusa l’epoca nuragica e quella giudicale: di cui pure poco si parla, si scrive e si conosce. Ma ecco la trave su cui lo storico maniacalmente esterofilo eurocentrico e italiota inciampa: Ospitone. Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani? Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica. E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato. Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132). Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone Ospitone dunque mette in crisi e sconvolge tutta la storiografia ufficiale. Non a caso di lui non si parla mai o quasi mai. O comunque si minimizza il suo ruolo. E’ un personaggio scomodo. Meglio evitarlo.

NO ALLA STATUA DEL TIRANNO

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NO ALLA STATUA DEL TIRANNO

Fine ‘700, inizio ‘800: la repressione sanguinaria dei tiranni sabaudi e il “contributo” infame di Pierre Francois Marie Magnon che l’Amministrazione comunale di Santa Teresa ha vergognosamente “glorificato” con una statua.

1.Bombardamento distruzione e devastazione di BONO.
Fallito lo sfortunato ed eroico tentativo di Giovanni Maria Angioy di liberare la Sardegna dal giogo feudale, nel maggio del 1796 il Viceré creò una commissione militare guidata da Efìsio Pintor Sirigu, detto ”Pintoreddu” che partì da Cagliari per assoggettare con la forza i villaggi in rivolta contro il feudalesimo Tra i villaggi in rivolta vi era anche Bono: paese natale dell’Angioy.
Ecco come racconta il fatto il più grande storico della Sardegna sabauda, Girolamo Sotgiu: “Efisio Pintor accompagnato dai delegati Musso e Guiso, con 900 uomini e 4 cannoni marciò su Bono per una vera e propria spedizione punitiva. Gli abitanti della cittadina del Goceano si erano preparati all’attacco, e se non poterono impedire che gli armati entrassero nella città e la mettessero a ferro e fuoco, persino spogliando le chiese degli arredi sacri, costrinsero però gli assalitori a una precipitosa ritirata, nella quale molti furono gli uccisi e feriti. La repressione fu così spietata – ricorda Sotgiu – che la musa popolare ne ha lasciato testimonianza:
Cantu baiat nos hana brujadu/tancas, binzas e domos e carrelas/et pro cussu Pintore est infamadu/in sa Sardigna e in tota sa costera”. [Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna Sabauda, editori Laterza,Bari, pagine 215-216].

2.Arriva in Sardegna nel 1799 l’ufficiale sabaudo Francesco Maria Magnon, savoiardo di nascita, acceso legittimista e ultrareazionario. Scappa perché “si rifiuta di vivere sotto il governo dei francesi” (leggi di Napoleone che aveva occupato il Piemonte).

3. 1800: Eccidio a Thiesi.
Verso le sette del mattino del giorno 6 ottobre 1500 uomini armati mandati da Sassari dal Conte di Moriana (fratello minore di Carlo Felice) si mossero verso Thiesi, paese simbolo della lotta antifeudale
Il paese, difeso da 800 uomini, si preparò ad impedire il saccheggio con ogni mezzo.
Le truppe inferocite si scagliarono contro i trinceramenti tiesini. Le truppe regolari cessata la resistenza si ritirarono verso Sassari lasciando però il paese in mano ai banditi arruolati per l’occasione con la promessa dell’amnistia, i quali sfondarono gli usci delle case, razziarono tutto ciò che era possibile razziare, usarono violenza sulle donne che cercarono di difendersi con bastoni e spiedi arroventati.
Tutto il villaggio fu tristemente ammantato di lutto, non solo per le violenze e per le grassazioni subite ma anche e specialmente perché nell’eccidio perdettero la vita 14 persone, 34 rimasero ferite (due di queste morirono nei giorni seguenti) e furono incendiate quasi totalmente 18 abitazioni.
Pare che al massacro di Thiesi abbia partecipato il Magnon.

4.Nel 1802 Magnon partecipò alla caccia e alla cattura del rivoluzionario Francesco Cilocco: il rivoluzionario sardo unitosi al sacerdote Francesco Sanna Corda in una rivolta tesa a instaurare una Repubblica sarda indipendente, sotto la protezione della Francia rivoluzionaria.
Su Cilocco pendeva una taglia di 50 scudi. Braccato in tutta l’isola fu catturato il 25 luglio proprio dal Comandante Pier Francesco Maria Magnon: “Solo diressi l’arresto di Cilocco”, scriverà orgogliosamente in una nota al viceré l’8 agosto del 1807, ricordando quei fatti come appartenenti a “un’epoca gloriosa” (Carlo Pillai in “La rivoluzione sulle bocche”, Della Torre Edizioni, Cagliari, 2003)
Grazie a questa dimostrazione di fedeltà alla volontà monarchica di repressione degli atti della rivoluzione sarda Pier Francesco Maria Magnon venne immediatamente nominato Comandante della Torre di Longon Sardo.
L’eroe sardo, una volta catturato fu messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano:
Fu inoltre colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore e cortigianesco come Giuseppe Manno.
Flagellato dal boia e afforcato con sentenza dell’ 11 agosto. il 30 agosto 1802, all’età di trentatré anni, pur disfatto per le torture subite, saliva sulla forca. Il suo corpo, rimasto esposto per diversi giorni, fu decapitato e la testa esposta in pubblica piazza da monito per tutti.
E un Comune sardo può dedicare una statua a un infame che è stato responsabile primo di tale assassinio efferato!