DEMISTIFICARE I SAVOIA: Vittorio Emanuele II, re galantuomo o rozzo beccaio?

 
Francesco Casula
di Francesco Casula
La storia sarda, (ma anche quella italiana) così come viene raccontata dai testi scolastici come dai Media in genere, quando non è falsa e falsificata, è una storia agiografica e mistificata. Segnatamente quella riguardante il cosiddetto Risorgimento e l’Unità d’Italia: con i “protagonisti” idolatrati e, cortigianescamente, esaltati. Non a caso, a loro (come ai loro pretoriani e amici) continuano ad essere dedicate, ubiquitariamente, Piazze, Vie, Monumenti, Scuole, Edifici pubblici, di qualsivoglia genere. A loro vengono affibiati epiteti vezzeggiativi: così Carlo Alberto,è re liberale; Umberto I, re buono: Vittorio Emanuele II, re galantuomo e Padre della Patria. A proposito di quest’ultimo non sembra essere d’accordo Lorenzo Del Boca*, storico, saggista e per 11 anni Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, piemontese di nascita e di formazione, a dimostrazione che l’onestà intellettuale , rimane tale a qualsisi latitudine e versante geografico venga misurata. Per Del Boca lungi dall’essere galantuomo sarebbe un rozzo beccaio, alludendo evidentemente al fatto che morto da neonato il “vero” Vittorio Emanuele (in seguito a un incendio che avrebbe ucciso con il bambino la stessa governante), la famiglia reale avrebbe sostituito il neonato con il figlio di un certo Tonca, che di mestiere faceva appunto il macellaio. A mio parere comunque, non è questo il problema: la critica all’osannato re galantuomo, che la storiografia ufficiale ha usato come un santino esemplare di un processo risorgimentale, deve essere condotta su altri versanti che conduce a un verdetto impietoso: il suo lascito è, per tutta l’Italia e non solo per la Sardegna, radicalmente negativo e, scrive Del Boca, “foriero di mali divenuti endemici”. Scrive ancora Del Boca:“Vittorio Emanuele II diventò re d’Italia quasi per caso e, certo, senza che lui lo desiderasse davvero. Altri erano i suoi interessi e le sue ambizioni. Gli eroismi – di cui si disse – fu protagonista, furono operazioni di maquillage e di millantato credito costruiti a posteriori, inventati di sana pianta o aggiustati in modo da sembrare onorevoli”. E prosegue:”Il suo principale impegno si riassumeva nel preoccuparsi dei propri affari disinteressandosi di quelli del governo. I sudditi naturalmente avevano la libertà di pagare le tasse che le ricorrenti “finanziarie” dell’epoca imponevano loro, in modo che lui avesse qualche occasione in più per rovistare nell’erario e prelevare quanto gli seviva. La lista civile a sua disposizione – cioè l’insieme dei beni economici – era la più alta fra i paesi del mondo conosciuto e, facendo un rapporto con il potere d’acquisto, mai eguaglita in nessun tempo. Gli zar costavano meno, costa meno la regina d’Inghilterra e le spese della Casa Bianca sono più modeste. Nel 1867 il suo appannaggio raggiunse la cifra di 16 milioni, pari al 2% del bilancio complessivo dello Stato. Aveva mantenuto tutti i palazzi di casa savoia, ma rastrellando regioni e cacciando i sovrani che le governavano, acquisì le proprietà di quelle dinastie e le tenne tutte per sé…Calcoli attendibili indicano che i suoi immobili, comprese le tenute di caccia, fossero 343”. Insomma uno famelico. Come e più dei suoi predecessori: penso in modo particolare a Carlo ferotze. Ma qui mi fermo. Ci saranno altre puntate, per raccontare – fra l’altro – la corruzione che regnava sovrana nel suo Palazzo: altro che re galantuomo! *Lorenzo Del Boca, SAVOIA BOIA,Piemme, Milano 2018

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA : Luigi Matta (1851 – 1913 )

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA:Luigi Matta (1851 -1913)

di Francesco Casula

Luisu (Luigi) Matta nasce a Nuragus il 5 settembre 1851. Dopo alcuni anni
delle scuole elementari, per motivi economici, (l’estrema povertà della sua
famiglia) non potendo proseguire gli studi, lavora nella bottega del padre
che fa il fabbro e insieme fa il contadino. Nel contempo si dedica alla lettura
dei poeti in lingua sarda e rivela grandi doti di improvvisatore. La sua passione
per la poesia sarda lo porta a comporre, per passatempo, all’età di 25
anni, la sua prima canzone dedicata alla Vergine di Bonaria, in cui denota
già di padroneggiare il linguaggio popolare sardo insieme alla buona capacità
di verseggiatore. Intanto decide di farsi prete. Ma per ben due volte le
autorità ecclesiastiche lo respingono: dal collegio Salesiano di S. Pier d’Arena
prima e dal seminario d’Oristano poi. Finché lo accoglierà l’arcivescovo
di Cagliari, Vincenzo Gregorio Berchialla, lo stesso che lo ordinerà sacerdote
l’8 luglio del 1884.
Nello stesso anno viene nominato vicario a San Pietro di Pula (oggi Villa
San Pietro) e due anni dopo viene eletto rettore di Gergei, dove opererà, per
ben 27 anni, fino alla morte avvenuta il 23 aprile 1913 in seguito a una
lunga malattia, all’età di soli 62 anni. Tre anni prima era stato nominato
Canonico. Venne nominato Canonico ordinario con annesso privilegio dei
Protonotari Apostolici il 18 marzo 1910.
Fu oltre che valente oratore, eccellente poeta. Autore di molte composizioni
religiose (gosos, laudes) oltre della canzone di Bonaria già accennata, di una
seconda canzone dedicata alla medesima Vergine nel 1895, di una canzone
dedicata a S. Isidoro, e di una piccola commedia in versi dal titolo “l’Orfanella”,
inedita e di cui non abbiamo il testo.
Ma deve la sua fama soprattutto a due splendide poesie (S’angionedda mia
bella Conchemoru e Tottu in manu mia tengu duas rosas) che compaiono entrambe
nel suo capolavoro, la commedia Sa coia ‘e Pitanu, pubblicata il 15
giugno del 1910. Altre pubblicazioni seguiranno, postume, negli anni
1915,1922,1924,1928, 1938,1951. Ultime in ordine di tempo sono le pubblicazioni
a cura di Fernando Pilia nel 1957; di Silvio Murru (con bella traduzione
poetica a fronte) nel 2009 e di Gian Paolo Anedda nel 2010. A testimonianza
dell’interesse per questo memorabile affresco etnologico ed etnografico
che ebbe – e ancora ha – larga fortuna, specie nel Campidano. Ma
ebbe notorietà anche fuori dalla Sardegna e fu consultata persino da Antonio
Gramsci e Max Leopold Wagner.
Il motivo della pubblicazione è spiegato dall’Autore stesso nella presentazione
della prima edizione, rivolgendosi a is benevolus lettoris: Sa Coia de
Pitanu, chi deu hosi presentu in custa cumme-dia, sighia de una Farsa, non fiat
nascia po conosciri sa luxi de sa stampa, ma cumposta in is oras liberas po ricreazioni
propria. Depustis però chi, ancora manoscritta, hat fattu su giru de is
famiglias in Gergei e in medissimas ateras biddas, i esti istetia rappresentada
cun accoglienzia cortesa in is teatrinus socialis de Monserrau e de Gergei, hapu
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depiu cediri a is replicadas insistenzias de is numerosus e carissimus amigus mius,
is calis dda boliant pubblicada po donai a is compatriottus una lettura amena,
onesta e utili a su populu, scritta in su puru dialettu sardu, asuba de is usus e
costuminis antigus. (Il matrimonio di Pitano, che io vi presento in questa
commedia, seguita da una Farsa, non era nata per conoscere la luce della
stampa, ma composta nelle ore libere per ricreazione propria. Però, dal
momento che, ancora manoscritta, ha fatto il giro delle famiglie in Gergei e
in moltissimi altri pae-si, ed è stata rappresentata con cortese accoglienza
nei teatrini sociali di Monserrato e di Gergei, ho dovuto cedere alle ripetute
insistenze dei numerosi e carissimi amici miei, i quali la volevano pubblicata
per dare ai compatrioti una lettura piacevole, onesta e utile al popolo,
scritta nel puro dialetto sardo, secondo gli usi e costumi antichi).

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA, 1 Carlo Setzu

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA; 1. Carlo Setzu.

di Francesco Casula

Carlo Setzu (seconda metà secolo XIX – ?)
Nasce a Pirri ( frazione di Cagliari ). Studioso di storia locale e scrittore. Entrò in seminario e divenne sacerdote. Diresse per alcuni anni il periodico Voce Mariana. Tra i suoi scritti La barbagia e i barbaricini (1911), Antico simulacro di Santa Maria Chiara (1917), Calendario storico descrittivo sardo (1918).
Ma in questa sede a noi ci interessa esclusivamente per la sua commedia CUNC’ALLICU * , Commedia di Quattro Atti, in dialetto meridionale sardo, recita il titolo nella copertina.
Ancora prima di essere pubblicata, la sera di Pasqua del 1929 viene rappresentata la prima volta a Pirri dove Setzu è nato, dalla Filodrammatica del Circolo giovanile cattolico Sacro Cuore, mentre la sera del 2 febbraio viene rappresentata a Quartu sant’Elena nel Teatro del Circolo Contardo Ferrini.
Nella breve presentazione, rivolgendosi Al benevole Lettore l’Autore così lo avverte: “Ho scritto questa commediola,allo scopo di lasciare alla nuova generazione, che si alleva sotto il civile e benefico impulso dei nuovi tempi, una pallida idea di quella che fu la Sardegna, coi suoi usi, coi suoi costumi, colle sue ridicole superstizioni, col suo dialetto semplice e rustico.
Il mio lavoruccio però non rappresenta che un tentativo per invogliare altri, più competenti di me, a portare un sassolino sul piedistallo purtroppo poco elevato, del teatro dialettale sardo. Quindi non ha pretese ma solo si affida al benevolo compatimento del lettore il quale, se non altro, potrà procurarsi un quarto d’ora di buon umore”.
Segue il luogo della composizione (Pirri-frazione di Cagliari) e la data 1930 – A. VIII. A indicare l’ottavo anno fascista.
Vedremo infatti che pur avendo come unico obiettivo quello di procurare un quarto d’ora di buon umore al lettore, in realtà la commediola è anche un panegirico del regime e del suo condottiero, protagonisti del cambiamento, del progresso e della evoluzione dell’Isola. Così infatti Setzu fa dire a uno dei suoi personaggi, GAVINO, il figlio medico di CUNC’ALLICU e a lui rivolto :”Fianta àtturus tèmpus cussus dde fostèti. Oi sa Sardigna est cambiada, poìta esti prus civili. Ita ndi boleisi accabai bosu. Si depèis rassegnài, poìta su mundu, est in evoluzioni, bollu nai, continuamenti progredèndi.Sa Sardigna nosta, in àtturus tempus, fiada cunsideràda cumente terra dde esilio, terra de sànguinarius, terra abbruxiada. Oi issa est’istètia portàda a livellu de is ateràs regiònis italianas, po opera de su grand’Omini chi règgidi sa sorti de sa Nazioni nosta :Benitu Mussolini” (Erano altri tempi quelli vostri. Oggi la Sardegna è cambiata perché è più civile. Cosa volete concludere voi. Dovete rassegnarvi, perché, voglio dire, il mondo è in evoluzione, e continuamente progredisce. La nostra Sardegna, in altri tempi, era considerata una terra di esilio, terra di sanguinari, terra bruciata. Oggi essa è stata portata allo stesso livello delle altre regioni italiane per opera del grand’Uomo che regge le sorti della nostra Nazione:Benito Mussolini).
*Cunc’Allicu: Cuncu (o Concu) è – scrive Giovanni Casciu, autore di un pregevole Vocabolario Sardu-campidanesu/Italiano – “una voce di rispetto che si usa rivolgendosi ai nonni o ai vecchi in genere, sempre seguito dal nome proprio”. In questo caso da Alliccu, diminutivo di Raffaele, dunque Raffaelliccu, di qui “Alliccu”, il nome del protagonista della Commedia.

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO

 

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO
 
di Francesco Casula
 
Da sempre si è favoleggiato di Giorgio Napolitano figlio di Umberto II. Un giornalista, certo Cristiano Lovatelli Ravarino lo ha scritto esplicitamente in un articolo il 5 marzo 2012 in cui parla della madre di Napolitano che, “dama di compagnia di Maria Josè, divenne amante di Umberto II, da cui sarebbe nato il nostro pargolo”. Penso che sia una fola e comunque non mi interessa: credo infatti che appartenga al genere gossip e scandalistico che tanto piace a certa stampa italica e a certa opinione pubblica decerebrata. Mi interessa (e indigna) invece l’essere lui stato un cinico ultrasabaudo, giustificatore dello sterminio piemontese nel Meridione, in nome dell’Unità d’Italia, celebrata come foriera “di magnifiche sorti e progressive” invece che fonte di disastri e infamie e di devastante colonialismo interno, consumato sulla pelle e sul sangue dei sardi e dei popoli del Sud. Ecco cosa dichiarava in veste di Presidente della Repubblica nel Discorso al Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150ºanniversario dell’Unità d’Italia: “Fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno” Pare che poco abbia imparato da uno che avrebbe dovuto essere, in quanto comunista, un suo maestro. Mi riferisco ad Antonio Gramsci che ha scritto:” “Lo stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.” Molti furono, infatti, i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare prima di tutti il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, e poi San Lupo ed altri paesi completamente rasi al suolo, Casalduni e Pontelandolfo che il Generale Cialdini fece distruggere ed incendiare dopo aver fatto trucidare i cittadini inermi. La crudeltà di quella che fu una vera e propria guerra civile, si manifestò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri dei briganti o delle loro teste mozzate. E passi non aver ascoltato Gramsci, per lui troppo di sinistra, ma almeno da un giornalista moderato come Paolo Mieli, avrebbe dovuto imparare qualcosa. Ecco quanto ha sostenuto il prestigioso giornalista e storico :”Il Sud è vittima di una storia negata e con l’occupazione piemontese ha subito massacri e stupri indicibili, citando Pontelandolfo e Casalduni, i nazisti hanno imparato dagli italiani”. Ma tant’è: il pluripresidente ultrapatriottardo e statalista, giustifica tutto ciò in nome e per conto del superiore valore dell’Unità. Alla stessa maniera giustificò, anzi elogiò senza mezzi termini il brutale intervento dei carri armati di Mosca in Ungheria, parlando nell’VIII congresso del Partito comunista italiano, (che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956) e sposando totalmente la linea stalinista dettata dal segretario Palmiro Togliatti. Questa volta in nome dei superiori valori dell’URSS e dell’Unità dei Paesi Comuinisti! Qui mi fermo: ma occorrerà pur ritornare al suo novennato come Presidente della Repubblica, segnato da una serie di decisioni e comportamenti nefasti: il suo ruolo nella guerra alla Libia, il suo (vergognoso) no a Gratteri ministro della Giuistizia, la nomina di Monti capo del Governo ma soprattutto i suoi comportamenti e atti, per lo meno obliqui, nei confronti della trattativa Stato-mafia

Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua morte

Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita.

di Francesco Casula

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti”
nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916.
Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di Pirandello.
Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna” – con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.
Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.
Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.
Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.
Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di Ceux d’Arasolè).
Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.
Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni – il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.
Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.

9 settembre: ANNIVERSARIO DI UN ‘ INFAMIA

9 settembre: ANNIVERARIO DI UN’INFAMIA

di Francesco Casula

ieri 9 settembre ricorreva l’Anniversario di un’infamia, di cui si macchiò ignominiosamente Vittorio Emanuele III (più conosciuto come Sciaboletta): la quinta. Dopo le due Guerre mondiali di cui fu grande ed entusiasta sostenitore, dopo il Fascismo, che volle al potere nominando Mussolini capo del governo, dopo le leggi razziali.
Ecco cosa fece il 9 settembre del 1943.
Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, dal punto di vista politico come militare – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
12 mila giovani sardi, anche giovanissimi (18-20 anni) furono internati nei campi di concentramento. Di questi pochissimi torneranno liberi in Sardegna mentre degli altri, ancora oggi non sappiamo niente. La Regione sarda in questi 80 anni non ha speso un soldo per fare ricerche negli Archivi militari per sapere dove e come sono morti questi giovani.
E’ il nostro Olocausto: che i libri di storia e i Media in genere, si guardano bene dal ricordare. L’Olocausto è sempre quello che riguarda gli altri, non noi sardi.

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

di Francesco Casula

Claudia Aru incardina e incarna il suo essere donna e artista nell’essere sarda. La sua sardità infatti (o sarditudine che dir si voglia) sostanzia, corrobora e plasma la donna e l’artista che è in lei.
Donna decisa empatica brillante. Artista esplosiva intrigante poliedrica e versatile. Compone recita balla inventa. Canta e incanta. E’ affilata e creativa affabulatrice. Una completa e deliziosa cabarettista: se questa figura non fosse ridotta – come oggi rischia – a mero guitto che diverte e ispassia.
Sia ben chiaro, la componente ludica e scherzosa in Claudia Aru è presente: ma la sua attività/arte non può essere ridotta a puro divertissement e gioco. E’ sempre presente e sottesa la dimensione dell’engagement, dell’impegno, del messaggio, culturale e persino politico: mai insistito e predicatorio, spesso subliminale e in suspu ma talvolta anche esplicito diretto e aperto: invitante e persino incitante alla lotta per il cambiamento.
Un messaggio profondamente identitario: ad iniziare dalla lingua sarda che utilizza. Di una identità dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Non immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli umani – come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano cambiano sono ibridi creoli e multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo.
L’Identità cui si rifà Claudia Aru – almeno questo ho capito, assistendo ai suoi Concerti, ascoltando le sue canzoni e leggendo i suoi testi – opera come un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre dunque partire dal “luogo della differenza” per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra.
L’Identità non è mai definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme, dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.
Si muove sulla medesima dimensione la sua musica: antica e moderna insieme. Ricca di contaminazioni e ibridazioni. Come i suoi testi in cui fa ressa la tradizione e l’innovazione: tradizione vissuta e considerata – per usare il fulminante aforisma di Gustav Mahler, grande compositore austriaco – “come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
La caratteristica fondamentale di Claudia Aru è però l’ironia: quell’ironia che Lussu sosteneva essere “atavicamente sarda”. Emerge sempre nei suoi spettacoli e nei suoi Concerti e nelle sue canzoni: ma segnatamente quando utilizza la variante campidanese della lingua sarda. Perché essa s’impernia su una abitudine canzonatoria e ironica: meno sonora e sostenuta del logudorese, si presta infatti maggiormente alla beffa e al rapido motto. Essa infatti già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni e suoni atteggiati dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega – fra l’altro – perché in sardo-capidanese sono stati prodotti capolavori come “Sa scomunica de predi Antiogu” e testi teatrali memorabili come “Bellu schesc´e dottori” di Emanuele Pili o “Ziu Paddori” di Efisio Vincenzo Melis.

AMENTENDE A ZUANNE FRANTZISCU PINTORE A 84 ANNOS DAE SA NÀSCHIDA

AMENTENDE A ZUANNE FRANTZISCU PINTORE
A 84 ANNOS DAE SA NASCHIDA

GIANFRANCO PINTORE
Il giornalista, saggista e scrittore bilingue e identitario (1939-2012)
Gianfranco Pintore nasce ad Irgoli (Nuoro) il 31 agosto 1939. Nel 1951 lascia la Sardegna. A Firenze frequenta il ginnasio, il liceo classico e si iscrive all’Università. Ha in testa un’idea: la laurea non serve per il mestiere di giornalista che vuol fare e fa gli esami che gli interessano: in Architettura con Ludovico Quaroni, in Scienze politiche con Giovanni Spadolini, di Giurisprudenza. Intanto, a partire dal 1962 fa il “volontario di cronaca” nella redazione fiorentina di “L’Unità” e nel 1965 è chiamato alla redazione centrale a Roma, per la quale lavora prima nella sezione cronaca e quindi in quella degli esteri. È inviato speciale e per un certo periodo corrispondente da Varsavia. Dopo le sue dimissioni da ”L’Unità” in seguito all’invasione della Cecoslovacchia, lavora nel settimanale “Mondo Nuovo” e quindi, a Milano, nel settimanale “Abc” come inviato e infine come redattore capo.
Nel 1973 stipula con la casa editrice Mazzotta di Milano un contratto per la redazione di un saggio che l’anno successivo è pubblicato con il titolo “Sardegna: regione o colonia?”. È lo studio del rapporto conflittuale fra la comunità di Orgosolo e lo Stato, giocato fra storia, tradizione orale, testimonianze, ed è anche la ricerca di quanto Orgosolo rappresentasse lo spirito dell’intera Sardegna, di quanto in altre parole la Sardegna potesse sentirsi rappresentata dal sentimento comunitario del paese, altrimenti e altrove descritto come “il paese dei banditi”.
All’uscita del libro decide di restare in Sardegna, come corrispondente di “L’Espresso” di Eugenio Scalfari prima e successivamente di “Tempo illustrato” di Lino Jannuzzi. Lavora anche per “La Nuova Sardegna” di cui fa l’inviato e conduce una serie di campagne di stampa. Quella per il bilinguismo e quella per la Zona franca gli costerà il licenziamento in tronco per richiesta esplicita di un dirigente di partito decisamente contrario e all’uno e all’altra. Dirige a Nuoro la prima, e per ora unica, radio libera bilingue, “Radiu Supramonte” e fonda a San Sperate il mensile “Sa Sardigna”, anch’esso bilingue.
Nel 1981 esce il suo romanzo in italiano Sardigna ruja, storia della contrastata industrializzazione forzata delle Terre interne della Sardegna che ha come effetto il sorgere di una banda guerrigliera che dà il nome al romanzo. A questo fa seguito, nel 1984, Manzela, romanzo in italiano sugli effetti che il conflitto fra codice italiano e legge consuetudinaria ha sulla vita di un giovane intellettuale e della sua compagna, Manzela (Mariangela).
Dalla seconda metà degli anni Ottanta alla prima metà del decennio successivo a Cagliari dirige il periodico del Partito sardo d’azione “Il Solco”. Nel frattempo, nel 1986, pubblica con Rizzoli Sardegna sconosciuta, un viaggio in cento tappe all’interno della civiltà dei sardi per raccontare a turisti curiosi l’altra faccia, quella più intima e insolita, di un’isola prevalentemente visitata per le sue spiagge (una seconda edizione, riveduta e corretta, è pubblicata, sempre da Rizzoli, nel 2001).
Nel 1989 il suo romanzo Su Zogu ottiene il premio Casteddu de sa Fae di letteratura n lingua sarda : in un futuro non molto lontano, in una Sardegna divisa tra Coste e Terre interne, un gruppo di giovani si ribella alla dittatura paternalistica imposta al centro dell’isola. Nel 2000, con il titolo La caccia, ne esce la traduzione in italiano.
Nel 1996, pubblica il saggio sul federalismo La sovrana e la cameriera, titolo evocativo del rapporto esistente fra l’autogoverno pieno che avrebbe dovuto realizzare i diritti storici della Sardegna in quanto nazione e l’autonomia storicamente realizzatasi in Sardegna.Tornato a Nuoro, dirige l’emittente bilingue “TeleSardegna”, per la quale cura anche il primo telegiornale in sardo, Telediariu, e fa l’editorialista per il quotidiano “L’Unione sarda”.
Nel 2002, pubblica il romanzo in sardo “Nurai”. Nel 2006, insieme a Natalino Piras e a Giulio Angioni, pubblica il volume Lula. Nel 2007 scrive un altro romanzo in lingua sarda Morte de unu Presidente, un noir che prende le mosse dall’assassinio del Presidente della Regione sarda. Sembra un omicidio a sfondo sentimentale ed è ben altro. Nel 2009 pubblica un altro romanzo in lingua sarda Sa losa de Osana (La stele di Osana).
Nel 2011 scrive il suo ultimo romanzo, Il grande inganno, in italiano.
Muore a Orosei il 24 settembre 2012, dopo una lunga malattia.

Frantziscu Cillocco bocchidu dae sos saboias

Frantziscu Cillocco bocchidu dae sos saboias.

di Francesco Casula

Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.
Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.
Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.
“L’invio dei tre commissari, secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).
Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).
Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo
aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).
Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)
A Osilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.
Una lotta che assume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).
I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano – vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” (6).
Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7).
Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche
del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la
qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.
Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno “l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.
A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono con 500 uomini armati.
Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.
Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.
“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell’esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell’imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” ( .
E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.
Negli ultimi mesi del 1799 c’era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).
Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull’irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All’uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che alla proclamazione della repubblica sarda.
Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.
Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10).
L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore
come il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”
La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi.
Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.
Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.
“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).
“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).
”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.
Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia e Carlo Felice in primis.
Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare!
Note bibliografiche
1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.
2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.
3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.
4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.
5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.
6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 156.
7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.
8. Bruno Anatra, Dizionario Biografico degli Italiani, Ed.Treccani, Volume 25 (1981).
9. Eliseo Spiga, La sardità come utopia – Note di un cspiratore, Cuec, Cagliari 2006, pagina 105.
10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino 1887, pagina 45.
11. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 159.
12. Fabritziu Dettori, Francesco Cilocco, un eroe dimenticato, in Sotziu Limba sarda, 10-5-2005.
13. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 847.

Fra Atlantide e la civiltà nuragica.

Fra Atlantide e la civiltà nuragica.

di Francesco Casula

Storici e studiosi sardi, in genere fuori dalla cerchia accademica, ma non per questo meno rigorosi, soprattutto da qualche anno, dedicano le loro ricerche alla storia nuragica: fra questi ricordo Sergio Frau, che da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo. Di contro, il Quotidiano la Repubblica, di cui è autorevole redattore, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia – di dominare sull’Isola. Ma con la Repubblica, unu grustiu mannu di accademici, archeologi, sovrintendenti, accecati dall’eurocentrismo e dalla xenomania, dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi, costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza. Che produce oro, argento, rame, ambra, formaggi, sale, stoffe, vini, vetro. E la musica delle launeddas. Una Sardegna organizzata in una confederazione di libere e autonome comunità nuragiche, mentre altrove dominano monarchi, faraoni e tiranni. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà e all’egualitarismo; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati. Una Sardegna, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che opprimono i popoli. Che a migliaia per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù, si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Finchè i Cartaginesi prima e i Romani poi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola.