Le imprese dei romani in Sardegna

LE IMPRESE DEI ROMANI IN SARDEGNA (1)

di Francesco Casula

In un momento di risorgente “romanità”, sono andato a spulciare le mirabolanti “imprese” dei Romani in Sardegna.
Certo i romani fecero strade, ponti, palazzi, terme cloache vespasiani e teatri, per transitare velocemente le forze armate e il bottino per ristorarsi, alleggerirsi e divertirsi. E tracciarono le vie per tutti gli invasori successivi
Fecero soprattutto strade e ponti.
Infatti per meglio governare quel territorio secondo le proprie logiche di dominio furono costruite strade carrabili sui tracciati di quelle già realizzate dai Punici, che furono ampiamente collegate con nuove vie secondarie che penetravano nelle zone interne per meglio controllarle e gradualmente assoggettarle.
Nei punti nevralgici che fungevano da cerniera fra i territori sottomessi e quelli ancora nelle mani dei ribelli resistenti, i Romani insediarono presidi nei quali stazionavano guarnigioni di soldati, a fare da argine alle scorrerie di quelli che chiamavano sardi pelliti, nelle pianure coltivate dai contadini assoggettati.
Il sistema stradale che costruirono nell’Isola era certamente funzionale al più efficiente presidio militare nel territorio per meglio difenderlo dai nemici interni ed esterni e per consentire alle legioni di muoversi rapidamente per i loro interventi, ma era utile, per loro naturalmente ma non per i Sardi, anche per agevolare i traffici delle merci e gli scambi commerciali, oltre che per connettere i vari centri abitati tra loro, diversi dei quali presero proprio il nome delle colonne miliarie romane, come gli odierni centri di Sestu, Quartu, Settimo, Decimo.
La merce principale da trasportare è il grano: se nei produce tanto , (per 250.000 persone) : serve anche (o soprattutto) per gli eserciti e la plebe romana. Quella, panto per intenderci, cui distribuire e dare “Panem et ciscenses”, per addomesticarla e cloroformizzsarla, per impedirle di ribellarsi.
Con il grano sardo infatti si riempiranno tutti i granai dell’Urbe e per contenerlo se ne costruiranno altri nuovi: specie nel Campidano e nel meridione dell’Isola.
Ma l’impresa più grande e di cui si vanteranno a Roma, sarà lo sterminio dei Sardi. Un vero e proprio etnocidio o, se volete, genocidio.

CONTROSTORIA DELLA SARDEGNA: dalla Civiltà Nuragica al dominio spagnolo. ( GraficadelParteolla Edizioni)

Fra qualche giorno in tutte le librerie.

CONTROSTORIA DELLA SARDEGNA: dalla Civiltà Nuragica al dominio spagnolo. (Grafica del Parteolla Edizioni).

Dopo una lunghissima gestazione, ho partorito una nuova creatura. E sono contento anzi felice per questo mio lavoro.
Ci sono voluti ben sei anni di ricerche, studio, consultazioni e riflessioni: fra archivi e biblioteche, testi e documenti storici e archeologici ma anche letteratura e poesia popolare, quotidiani, riviste e persino social.
Come anticipato fin dal titolo è una “Controstoria”, dissonante rispetto alla storia ufficiale della scuola e degli stessi Media. Una storia che molti troveranno “fastidiosa” e persino urticante. Perché mette in discussione contesta e smonta vecchie e inveterate certezze, luoghi comuni e pregiudizi diffusi e circuitati ad arte dai nostri nemici: ad iniziare da Cicerone, insultante e diffamatore.
Siamo abituati a testi, anche di livello e specialistici, sulla “Sardegna punica”, “Sardegna romana”, “Sardegna bizantina”, “Sardegna spagnola”. In cui soggetti storici sono sempre gli “Altri”, gli occupanti, i dominatori e, noi Sardi sempre “oggetti”. Passivi marginali e “arretrati” noi, e centrali invece loro: addirittura diffusori e portatori di civiltà e non, come realmente erano, predatori e sanguinari: ad iniziare dai Romani.
Ebbene questa mia nuova opera racconta la “Sardegna, Sardegna” : analizzata, vista, “letta”, interpretata dal punto di vista di un sardo: senza alcun etnocentrismo ma anche senza ombre di subalternità culturale né di complessi di inferiorità o di minoritarismo.
È un ulteriore omaggio che faccio alla mia Terra e ai Sardi tutti, ma soprattutto ai giovani, agli studenti, perché conoscano il nostro passato per lo più sepolto, nascosto, rimosso.
E perché tale passato, una volta dissotterrato e conosciuto diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, come sardi aperti al suo respiro, il mondo; lottando contro il tempo della dimenticanza: quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.
Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo aperto e rispettoso.
In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna, vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali.
Spero altresì che questo mio nuovo lavoro possa servire anche a tal fine.
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La copertina riproduce una foto dell’ingresso del Pozzo di Santa Cristina del grande archeoastronomo francese, Arnold Lebeuf, docente di storia delle religioni presso l’università di Cracovia che scoprì per caso l’esistenza del pozzo sacro nel 1973, in un convegno in Bulgaria, grazie a un articolo di Carlo Maxia ed Edoardo Proverbio.
Scrive Lebeuf il 4 maggio 2011: “Il pozzo nuragico di Santa Cristina? Un osservatorio astronomico perfetto. Un sistema raffinato per calcolare un fenomeno di grande complessità come quello delle fasi lunari e prevedere le eclissi”.
Nel 2005, approdò nell’isola per compiere ricognizioni e studi approfonditi ora raccolti nel volume, “Il pozzo di Santa Cristina, un osservatorio lunare” con oltre duecento pagine, tra testi, calcoli scientifici, splendide foto (in parte realizzate dal fratello Guillaume e Tomas Stanco) che raccontano una tesi sbalorditiva. Tremila anni fa su quell’altopiano a due passi dalla Statale 131, i nuragici edificarono, nell’arco di diversi anni, una elaboratissimo osservatorio. Tale da suggerire conoscenze astronomiche e scientifiche avanzatissime in un’epoca così lontana.
Un fatto probabilmente unico nella nostra geografia occidentale.
E così sul sito archeologico improvvisamente sembrerebbe accendersi una luce e allo stesso tempo aprirsi un enigma. Perché di quel raffinato sapere nuragico non è rimasta traccia? Si deve forse rivedere la tesi che il pozzo fosse dedicato al culto delle acque?
“L’uno non esclude l’altro – risponde Lebeuf – era un tempio delle acque come tantissimi altri nell’Isola”.

LE MALDICENZE CONTRO GRAZIA DELEDDA

LE MALDICENZE CONDRO GRAZIA DELEDDA

di Francesco Casula

Contro Grazia Deledda continuano ad essere circuitate – spesso ad arte e poco interessa se per ignoranza o per mala fede – una serie di contumelie, maldicenze e vere e proprie calunnie.
Due in particolare rivolte alla sua persona.
1. Sarebbe stata una donna “provinciale”, arretrata, con lo sguardo rivolto solo al passato, premoderna.
Niente di più falso.
Nel 1909 accettò la candidatura, per il collegio di Nuoro, del Partito radicale, per le elezioni politiche.
Il Partito radicale era allora il Partito più aperto e “progressista”, specie in relazione ai diritti civili. Tanto che fin da allora sosteneva una legge sul divorzio.
,A questo proposito la Deledda, intervistata nel 1911 dal Quotidiano “La Tribuna” sostenne che il divorzio diventa indispensabile quando i due coniugi sono impossibilitati a convivere. Ce lo ricorda Neria de Giovanni, una delle massime studiose della Deledda (in Grazia Deledda, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2016).
Alla Deledda Neria de Giovanni ha dedicato ben 13 libri.
2. La seconda “maldicenza”, ancor più grave, è l’accusa di essere stata fascista o comunque corriva con il Fascismo, grazie al quale avrebbe ottenuto il Premio Nobel.
Si tratta di un vero e proprio falso storico. In realtà – è sempre Neria de Giovanni a documentarlo – pare che in quell’anno Mussolini avesse segnalato Ada Negri non la Deledda, cui il Premio non arriva comunque improvvisamente. Ha infatti avuto ben “12 candidature negli anni passati, la prima nel 1913 e poi, una all’anno fino al 1927, con l’esclusione del 1916, 1919, 1926”.
E a proposito del suo atteggiamento verso il Fascismo ecco il racconto di Neria De Giovanni nel libro sopracitato (pagine 57-58) :”Dopo il Nobel, a Roma la vuole incontrare Mussolini. Il duce manda una macchina per condurla a Palazzo Venezia nella sala del Mappamondo. Dopo averle donato una sua foto con cornice d’argento e dedica: «A Grazia Deledda con profonda ammirazione», Benito Mussolini, le domanda cosa può fare per lei. Grazia risponde decisa che non vuole niente per sé, ma chiede clemenza per il proprietario della sua casa natale di Nuoro, Elias Sanna, che era al confino benché lei garantisca essere persona onesta sotto tutti i punti di vista… Appena congedata da Mussolini, un funzionario di partito le chiede che cosa volesse fare per il Fascismo, vista la benevolenza del duce e lei risponde asciuttamente: «L’arte non conosce politica».
Come ritorsione ci fu «un consiglio» ai librai di non esporre i libri della neo Premio Nobel. I diritti d’autore sulla vendita dei libri, quell’anno, furono molto più scarsi del previsto per questa motivazione che lo stesso editore Treves svela in una lettera di risposta alla Deledda, seccata per il poco guadagno”.
Bene.
Questa la verità storica sui rapporti fra la Deledda e il fascismo.
Ma, premesso che uno scrittore deve essere valutato per le sue qualità letterarie ed estetiche e non per le sue appartenenze politiche, perché si tira fuori l’improbabile “fascismo” a proposito della Deledda e non si fa cenno a proposito di autori e intellettuali come – e sono solo degli esempi – Ungaretti, Malaparte, Soffici?
Ma soprattutto a proposito di Pirandello? Che aderì al esplicitamente al Fascismo nel settembre 1924, in uno dei momenti di massima crisi di Mussolini e del movimento, dopo il caso del delitto Matteotti?
E aderì attraverso un telegramma pubblicato il 19 settembre del ’24 su “L’impero”, un giornale fascista dell’epoca, con una vergognosa dichiarazione di servilismo?
Ecco il testo del telegramma: “Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio per dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Pnf pregerò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera, Luigi Pirandello”.
L’anno seguente Pirandello sottoscriverà anche il “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Giovanni Gentile.
Ma tant’è: verso i Sardi il dileggio e/o l’autodileggio. Verso gli italiani l’esaltazione e le lodi.
Cando l’amus a acabare?

120 mila firme. ” da non svendere”!


120 mila firme. Da non “svendere”!

di Francesco Casula

Ma forse saranno molte di più. A significare la consapevolezza e volontà di migliaia di sarde e sardi, che liberi da incrostazioni ideologiche e di appartenenza partitica, hanno firmato la Proposta di legge “Pratobello 2024”. Si sono mobilitati, in tutta l’Isola. Ubiquitariamente. Con manifestazioni sit-in assemblee popolari dibattiti discussioni e confronti. Un raro esempio di protagonismo sociale, di democrazia diretta, di partecipazione popolare. Dal basso. Senza mandarini politici o sindacali.
Per difendere la loro Terra: dagli assalti de su furone che benit dae su mare. Per resistere alle ruberie agli sfregi e agli stupri che vorrebbero inferire al nostro territorio, al nostro paesaggio, alla nostra identità, interi eserciti di speculatori o meglio di veri e propri colonizzatori faccendieri affaristi e predatori incalliti invasivi invadenti e sbrigativi, che sono entrati (e i più), vogliono entrare in casa nostra. Senza permesso. Al di fuori e contro la nostra volontà.
Sono predatori venuti da tutto il Pianeta, d’oltreoceano e d’oltralpe, che hanno deciso di mettere a ferro e fuoco, ogni angolo di questa terra promessa, votata al ruolo di genio naturale, trasformata per scelte scalmanate e devastanti in terra di ulteriori servitù: con migliaia di pale eoliche e distese infinite di pannelli cinesi.
Piani di assalto studiato nelle casseforti delle banche d’affari mondiali, congegnato nelle diplomazie europee ma messi a punto “accolti” e “legalizzati” nei Palazzi romani e nel Governo Draghi e oggi, ribaditi dal governo dell’urlatrice amica di Vox. E, ahimè, purtroppo con il beneplacito o comunque, la connivenza e collusione dei “basisti” e vassalli locali.
Vengono in Sardegna per sfruttare e depredare le nostre risorse, deprivandocene: vento e sole, terra e mare. Suolo e sottosuolo. Per devastare manomettere e squassare il nostro territorio: imbruttendo il nostro paesaggio. Violentando l’ambiente. Sradicando gli alberi. Interrando la nostra storia e la nostra cultura e identità etno-antropologica, e linguistica.
Senza alcun ritorno neppure in termini economici e finanziari per la Sardegna e i Sardi. Per produrre energia “verde”, pulita e bella e pronta all’Italia, ma soprattutto al Nord. E consegnare i colossali profitti dei mostri delle Pale e dei campi eolici a imprese e fondi finanziari di mezzo mondo.
Le 120.000 firme sono per loro un avvertimento: non prevalebunt! Non pasarán!
Se le sapremo ben usare e “spendere”. Senza svenderle. Magari in nome dell’unità o della “ragionevolezza”!
Il 2 ottobre, giornata della Consegna delle firme, dovrà essere una ulteriore prova di forza e di unità popolare: per questo Cagliari dovrà assistere quel giorno alla partecipazione di migliaia e migliaia di Sarde e Sardi decisi a manifestare il proprio dissenso e l’opposizione netta a su disacatu e sa titulia de sos colonialistas novos e betzos. In segus non si torrat!

La scuola Italiana

La scuola italiana è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, mascio e del Nord.. Certamente non a una/o sarda/o.

La scuola È una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Spesso anche nei docenti.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea.
Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori.
Di qui la lontananza e l’estraneità di questa scuola. . Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente, né appetibile.
Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore.
Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita.
Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico.
Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica: a muntone. A tal punto che la nostra Sardegna detiene tutti i record negatuvi fra tutte le 20 Regioni d’Italia.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, l’organizzazione scolastica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici. Anche perché la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), certamente influenzano negativamente i risultati scolastici, ma non li determinano.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti i record negativi della scuola in Sardegna permarranno.
E continuare a piangersi addosso e a lamentarci servirà a poco.

Il centralismo statuale? Ha partorito un gatto

IIl centralismo statuale? Ha partorito un gatto.

di Francesco Casula

Un gruppo di intellettuali e sindaci del Pd e dintorni vuole riscrivere lo Statuto sardo. Sarà il tempo a dirci se si tratta di chiacchiere di fine state e strumentali – come troppo spesso nel passato è successo – o di reale volontà politica.
Da parte mia ritengo che chiunque si avventuri a riformulare lo Statuto speciale della Sardegna deve ripartire dalla storia e dal ruolo nefasto del centralismo: di quello del leviatano statale moderno come di quello più antico dei Principi rinascimentali: tesi ambedue a escludere di fatto dal potere i cittadini e la partecipazione popolare.

I Principi rinascimentali prima e i sovrani assoluti poi tendono storicamente a contrapporre l’accentramento alla disseminazione del potere politico proprio del mondo feudale: tale posizione inol¬tre – peraltro costante nella lunga vicenda dello Stato moderno – ¬tende a negare ai cittadini qualsiasi ruolo politico e qualsiasi “po-liticità”, o, quanto meno a restringerla.
Tende cioè ad escluderlo da ogni ruolo effettivo decisionale e di potere, che non si riduca a semplice assenso o a manifestazione e rafforzamento del consenso. In questo modo la partecipazione al potere politico è solo for¬male: il potere reale infatti rimane concentrato nello Stato e nei suoi apparati.
Così i Principi come i Sovrani tendono ad abolire ogni forma di politicità alternativa all’interno dei propri domini, sottraendo man mano ai signori feudali scampoli di potere per affidarli pro¬gressivamente a una burocrazia stipendiata e “competente”,– per quanto è possibile – ma comunque subalterna e dipendente dal “Centro”.
L’attribuzione del potere a una minoranza ristretta – fin dal 1300 ma soprattutto nella successiva fase di sviluppo della socie¬tà e dello Stato moderno – è legata in modo particolare all’esigenza di garantire il “naturale” dispiegarsi degli scambi sul mercato e di controllare nel modo più razionale e funzionale possibile conflitti e tensioni che man mano la società capitalistica – segnatamente dopo la Rivoluzione industriale – indurrà, produrrà e accelererà.
È soprattutto da questo punto di vista che lo Stato moderno assolverà essenzialmente a una funzione del meccanismo econo¬mico del capitalismo e del mercato. Lo stato italiano risorgimentale, nonostante la posizione di Cavour che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self–gouvernement e non il modello francese napoleonico, nasce dentro tale versante, come stato unitario accentrato e centralista.
Il Fascismo porterà a più coerenti conseguenze autoritarie e centralizzatrici strumenti e tendenze che erano già abbondantemente presenti nel regime liberale, giolittiano e prefascista. Di fatto annientando le istanze “regionalistiche” che si affermano nel primo dopoguerra, in modo particolare nelle regioni meridionali (con Gaetano Salvemini e don Luigi Sturzo) ma in specie in Sardegna con la nascita e l’affermazione del Partito sardo d’azione
La Resistenza, per come nasce, si sviluppa e si svolge ha “un carattere intrinsecamente regionalistico” (Leo valiani): pensiamo ai CLN regionali o alle repubbliche partigiane. Il processo di restaurazione moderata, con l’avallo e la complicità della Sinistra – se non addirittura per sua diretta iniziativa, – spazzerà le esperienze regionalistiche.
Ma è soprattutto con il dibattito alla Costituente prima e la vittoria dei moderati nel ’48 che si affosserà definitivamente il “regionalismo” e ancor più il federalismo. A difenderlo Lussu si troverà sostanzialmente da solo: destra, sinistra e centro, in una sorta di union sacrée, lo osteggeranno del tutto.
Non a caso lo Statuto sardo che verrà concesso, nascerà debole e limitato, più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu. Ma c’è di più: persino i flebili miagolii del nostro gattino saranno completamente strozzati. Lo Statuto speciale infatti subirà un processo di progressi¬vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale; sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
La Regione inoltre tenterà di riprodurre la struttura piramidale dello Stato: così al centralismo romano si aggiungerà il centralismo regionale. Con l’ingabbiamento e la marginalizzazione delle Autonomie locali e i Comuni in primis. A denunciarlo è – fra gli altri – un grande storico medievista, Cesare Casula, che scrive:” la Regione ha concentrato nell’istituto «ministerializzato» le funzioni amministrative che Costituzione e Statuto affidano alle autonomie sub-regionali. Sicchè al posto di un sistema «a stella» (sia all’interno delle Regioni sia dello Stato) si è mantenuto un sistema «a piramide»: una grande « piramide» al centro e tante piccole « piramidi», in ciascuna delle venti Regioni italiane”.
Ancora più ficcante la critica di Eliseo Spiga secondo cui la Regione sarda, non può essere considerata una istituzione di autogoverno della comunità sarda. “Non è tale – scrive Spiga – intanto, per la sua struttura organizzativa che è una misera e minuscola fotocopia dello Stato con i suoi assessori come ministeri e il suo accentramento politico-burocratico nel capoluogo cagliaritano. E non lo è perché la Regione non ha un reale rapporto giuridico con i Comuni, rimasti nella sostanziale dipendenza dello Stato, perché la Sardegna continua ad essere presidiata dai prefetti, che sono il simbolo oltre che lo strumento del centralismo statale; e infine perché deve coabitare forzosamente con le succursali provinciali dei Ministeri romani, pronti a pascolare anche abusivamente nei territori regionali”.
Bene: lo Stato sardo indipendente, cui corpose e importanti porzioni della società isolana sembrano guardare viepiù con interesse e simpatia, a mio parere deve essere il più dissimile possibile dallo stato italiano e dalla stessa regione sarda che storicamente abbiamo conosciuto. E non solo per quanto attiene al “centralismo”, o all’intreccio e alla confusione fra attività di governo e attività di amministrazione e gestione, (che comunque non è casuale: serve infatti a trasformare gli Assessorati in veri e propri califfati con cui creare consenso attraverso il clientelismo); ma per quanto riguarda il superamento di una democrazia meramente rappresentativa, istituzionale e istituzionalista, per dare luogo a una democrazia partecipativa e partecipata. O, se si preferisce: a una democrazia, diretta, di base. Dal basso. Anche sulla scia di Emilio Lussu secondo cui occorreva “sviluppare, esprimere e sprigionare le capacità e le forze alla base della società civile”.

Storico militante. Un ossimoro? Oppure no?

Francesco Casula
Storico militante. Un ossimoro? Oppure no?
di Francesco Casula
Soprattutto in seguito alla pubblicazione del mio libro “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” sono stato etichettato come “storico militante”. E sono stato criticato in quanto la mia opera sarebbe “intrisa di sardismo”. Dunque di parte. E’ vero e lo rivendico orgogliosamente. Sono di parte:dalla parte del popolo sardo. Del resto – si licet parare magna cun parvis – Raimondo Carta Raspi, forse il più grande storico sardo, è stato accusato di aver scritto una “Storia della Sardegna” sardista. Ebbene, a mio parere, non esistono storici super partes. Neutrali. Oggettivi. Spesso chi si ritiene tale è semplicemente un ipocrita. O si vergogna di confessare e riconoscere a quale parte appartiene: magari a qualche fazione, parrochietta, clan, camarilla inconfessabile. E ha ragione Mauro Maxia quando scrive che “La storia d’Italia è stata scritta da storici militanti che l’hanno deformata a vantaggio del potere centrale (lo Stato) e a svantaggio delle storie “minori”. E’ giusto e doveroso che gli storici delle regioni sottomesse ricostruiscano la vera storia illuminando gli angoli bui della storia ufficiale dove si nascondono le sue pagine poco onorevoli” Ciò premesso affermo che: Le mie concezioni politiche sono strettamente intrecciate con la mia professione di docente e studioso di storia, lingua e letteratura sarda, perché politica e storia, politica e lingua, politica e letteratura sono un unicum inscindibile. I miei scritti sulla storia non mancano di avere riscontri nel presente. Ecco perché mi ritrovo bene nella definizione di “storico militante”. Grazie alla storia, intesa appunto in senso militante, ho derivato l’idea che sia necessario incorporare il passato per aprirsi all’avvenire. E’ questo il senso del binomio “radici-ali”. Nella missione civile dello storico c’è sempre il discorso politico. Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo e un confronto aperto e rispettoso in 40 anni di insegnamento. E che continuo ad avere. In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali. Sono nato a Ollolai, un paese della Barbagia, ricco di storia e ne sono orgoglioso perché il paese è il luogo più vicino all’umanità. Mi piace ricordare il poeta rumeno Lucien Blaga, amato dal compianto amico Antonello Satta, che citava sempre un verso bellissimo e universale:”L’eternità è nata nel villaggio”. Devo molto alla civiltà pastorale e ai suoi valori comunitari, perché chi è senza radici perde il “plus valore dell’identità” e non sa più camminare sicuro nel mondo. Il testo di cui sopra (da “le mie concezioni…) non è mio: io l’ho solo adattato e personalizzato. Ecco il testo originario che è di GIOVANNI LILLIU, l’intellettuale sardo più grande negli ultimi 50 anni, valente archeologo e storico, unico sardo nell’Accademia dei Lincei. “Le mie concezioni politiche sono strettamente intrecciate con la mia professione di archeologo, perché politica e archeologia sono un unicum inscindibile. I miei scritti sull’archeologia non mancano di avere riscontri nel presente. E la “costante resistenziale sarda” deriva proprio dalle mie riflessioni sul passato. Ecco perché mi ritrovo bene nella definizione di “archeologo militante”. Grazie alla all’archeologia, intesa appunto in senso militante, ho derivato l’idea che sia necessario incorporare il passato per aprirsi all’avvenire. E’ questo il senso del binomio “radici-ali”. Nella missione civile dell’archeologo c’è sempre il discorso politico, e ciò credo che sia un’anomalia nel settore archeologico. Spero – forse mi illudo – di poter lasciare una lezione per i giovani, con cui sono sempre riuscito ad avere un dialogo aperto e rispettoso In un mondo estraniante ed omologante, i giovani sardi devono sforzarsi di ritornare alle proprie radici e di aprirsi, coltivando l’amore per la Sardegna vista nell’universo mondo. Non si può essere cittadini del mondo fuori dalle radici locali. Sono nato a Barumini, un paesino della Marmilla e ne sono orgoglioso perché il paese è il luogo più vicino all’umanità. Mi piace ricordare il poeta rumeno Lucien Blaga, amato dal compianto amico Antonello Satta, che citava sempre un verso bellissimo e universale:”L’eternità è nata nel villaggio”. Devo molto alla civiltà contadina e ai suoi valori comunitari, perché chi è senza radici perde il “plus valore dell’identità” e non sa più camminare sicuro nel mondo. (tratto da Premessa, Opere, Giovanni Lilliu, Zonza Editore, a cura di Alberto Contu, Cagliari, 2006, pagine 8-9)
 
 
 
 
 
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L’educazione civica del governo Meloni? Una brodaglia di retoricume ital-patriottardo.

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Una brodaglia di retoricume ital-patriottardo.
di Francesco Casula
Il 7 Agosto scorso, sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito, è stato pubblicato un comunicato stampa relativo alle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’Educazione Civica, che entreranno in vigore nel corrente anno scolastico. Per capire di che parliamo bisogna risalire all’introduzione dell’insegnamento dell’Educazione Civica, previsto per 33 ore all’anno (non aggiuntive, ma di fatto sottratte al monte orario delle singole discipline), avvenuto nel 2019 ad opera del Ministro, sempre leghista, Bussetti. Ebbene, tali linee guida, se possibile, peggiorano quelle precedenti del 2019, in modo particolare per quanto attiene alla retorica, beceramente nazionalista e patriottarda: 1. Educazione, secondo il Ministero (e dunque il governo Meloni) significa educare all’amor patrio. Il termine “patria” come quello di “nazione” ricorre in modo ossessivo, fino alla nausea. Nel contempo occorre l’integrazione come “rafforzamento del senso di appartenenza alla comunità nazionale”. Ovvero assimilazione tout court. Il messaggio è chiaro, almeno per noi Sardi: vogliamo diventare buoni ed “educati”cittadini? Dobbiamo negare la nostra sardità, (storia cultura, lingua, tradizioni) per “assimilarci” agli italiani. Nelle linee guida “viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione”. In realtà nella Carta Costituzionale la parola Patria compare solamente due volte, quasi accidentalmente: nell’art. 52 sul servizio militare (“difesa della Patria”) e nell’art. 59 sulla nomina dei senatori a vita (“cittadini che hanno illustrato la Patria”). Il carattere fondamentale della nuova Italia fu individuato nel suo essere una Repubblica (termine che ricorre 86 volte, senza contare i titoli), democratica, la cui sovranità appartiene al popolo (mai definito come “italiano”). Non una “patria” o una “nazione”. E comunque sia, chi ricorda al Ministro Valditara e alla Meloni che per noi Sardi la Patria (e la Matria) è la Sardegna? Perché sardi sono i nostri padri e le nostre madri? E chi egualmente ricorda che dunque, la nostra Nazione è la Sardegna non l’Italia? 2. Altro pressante suggerimento del Ministro nelle nuove linee guida è quello di far conoscere l’Inno “Fratelli d’Italia” e il Tricolore con la sua storia. Bene. Non tanto sommessamente occorrerà ricordare, soprattutto all’urlatrice parafascista amica di Vox, diventata Presidente, che “Fratelli d’Italia è un Inno brutto, bellicista, militarista e militaresco, ultraretorico. Ma che soprattutto riassume una “storia” falsa e falsificata: “Dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano; ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano; I bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri sonò”. Mi chiedo: che c’entrano i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze, Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci, con l’Italia, il suo “Risorgimento”, la sua Unità? C’entrano un’acca. Comunque sia, noi Sardi il nostro Inno nazionale lo abbiamo già: è su “Patriota sardu a sos feudatarios” più noto anche come “Procurade ‘e moderare” di Francesco Ignazio Mannu. Peraltro l’Inno ufficiale della Regione sarda! Ricordo agli smemorati che il Presidente della Regione con decreto n. 49 del 24 aprile 2019 ha dato attuazione a quanto stabilito dalla Legge Regionale n. 14 del 4 maggio 2018 che riconosce il componimento melodico tradizionale “Su patriota sardu a sos feudatarios”, Inno ufficiale che “contribuisce a sottolineare i caratteri dell’autonomia speciale riconosciuta dalla Costituzione alla Sardegna e ad accentuare il senso di appartenenza dei sardi a un comune territorio, avendo come obiettivo il rispetto, la cura e la valorizzazione delle peculiarità che lo contraddistinguono e lo sviluppo delle potenzialità che possiede”. E il Tricolore? A m,e personalmente viene l’orticaria solo al gurdarlo. La nostra bandierà sono i 4 Mori. So che a qualcuno non piace: preferirebbe l’Albero deradicato arborense. Questo piace anche a me, ma ritengo che la stragrande maggioranza dei Sardi, storicamente ormai, abbia interiorizzato, nella mente e nel cuore, in Sardegna come nell’emigrazione, i Quattro Mori come loro vessillo, simbolo e bandiera. Con buona pace del Ministero italiota che invitiamo a tenersi le sue “Linee guida”. Non ci interessano. Saremo noi Sardi a elaborare le nostre: quelle che meglio si attaglino alla nostra Identità culturale ed educativa.
 
 
 
 
 
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Lo sturpo dell’identità della Sardegna

Lo stupro dell’Identità della Sardegna

di Francesco Casula

La storia dei Sardi, come nel passato, continua ad essere caratterizzata da quella che Giovanni Lilliu, in un interessantissimo libro chiama “La costante resistenziale”, che ha loro permesso di conservare il senso d’appartenenza ovvero “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno”.
Costante resistenziale che ben si attaglia anche all’oggi e alla “rivolta” in atto contro la speculazione energetica, con una mobilitazione e un protagonismo mai visto e che attraversa l’intera Isola: ubiquitariamente. Con manifestazioni, sit-in, assemblee popolari. E con una raccolta di firme, a decine di migliaia, per una proposta di legge popolare “Pratobello 2024” in grado di bloccare o comunque limitare la speculazione energetica e lo scempio delle migliaia di Pale e degli smisurati campi fotovoltaici.
Ancora una volta i Sardi, come tante volte nella loro millenaria storia, fin dai tempi della dominazione romana, costantemente “resistono” alle ruberie, agli sfregi e agli stupri ancora oggi inferti da “chi viene dal mare”: speculatori o meglio veri e propri colonizzatori, faccendieri, affaristi e predatori incalliti, invasivi, invadenti e sbrigativi, che sono entrati (e i più), vogliono entrare in casa nostra. Senza permesso. Al di fuori e contro la nostra volontà.
Sono predatori venuti da tutto il Pianeta, d’oltreoceano e d’oltralpe, che hanno deciso di mettere a ferro e fuoco, ogni angolo di questa terra promessa, votata al ruolo di genio naturale, trasformata per scelte scalmanate e devastanti in terra di ulteriori servitù: come se non bastassero quelle militari.
Vengono in Sardegna per sfruttare e depredare le nostre risorse, deprivandocene: vento e sole, terra e mare. Suolo e sottosuolo. Per devastare manomettere e squassare il nostro territorio: imbruttendo il nostro paesaggio. Violentando l’ambiente. Sradicando gli alberi. Peraltro senza alcun ritorno neppure in termini economici e finanziari per la Sardegna e i Sardi. Per produrre energia “verde”, pulita e bella e pronta all’Italia, ma soprattutto al Nord. E consegnare i colossali profitti dei mostri delle Pale e dei campi eolici a imprese e fondi finanziari di mezzo mondo.
Ma non solo. Vogliono interrare la nostra storia, la nostra cultura, la nostra identità linguistica e persino antropologica. Occorre infatti ricordare che Il territorio non è solo un luogo, uno spazio fisico. È un complesso di identità geografiche, ambientali e paesaggistiche. Ma soprattutto storiche e archeologiche. Artistiche e architettoniche. Letterarie e linguistiche. Antropologiche.
Con l’assalto delle Pale e delle distese fotovoltaiche ci sarebbe un vero e proprio scempio e scasso della Identità complessiva dei Sardi, che sarebbe gravemente non solo ferita ma brutalmente devastata e manomessa, forse irrimediabilmente.
Ad essere colpiti sarebbero soprattutto i paesi, accelerando lo spopolamento già in atto, e con essi soprattutto i pastori e contadini, cui sarebbero sottratti ulteriori spazi ma cui causerebbero anche danni enormi. A tal proposito voglio ricordare quanto sostenuto dal dottor Domenico Scanu, presidente Medici per l’Ambiente- Isde Sardegna, secondo il quale le pale eoliche, oltre che generare campi elettromagnetici e rumore, hanno già ridotto la produzione del latte.
Con un ulteriore crisi delle campagne e della pastorizia e dunque lo spopolamento dei paesi, soprattutto quelli dell’interno, la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato, anzi, funereo. Cimiteriale. Senza più uno stelo d’erba: popolato da distese infinite di pannelli cinesi e mostri eolici. Sarebbe questa la transizione ecologica?
E le comunità di paese, spogliate di tutto: in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Coste da cui “ammirare”, anche loro, un bel po’ di Pale, con i nuovi parchi eolici offshore.
E i Sardi? Con Ottana e la sua industrializzazione si voleva trasformare i pastori in operai, tutti rigorosamente con la tuta al posto della mastruca. E oggi? Tutti lavapiatti e camerieri? Neppure: perché non è detto che a subirne gli effetti nefasti non sia anche il turismo e l’appetibilità della nostra Sardegna. Per cui i giovani, ancor più di oggi sarebbero senza avvenire e senza progetti. E tutti senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia.
Una Sardegna ridotta a un territorio, uno spazio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti. Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.
Evitare ciò è possibile o comunque limitarne i danni. Per intanto continuando a raccogliere decine di migliaia di firme per “Pratobello 2024”.

In campo il mondo della cultura sarda.

In campo il mondo della cultura sarda.

Contro il colonialismo energetico e a sostegno della “Pratobello 2024”
Un gruppo di intellettuali, storici, linguisti, docenti universitari, insegnanti, scrittori e poeti sardi, editori, conduttori televisivi giornalisti e artisti, firmatari della presente, solidarizza con la battaglia dei Comitati costituitisi in tutta la Sardegna contro la speculazione energetica e invita tutti i sardi a firmare la proposta di legge “Pratobeĺlo 2024”.
Con il decreto Draghi (D. Lgs. n. 199/2021) il governo ha recepito la direttiva UE 2018-2001 sull’uso dell’energia prodotta da fonti alternative. A seguito di questa norma si è scatenata una valanga di progetti da parte di società italiane e straniere interessate ai forti incentivi pubblici più che agli impianti eolici e fotovoltaici. Per la sola Sardegna finora sono stati presentati 825 progetti che, se attuati, comporterebbero una produzione energetica sufficiente ad alimentare quasi tutta l’Italia. Ciò comporterebbe la devastazione ambientale della nostra Isola che è anche la regione più ricca del mondo di monumenti archeologici.
La presidente Todde ha accettato il limite minimo di 6,2 Gw assegnato dal governo alla Sardegna. Questa quota corrisponde a tre volte il fabbisogno della Sardegna, per cui due terzi sarebbero destinati all’esportazione senza alcun vantaggio per gli utenti sardi. Oltretutto, il decreto Draghi, vietando qualsiasi moratoria, chiarisce anche che non vi sono siti non idonei per l’installazione degli impianti in questione. La Giunta regionale, viceversa, ha approvato una inutile moratoria puntualmente impugnata dal Governo e si appresta a individuare i siti “non idonei”, cioè quelli che saranno presi in esame dopo i siti “idonei” anche oltre il limite di 6,2 Gw.
L’art. 3 dello Statuto regionale attribuisce alla Regione Sarda potestà legislativa in materia di urbanistica ed edilizia. Avvalendosi di tale potestà la Regione può stabilire delle regole che potrebbero impedire la realizzazione della maggior parte degli impianti. Tuttavia, a sei mesi dall’insediamento, la nuova Amministrazione non si è avvalsa di tale potestà né sembra intenzionata ad avvalersene.
Per questi motivi i Comitati popolari, costituitisi spontaneamente per difendere la Sardegna dalla devastazione di centinaia di nuovi impianti industriali, hanno deciso di avvalersi dell’art. 29 dello Statuto presentando una proposta di legge d’iniziativa popolare denominata “Pratobello 2024”. Questo nome ricorda la rivolta pacifica con la quale nel 1969 la popolazione di Orgosolo si oppose con successo all’occupazione del prato comunale da parte dell’Esercito.
Dall’inizio di agosto in tutti i comuni sardi è in atto la raccolta delle firme necessarie per la presentazione di tale proposta di legge. Le adesioni hanno superato in pochi giorni il numero di 10.000 firme richiesto dallo Statuto. Ma è opportuno che la proposta sia sottoscritta dal massimo numero possibile di sardi. Solo di fronte a una massiccia mobilitazione popolare il Consiglio regionale avrà piena contezza dell’importanza che il popolo sardo attribuisce alla difesa dell’ambiente e delle migliaia di beni culturali che punteggiano l’intero territorio dell’Isola.
Per questi importanti motivi e per evitare che la Sardegna sia devastata da avidi speculatori che possono contare sulla favorevole legislazione statale, invitiamo tutti i sardi a sottoscrivere, entro il 15 settembre, la proposta di legge “Pratobello 2024” recandosi negli uffici dei comuni di residenza.
Mauro Maxia (studioso di linguistica e filologia), Francesco Casula (storico), Bruno Agus (poeta improvvisatore), Bruno Michele Michele Aresu Gravellu Aresu (pittore e scrittore), Andrea Andrillo (musicista e cantante), Antonio Appeddu (studioso di agronomia e scrittore di Contos), Tonino Bussu (scrittore bilingue), Pinuccio Canu (poeta sardo), Franco Carlini (scrittore e poeta bilingue), Eliano Cau (scrittore e poeta bilingue), Lucia Chessa (docente), Marcello Cocco (giornalista), Antonio Contu (autore di opere teatrali in lingua sarda), Tina Cosseddu (cantante), Paolo Cossu (Editore Grafica del Parteolla), Mariangela Dui (scrittrice e giornalista), Clara Farina (attrice), Giovanni Gelsomino (scrittore), Franca Marcialis (docente e scrittrice bilingue), Alessandro Mongili (sociologo e docente universitario), Rita Anna Rita Olmetto (matematica), Giovanni Piga (romanziere e poeta in lingua sarda), Paolo Pisu (scrittore), Gigi Porceddu Scultore (scultore), Enrico Putzolu (conduttore televisivo), Ennery Taramelli (storica e critica d’arte), Ninni Tedesco Calvi (docente e giornalista), Gisella Vacca (attrice), Mauro Peppino Zedda (archeoatsronomo scrittore).