Una vergogna. Anzi:un’infamia.

Una vergogna. Anzi:un’infamia.
di Francesco Casula
Nella Conferenza regionale dell’emigrazione sarda, tenutasi a Cagliari il 28 e 29 aprile scorsi, con 250 delegati dei Circoli sparsi per il mondo, assieme a decine di ospiti provenienti da Europa, Sudamerica, Australia, Canada, Giappone e Stati Uniti, si è consumata una vergogna, Anzi: un’infamia. Le note della banda musicale della Brigata Sassari hanno introdotto la Conferenza con tre Inni: 1. Cunservet Deus su re di Vittorio Angius 2. Dimonios di Luciano Sechi 3. Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli. Tre obbrobri. E comunque tre Inni che in quella Conferenza non avevano niente a che fare. Il primo è un cortigianesco e servile Inno in onore del re e della monarchia. Di grazia: occorrerà pur ricordare agli organizzatori e a chi ha fatto questa scelta che siamo nel 2023 e che nel 1946 la monarchia è stata sconfitta in un Referendum e il re è stato “cacciato”? Il secondo è un inno mistificatorio ambiguo e obliquo, si parla ancora “pro s’onore de s’Italia e de Sardigna”; devono decidersi o con l’Italia o con la Sardegna! E basta con la retorica della Brigata Sassari, divenuta da mito nella Prima guerra mondiale a strumento bellicista e di guerra oggi. Il terzo Inno cantato è stato “Fratelli d’Italia”. In Sardegna, in una Conferenza di emigrati sardi, per di più proprio nel giorno di Sa Die, che ricorda e celebra la cacciata dei Piemontesi, si canta l’Inno italico? Peraltro un Inno che è brutto, bellicista, militarista e militaresco,ultraretorico e che riassume una “storia” falsa e falsificata: “Dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano; oggn’um di Ferruccio ha il core e la mano; I bimbo d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri sonò”. Mi chiedo: che c’entrano i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze, Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci, con l’Italia, il suo “Risorgimento”, la sua Unità? C’entrano un’acca. Viene invece escluso e non viene cantato l’Inno sardo “Su patriota sardu a sos feudatarios”, noto anche come “Procurade ‘e moderare” di Francesco Ignazio Mannu. Peraltro l’Inno ufficiale della Regione sarda! Ricordo agli smemorati che il Presidente della Regione con decreto n. 49 del 24 aprile 2019 ha dato attuazione a quanto stabilito dalla Legge Regionale n. 14 del 4 maggio 2018 che riconosce il componimento melodico tradizionale “Su patriota sardu a sos feudatarios”, Inno ufficiale che “contribuisce a sottolineare i caratteri dell’autonomia speciale riconosciuta dalla Costituzione alla Sardegna e ad accentuare il senso di appartenenza dei sardi a un comune territorio, avendo come obiettivo il rispetto, la cura e la valorizzazione delle peculiarità che lo contraddistinguono e lo sviluppo delle potenzialità che possiede”. Questo scrivono gli stessi che il 28 aprile hanno preferito Inni reazionari, monarchici e bellicisti invece che l’Inno “autonomistico” da loro formalmente scelto e in realtà proditoriamente tradito. Vergogna Regione! Agli emigrati hai proprio dato un bel messaggio di autonomia e identità sarda!
 
 
 
 
 
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Verso il 28 aprile: la Festa Nazionale del Popolo Sardo.

Verso il 28 aprile: la Festa nazionale del popolo sardo

di Francesco Casula

Per ricordare lo scommiato dei Piemontesi è nata ”Sa Die, giornata del popolo sardo” –ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi” – con la legge n.44 del 14 Settembre 1993. Con essa la Regione Autonoma della Sardegna ha voluto istituire una giornata del popolo sardo, da celebrarsi il 28 Aprile di ogni anno, in ricordo – dicevo – dell’insurrezione popolare del 28 Aprile del 1794, ovvero dei “Vespri sardi” che portarono all’espulsione da Cagliari e dall’Isola dei piemontesi e di altri forestieri ligi alla corte sabauda, compreso lo stesso inviso Viceré Balbiano.
Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una Festa nazionale sarda, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo.
Il problema è quello di trasformarla in una occasione di studio –soprattutto nelle scuole – della storia e della cultura sarda, di confronto e di discussione collettiva e popolare, per capire quello che siamo stati, quello che siamo e vogliamo essere; per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione; per batterci per una Comunità moderna e sovrana, capace di mettere in campo l’orgoglio e il protagonismo dei Sardi, decisi finalmente a costruire un riscatto ovvero un futuro di prosperità e di benessere, lasciandosi alle spalle la rassegnazione, la lamentazione, il piagnisteo e i complessi di inferiorità e avendo il coraggio di “cacciare” i “nuovi piemontesi” o romani o milanesi che siano, non meno arroganti, prepotenti sfruttatori e “tiranni” di quelli scommiatati da Cagliari il 28 Aprile del 1794.
“Fu un momento esaltante – ha scritto Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante è oggi il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato dunque: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza. Un passato che – solo apparentemente perduto – occorre ritrovare perché è durata, eredità, coscienza. In esso si innesta infatti il valore dell’Identità, non statico e chiuso, non memoria cristallizzata ma patrimonio che viene da lontano e fondamento nel quale far calare nuovi apporti di culture, di vite individuali e sociali che determinano sempre nuove identità.
Il messaggio di Sa die è rivolto soprattutto ai giovani e l’occasione storico-culturale è destinata prima di tutto agli studenti, perché acquistino consapevolezza di appartenere a una storia e a una civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti: i giovani e non solo.

Quale 25 Aprile

QUALE 25 APRILE

di Francesco Casula

Per i morti, per tutti i morti non possiamo che nutrire e riversare tutta intera la nostra pietas. E la pietas cristiana da parte dei credenti.
Ma per favore senza metter sullo stesso piano oppressi e oppressori, vittime e carnefici; chi si batteva per la libertà e chi invece ce la voleva togliere ed eliminare.

Tener viva la memoria, la verità, significa ricordare a chi lo dimentica e a chi non l’ha mai saputo cos’è stato il fascismo, compreso il suo epilogo con la RSI (Repubblica sociale italiana di Salò): fu uno stato fondato sulla tortura, sulla persecuzione razziale e politica, sulla distruzione fisica degli avversari, sulla delazione: né sessanta né cento anni bastano a cancellare tutto questo.

Né basteranno per farci dimenticare i ben 900 campi di sterminio e di concentramento disseminati soprattutto in Germania e nell’Europa orientale ma anche in Italia (Fossoli, Bolzano, Trieste, Borgo San Dalmazzo-Cuneo), con milioni di innocenti sterminati.

Si dirà che è roba vecchia, consegnata ormai al passato remoto; che il fascismo è morto e dunque serve solo all’antifascismo per vivere di rendita, parassitariamente.

Può darsi.
Ma pensiamo veramente che siano morte e sepolte le coordinate ideologiche, culturali e persino economiche e sociali che hanno fatto nascere, alimentato e fatto crescere e vivere il fascismo? Pensiamo sul serio che la cultura – o meglio l’incultura – della guerra e della violenza, del sopruso e della sopraffazione, dell’esclusione e dell’intolleranza, dell’ipocrisia e del perbenismo, del servilismo e dell’informazione addomesticata e velinara, sia morta per sempre?

E gli inquietanti fenomeni – soprattutto giovanili – di rinascita e affermazione di Movimenti che si ispirano al nazifascismo? Roba vecchia anche questa o drammaticamente nuova e attuale?

Si dirà che comunque il Fascismo ha realizzato opere meritorie e importanti, ad iniziare dalla Sardegna: ma, di grazia, quali?

A tal proposito, ecco quanto sostiene nella sua bella e interessante “Storia della Sardegna” (pag.914) Raimondo Carta-Raspi :”Anche della Sardegna appariranno, in libri e riviste, descrizioni e fotografie delle ”opere del regime” durante il ventennio. Favole per l’oltremare, per chi non conosceva le condizioni dell’Isola. V’erano sempre incluse la diga del Tirso, già in potenza dal 1923, le Bonifiche d’Arborea, iniziate fin dal 1919 e perfino il Palazzo comunale di Cagliari, costruito nel 1927. Capolavoro del fascismo fu invece la creazione di Carbonia, per l’estrazione del carbone autarchico, che non doveva apportare alcun beneficio all’Isola e doveva costare centinaia di milioni e poi miliardi che tanto meglio si sarebbero potuti investire in Sardegna, anche per la trasformazione del Sulcis in zona di colonizzazione agraria…più volte Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da rateare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse”.

Che si continui dunque nella celebrazione del 25 Aprile come Festa della Liberazione, ma soprattutto come momento e occasione di studio, di discussione sul nostro passato che non possiamo né rimuovere, né recidere né dimenticare.
Dobbiamo anzi disseppellirlo, non per riproporre vecchie divisioni e steccati ormai anacronistici e superati ma per creare concordia e unità: però nella chiarezza: evitando dunque il pericolo e il rischio, corso spesso negli anni, di ridurre il 25 aprile a rito unanimistico o, peggio, a semplice liturgia celebrativa. Magari accompagnato dal tricolore e dall’orrendo bolso e vieto Inno guerresco di Fratelli d’Italia.

Gli ASSASSINI DI SA DIE E L’IGNORANZA . ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA

GLI ASSASSINI DI SA DIE
E L’IGNORANZA.
ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA

di Francesco Casula

Sono molti i becchini di Sa Die de sa Sardigna. Le istituzioni regionali e i Partiti in primis. Ora ci si mette anche la Stampa: in un quotidiano on line Cagliari-Casteddu, leggo che sarebbe “una inutile festa”.
Mi auguro che sia semplice ignoranza: ovvero che non conoscono (o non hanno capito):
1. Il significato storico.
Intanto occorre chiarire che non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione, lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

2. Il significato simbolico.
I Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .
di Francesco Casula
Ricorre oggi il quarantottesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell’anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna. In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina. Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene. Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere – come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente). Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano. Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente. Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”. L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi. Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie. La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.
 
 
 
 
 
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SA DIE DE SA SARDIGNA

SA DIE DE SA SARDIGNA

di Francesco Casula

Pro amentare sa dispidida de sos Piemontesos est nàschida ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma deo prefèrgio a li nàrrere “Festa natzionale de sos Sardos” – cun sa lege n.44 de su 14 Cabudanni de su 1993. Cun issa sa Regione Autònoma de sa Sardigna at chertu istituire una die de su pòpulu sardu, de tzelebrare su 28 de Abrile de cada annu, in ammentu – fia narende- de sa rebellìa populare de su 28 de Abrile de su 1794, est a nàrrere de sos “Vespri sardi” chi nch’ant giutu a s’espulsione dae Casteddu e dae s’Isula de sos Piemontesos e de àteros istràngios fideles a sa corte sabauda, inclùdidu su Vitzeré Balbiano chi nemos podiat bìdere.
Su problema chi oe tenimus in dae in antis, a livellu mescamente culturale, no est tantu su de torrare a pònnere in discussione sa data o, peus, su balore matessi de una “Festa natzionale sarda”, ma de non nche la torrare a unu ritu ebìa, a una vacàntzia iscolàstica ebia o a un’eventu petzi folclòricu e de festa.
Su problema est su de la cambiare in un’ocasione de istùdiu – mescamente in sas iscolas – de s’istòria e de sa cultura sarda, de cunfrontu e de discussione collettiva e populare, pro cumprèndere su chi semus istados, su chi semus e cherimus èssere; pro difèndere e isvilupare s’identidade nostra e sa cussèntzia nostra de pòpulu e de natzione; pro gherrare pro una Comunidade moderna e soverana, chi siat bona a pònnere in campu s’orgògliu e su protagonismu de sos Sardos, detzisos, in fines, a otènnere unu riscatu, o siat unu tempus benidore de ditzosidade e de bonistare, lassende•si in palas sa rassignatzione, sas lamentas, sos prantos e sos cumplessos de inferioridade e aende s’ànimu de “nche bogare” sos “Piemontesos noos” o romanos o milanesos chi siant, non prus pagu barrosos, prepotentes isfrutadores e “tirannos” de cussos dispididos dae Casteddu su 28 de Abrile de su 1794.
“Fu un momento esaltante – at iscritu Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Semper e cando, lassende a un’ala totu custu e s’eventu particulare, su chi contat oe est su balore simbòlicu de autocussèntzia istòrica e de fortza unificante. Perunu torròngiu in palas nostàlgicu o risentidu cara a su tempus coladu, duncas: ma su tempus coladu sepultadu, cuadu, rimòvidu, si tratat, in antis de totu, de nche lu tirare dae suta de terra e de lu connòschere, a manera chi diventet fatu nou chi intèrrogat s’esperièntzia de su tempus atuale, pro pònnere fronte a su tempus presente in s’atualidade drammàtica sua, pro definire un’orizonte de sensu, pro nos situare e pro abitare, abertos a s’alenu suo, su mundu, gherrende contra a su tempus de s’ismèntigu. Unu tempus coladu chi – pèrdidu petzi in aparièntzia – tocat de l’agatare ca est durada, eredidade, cussèntzia. In issu, infatis, si inferchit su balore de s’’Identidade, no istàticu e tancadu, non memòria cristallizada ma patrimòniu chi benit dae largu e fundamentu in ue fàghere falare aportos noos de culturas, de bidas individuales e sotziales chi determinant semper identidades noas
Su messàgiu de Sa die est diretu mescamente a sos giòvanos e s’ocasione istòrico-culturale est destinada in antis de totu a sos istudentes, pro chi otèngiant sa cunsapevolesa de apartènnere a un’istòria e a una tzivilidade e de ereditare unu patrimòniu culturale, linguìsticu, artìsticu e musicale, ricu de siendas de elaborare e cunfrontare cun esperièntzias e propostas de unu mundu prus mannu e cumplessu. In ue, moende dae raighinas seguras e frunidos de alas fortes, potzant bolare in artu: sos giòvanos e non solu .

Intervista di Anna Maria Turra (Costa smeralda online) a Francesco Casula .

Intervista di Anna Maria Turra (Costa smeralda online) a Francesco Casula .
Francesco Casula, storico e professore, sostiene da tempo che i Savoia con la loro politica abbiano impresso una direzione che ha condizionato negativamente la storia della Sardegna e propone una riflessione che crea un movimento di pensiero per cambiare i nomi delle vie delle piazze a loro dedicate. Nel suo libro Carlo Felice e i tiranni sabaudi, documenta in modo rigoroso la politica dei Savoia, sia come sovrani del regno di Sardegna, dal 1726 al 1861, sia come re d’Italia in carica dal 1861 al 1946. Il libro vuole essere uno strumento di informazione nelle mani di tutti ma le numerose richieste di presentazione provenienti dalle comunità sarde, da pro loco e scuole superiori, da parroci e pubbliche amministrazioni, dimostrano che l’interesse è, oltre che trasversale, prevalentemente femminile e di molti giovani. Il professore si accorge che, dalle domande e dalle obiezioni del pubblico, vi è una diffusa volontà di esortare la decisione di rivedere la toponomastica ancora abbondantemente popolata dai Savoia i quali campeggiano, omaggiati in statue, piazze e vie a dispetto delle loro malefatte e persino delle infamie da loro commesse. Una per tutte: le leggi razziali. Il volume, rivolto in modo specifico agli studenti, ha un carattere divulgativo per fare conoscere una storia o, come ama definirla il professor Casula, una contro storia poco conosciuta, una versione dei fatti secondo lui carente, a tratti assente se non addirittura mistificata dalla storiografia ufficiale. Basti pensare al Risorgimento e all’Unità d’Italia che vengono presentati come espressione delle magnifiche e progressive sorti nazionali. Mentre vengono dimenticati i drammi e le tragedie che hanno fortemente caratterizzato questi anni, un esempio ne è la creazione della Questione Meridionale ancora oggi più che mai scottante. Per quanto riguarda nel dettaglio la Sardegna, la presenza dei sovrani sabaudi, secondo il professore, con le loro funeste scelte in campo economico, politico, culturale, ritardò lo sviluppo di quasi cinquant’anni con conseguenze non ancora compiutamente pagate. E a condividere questo convincimento è anche lo storico Girolamo Sotgiu, uno tra i più grandi conoscitori della Sardegna sabauda. Storici, scrittori e intellettuali, di cui si riportano nel testo valutazioni e giudizi nei confronti dei re sabaudi, spesso sono filomonarchici e filosabaudi, come per esempio Pietro Martini. Dunque, non solo loro avversari, come Mazzini o Giovanni Maria Angioy, eppure tutti convergono in un severissimo giudizio. In particolare, convengono sulla qualità discutibile del regnante Carlo Felice sostenendo che fu certamente il peggiore fra i sovrani sabaudi. Egli infatti da viceré, come da re, fu crudele, feroce e sanguinario, per dirla in lingua sarda incainadu, famelico, gaudente e ottuso cioè tostorrudu. E ancora fu, secondo le definizioni dello storico sardo Raimondo Carta Raspi, più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che uomo dappoco, parassita, gretto come la cifra della sua amministrazione. Questo brano è tratto da Buongiorno Sardegna: da dove veniamo, per la collana del 2013 dell’Unione Sarda, La Biblioteca dell’Identità e dà uno spaccato intenso della realtà del tempo. “Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi. Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza. E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo.” La penna è quella di Giuseppi Dei Nur, pseudonimo che cela un rigoroso saggista e un efficace narratore; il professor Francesco Casula giura di non aver niente a che vedere con lui intanto che, sorridendo, conta la centoventicinquesima presentazione di novembre a Carbonia della sua ultima fatica e insiste col precisare: «A partire dalla scuola, la storia della Sardegna è stata interrata se non addirittura mistificata. Dobbiamo iniziare a raccontare la verità, dire quello che è stato il dominio dei Savoia e, come sostiene Vincenzo Pillai, se c’è un atto sovversivo è proprio questo: raccontare una nuova e più veritiera versione della storia. Non che gli altri sovrani fossero teneri, ma i Savoia furono i peggiori in assoluto, basti pensare che prenderanno possesso della Sardegna nel 1720 ma non si faranno mai vedere per poi comparire, Carlo Felice e il fratello da viceré, solo quando Napoleone li estrometterà dal Piemonte in esilio: staranno sull’isola, due corpi a peso morto, parassiti a carico della popolazione sarda e non si faranno scrupolo di applicare nuove gabelle. Senza alcun pudore infatti infliggeranno ai sardi nuove tasse e solo per poter permettere alla regina di acquisire nuovi gioielli, chiariamo alle giovani generazioni questa verità storica.» Francesco Casula è inoltre autore di una collana che si chiama Uomini e donne illustri le contro storie, in cui si delineano personalità famose della Sardegna: Grazia Deledda che è dell’area nuorese viene tratteggiata nella variante logudorese o Sigismondo Arquer, una sorta di Giordano Bruno, considerato eretico dall’inquisizione, il cui reato maggiore fu quello di rivendicare la libertà di pensiero e di coscienza e che fu poi bruciato martire a Toledo, siccome è nato a Cagliari viene descritto nella variante campidanese. La collana poi riversa tutte le monografie in un unico volume già pubblicato che le raccoglie tutte. La ferocia dei Savoia viene documentata e descritta con numerosi particolari. Esercitarono una violentissima repressione di tipo militare, venivano impiccati i nemici, cioè i filoangioini che organizzavano le sommosse, il corpo veniva sezionato in quattro parti poi bruciato spargendo le ceneri al vento perché non rimanesse niente. Le teste venivano messe in una gabbia di ferro ed esposte alle porte della città perché fossero da monito a tutta la popolazione. Il regno viene loro regalato dalle potenze vincitrici nella guerra di secessione spagnola mentre i Savoia, invece di essere riconoscenti poiché essendo duchi non avrebbero mai avuto diritto a regnare, ciecamente praticarono efferatezze inaudite. Tutto questo viene dettagliato nel libro che conta 7mila copie vendute e una ristampa prevista dalla Casa editrice Grafica del Parteolla. Cura la prefazione Giuseppe Melis Giordano docente marketing all’università di Cagliari. Il professor Casula sostiene: «Hanno fatto cose buone come la strada 131, che Carlo Felice ha dedicato a se stesso ma in realtà l’idea è del fratello Vittorio Emanuele I, ed è pagata con il sangue dei sardi.» Esortando i suoi studenti a guardare la foresta, non il singolo albero.
 
 
 
 
 
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SU COSTUMENE = L’abito tradizionale sardo (e non “costume”!)

SU COSTUMENE = L’abito tradizionale sardo (e non “costume”!)
di Francesco Casula
Viene indossato, opportunamente nelle Feste, ad iniziare da quelle Pasquali. Ma parlerò dell’abito tradizionale delle donne, quello degli uomini ha avuto sempre meno importanza. Fra la donna e il suo vestito tradizionale in Sardegna vi è stato un grande rapporto, profondo e significativo, quasi sacrale: esprimendo nella semantica, nelle forme e nei colori del vestiario, la memoria della propria esistenza. La donna infatti segna e comunica con il proprio vestito gli avvenimenti che caratterizzano la propria vita e quello del clan di appartenenza, rappresentando l’abito, in definitiva, il “dipinto” della propria esistenza ed essenza, in un articolato sistema ben codificato. Colorando le proprie vesti, attraverso precisi codici linguistici e semantici, le donne segnano tutta la speranza, la felicità, la preoccupazione, il dolore, l’afflizione e il lutto propri e delle loro comunità. Il massimo grado di lutto veniva raggiunto con l’abito da vedova, completamente tinto in nero. A significare il profondo significato del simbolismo cromatico. E con il “nero” (simbolo di lutto) vi sono altri due colori fondamentali, ugualmente profondamente simbolici e significativi della stessa condizione umana: il rosso e il bianco. Il rosso era il colore più importante (e prevalente in moltissimi abiti tradizionali sardi). Simboleggiava in tutta la sua potenza, l’energia e la salute. Ed anche la fertilità e la sensualità, la forza e l’autorità, il coraggio e la libertà: non a caso è sempre stato simbolo autentico delle rivoluzioni. Esprimeva il sangue che scorre nelle vene, che dà la vita. Ed è anche il colore del potere: di re ed imperatori ma anche delle autorità religiose: vescovi, cardinali. Il bianco invece (in genere della camicia) ha un ruolo neutro ma anche catartico, purificatorio e liberatorio. Di pulizia e purezza. Oltre ai colori, grande simbolismo esprimevano i ricami con motivi geometrici: esprimevano infatti profondi significati magico-religiosi: il potere di allontanare le forze del male. E poiché si pensava che le forze del male attaccassero le persone nei punti vitali del corpo, passando attraverso le aperture dell’abito, nei bordi e negli orli, occorreva che i polsini, il collo, i bordi del corsetto, le maniche, le spalle fossero le parti più ricamate e decorate. Essendo infatti le zone più vulnerabili, bisognava allontanare gli spiriti maligni con raffinati ricami, fatti di motivi geometrici che rappresentavano per la mitologia antica, i sistemi più efficaci, Certo oggi non è più così: gli antichi vestiti, preziosi per le loro lavorazioni, per i gioielli che spesso li accompagnavano, per la loro bellezza, sono ormai visti solo come opere d’arte e non più come semplici lavorazioni artigianali. Tessuti e ricami costituiscono per la loro minutissima manifattura e i preziosi materiali utilizzati, un considerevole patrimonio economico. E le donne che indossano queste vesti si possono oramai apprezzare solo nelle manifestazioni religiose o turistiche o paesane: senza peraltro esprimere più segni e significati, simboli e metafore. Siano esse di allegria o di lutto, di speranza o di disagio.
 
 
 
 
 
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FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI E LA SETTIMANA SANTA

FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI
E LA SETTIMANA SANTA

di Francesco Casula

La Chiesa cattolica, in occasione della Settimana santa, nei suoi riti (e nelle sue preghiere) attinge a piene mani dall’Opera di Fra Antonio Maia da Esterzili. Senza che mai venga nominato o, semplicemente ricordato. E’ stato infatti sottoposto a una damnatio memoriae vergognosa: non solo da parte della Chiesa ma da parte di tutta la cultura italiana ma anche sarda.
Fra Antonio è il fondatore della sacra rappresentazione in Sardegna (1664-1727) con una grande Opera letteraria che rimase “sepolta” nella Biblioteca universitaria di Cagliari per circa tre secoli (dal 1688 al 1959): e gli studiosi, dunque, per secoli a ripetere la litania secondo la quale la lingua sarda non aveva “prodotto” testi teatrali!
Tutto ciò che sappiamo dell’autore lo ricaviamo da una annotazione contenuta nel registro dei frati Cappuccini della Provincia di Cagliari, conservato presso l’Archivio della Curia provinciale dei Cappuccini di Cagliari (vol. II, 1695-1802). Da essa risulta che era presente nel Convento di Sanluri (Cagliari) nel Novembre del 1668 e che morì all’età di 82 anni, il 26 Aprile 1727, dopo averne trascorso 57 di vita religiosa.
Dobbiamo dunque dedurre che nasce nel 1644 e a Esterzili, sulla base della consuetudine vigente soprattutto negli ordini religiosi, secondo i quali quando si entrava in una Congregazione, i novizi abbandonavano il nome secolare e se ne assumevano un altro di devozione, in onore di qualche santo, seguito generalmente dal nome del paese di origine, in questo caso appunto Esterzili.
Da alcuni accenni nelle cronache dell’Ordine dei Cappuccini si desume inoltre che trascorse un periodo della sua vita a Iglesias e che certamente visse anche a Cagliari. Non è improbabile tuttavia – scrive Sergio Bullegas uno dei massimi studiosi di Fra Antonio – che sia stata fatta sparire di proposito ogni traccia del suo cognome secolare e della sua biografia a causa di alcuni fatti imprecisati e incresciosi in cui fu coinvolto. Si parla infatti – nel Registro dei Cappuccini cui si è già fatto cenno – che egli si rese colpevole di un crimine turpissimo (probabilmente ebbe un rapporto sessuale con un fraticello).
Di qui la dimenticanza, per secoli, dell’Autore e delle sue opere. Solo nel secolo XIX si inizierà a parlare di lui, grazie a Giovanni Siotto Pintor, storico e letterato sardo, che ne scriverà nella sua Storia letteraria di Sardegna (vol. IV), ma tratto in inganno dal frontespizio del manoscritto, cadde in un grossolano errore affermando che si trattava di opere in spagnolo.
Nel frontespizio in alto del manoscritto – che si trova attualmente presso la Biblioteca universitaria di Cagliari – è infatti scritto in castigliano, con grossi caratteri: “Libro de Comedias escripto por Fray Antonio Maria de Estercyly sacerdote capuchino en Sellury 9bre a 18 año 1688” (Libro di Commedie scritto da Fra Antonio Maria di Esterzili, sacerdote cappuccino in Sanluri il 18 Novembre 1668).
In realtà le sue “Comedias” (Commedie, drammi) contenute nel manoscritto sono scritte in una bella lingua sarda-campidanese con le didascalie in castigliano, la lingua dominante e ufficiale dell’epoca, in Sardegna.
Il manoscritto che conserviamo contiene: La Natività, La Passione, La Deposizione, più 550 versi, prevalentemente ottonari ed endecassillabi, strutturati in quartine e ottave, intitolati Versos que se rapresentan el Dia de la Resurrection (Versi che rappresentano il giorno della Resurrezione). Vi è inoltre un frammento, costituito dal Prologo e dall’incipit del primo atto di un’altra rappresentazione intitolata Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria señora nuestra als çielos (Grande commedia sull’Assunzione di Maria vergine nostra Signora nei cieli).
A questo punto il manoscritto si interrompe – quasi fosse stato smembrato – e seguono Excomunicationes in diae coenae Domini, (Scomuniche nel giorno della cena del Signore) un compendio di disposizioni ecclesiastiche e canoniche, aggiunte probabilmente durante la rilegatura ottenuta con l’uso della pergamena.
Di tutte le opere di Fra Antonio Maria, contenute nel manoscritto, è stata edita solo la Passione, nel 1959.

DEMITIZZARE CICERONE I sardi per lui sono “negri”

 
 
 
Francesco Casula
DEMITIZZARE CICERONE I sardi per lui sono “negri”.
di Francesco Casula
Cicerone è il personaggio della “romanità” più osannato ed esaltato. Non solo come abbagliante oratore ma come espressione di saggezza e maestro di umanità. Persino oggi in un corsivo dell’Unione sarda, di certo Tacitus, c’è un elogio immane. Occorrerebbe invece iniziare a fargli le pulci: come uomo intendo. Ricordando, fra l’altro, la sua fine ignominiosa, di cui nei testi scolastici, non c’è traccia. Per intanto Cicerone è lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, etichettata tout court “Mala Insula”, di cui parla soprattutto in Pro M. Aemilio Scauro oratio. L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. I capi d’accusa (indicati in forma sintetica da Marziano Capella, grammatico romano del 5° secolo dopo Cristo) riguardano: de Bostaris nece, de Arinis uxore et de decimis tribus: è cioè accusato di tre crimini: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: poi le malversazioni del governatore e cioè il crimen frumentarium, l’esazione illecita di una terza decima; il governatore di una provincia non poteva infatti istituire nuovi tributi, né aggravare le imposte precedenti. Scauro venne dunque accusato in virtù della lex Iulia de pecuniis repetundis del 59 a.C. e probabilmente della lex Cornelia de veneficiis, sicariis, parricidiis dell’81 a. C. “I due reati, veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo – sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi – non erano tali da preoccupare un avvocato dell’ abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo”(1). Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali il celebre Quinto Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni laudatores a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato. Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro. Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento (crimen frumentarium), non ci sia pervenuta. Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes). Ma c è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l accusa più grave e insultante, oggi diremmo razzistica: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?) Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai Fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere. A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d accordo con il suo compare Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Si tratta, di artificio oratorio o ignoranza? Probabilmente dell’uno e della altra insieme. Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua origine. Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i 4 giudici che lo mandarono assolto. Ma uno degli accusatori, Publio Valerio Triario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone, E pochi anni dopo, come ricorda il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, “Cicerone venne decapitato dal centurione di Marc Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la moglie del potente triumviro romano, la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato”(2). Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri. Difficile dare torto a Vivanet. Note bibliografiche 1. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, 1971, Milano, pagina 241. 2..Aldo Puddu,Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda,Chimbe iscenas chin Isterrida e Tancada – 5 Atti bilingui, con prologo e Epilogo, Editziones de Sardigna, Nuoro, 2002, pagina 323