IL VOLTAGABBANA: Il caso di Marcello de Vito (5stelle ) e due casi letterari…

 
 
 di Francesco Casula
La fauna parlamentare italica dei voltagabbana aumenta viepiù: l’ultimo caso, in ordine cronologico, riguarda tal Marcello De Vito, dei 5stelle, che fu primo candidato sindaco per lo stesso Movimento a Roma nel 2013, e attualmente è presidente dell’Assemblea capitolina, (oltre che a processo in primo grado con l’accusa di corruzione). Ha cambiato casacca abbandonando il suo Movimento e passando a Forza Italia, fino a ieri considerata (e forse non a torto) simbolo del male assoluto, della corruzione e della mala politica. Sia ben chiaro: cambiare opinione non solo è legittimo ma anche doveroso. Cosa diversa è quando si cambia casacca per motivi che niente hanno a che spartire con il “pensiero”. Ma sono da ricondurre a mero opportunismo politico e interesse personale (spesso semplicemente economico): a mio parere il più dei casi. Sia ancora ben chiaro: i voltagabbana sono sempre esistiti. Il trasformismo caratterizza tutta la storia italica e viene da lontano: era praticato abbondantemente ai tempi del regno dei tiranni sabaudi di fine Ottocento: specie con Agostino Depretis capo del Governo. Ma è soprattutto nell’ultimo decennio che il bestiario dei voltagabbana si è moltiplicato: Un dato può essere paradigmatico e illuminante e attiene ai parlamentari che nella scorsa legislatura (la XVII) hanno cambiato “casacca”: ovvero sono transitati da un partito a un’altro (o, addirittura, a più partiti). Ecco quanto riferisce Il Sole 24 ore del 26 dicembre 2017: “È stata la legislatura più instabile della storia della Repubblica: in 57 mesi i cambi di casacca sono stati la cifra record di 566. Venti solo nella settimana prima di Natale. Un valzer che – secondo i calcoli di OpenPolis – ha coinvolto 347 parlamentari. Dunque il 35,53% degli eletti ha cambiato casacca almeno una volta. In 57 mesi di legislatura significa una media di 9,58 cambi al mese. Un numero più che raddoppiato rispetto alla XVI legislatura (2008-2013) che aveva contato 4,5 cambi di casacca al mese. Alla Camera dei deputati sono stati registrati 313 cambi di gruppo, con 207 deputati coinvolti, che rappresentano il 32,86% della platea di parlamentari di Montecitorio. A Palazzo Madama sono stati 253 cambi di casacca e 140 senatori transfughi (43,57%). In base all’articolo 67 della Costituzione «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». E dunque può cambiare gruppo. Anche più volte. Il fenomeno è entrato persino nella Letteratura. A metà Ottobre del ’22, dunque meno di due settimane prima della nomina di Mussolini a capo del governo, – è l’autore a riferircelo in Marcia su Roma e dintorni – Lussu ha un colloquio a Roma con l’on. Lissia. Questi sosterrà enfaticamente: ”Se il fascismo trionfa la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli”. E ancora: “Abbiamo il dovere di batterci fino all’ultima goccia di sangue. Se non lo faremo sarà l’onta per noi e per i nostri figli”. “Ci salutammo come due combattenti –prosegue Lussu – che si danno appuntamento in trincea. Dopo di che rientrai in Sardegna ed egli rimase a Roma per sistemare degli affari”. “Quale non fu la mia meraviglia nell’apprendere, subito dopo la «Marcia su Roma» che egli faceva parte del Ministero di Mussolini, come sottosegretario alle Finanze”, commenta Lussu. Ma di un politico voltagabbana e incoerente “che proprio non sa rinunciare a un padrone a cui obbedire” parla anche una recente commedia del giornalista e scrittore Pietro Picciau, tradotta in sardo da Ottavio Cogiu ( Il Servo, in Teatro oggi-Commedie e monologhi di Pietro Picciau/Oindì-Cumedias e monologus- Cuaturu operas transladas in lingua sarda de Otaviu Congiu).

Identità e folclore. La lezione di Gramsci

Identità e folclore. La lezione di Gramsci
Di Francesco Casula
La Sardegna è stata fin troppo folclorizzata dagli “stranieri” che si sono affacciati a guardarla e ne hanno subito il fascino, segnando talvolta nei loro taccuini cose inesistenti: a questo riguardo rimando al romanzo Assandira di Giulio Angioni o a Tarquinio Sini, noto soprattutto come pittore e caricaturista dai tratti rapidi ed essenziali (Sassari 1891– Cagliari 1943), che – in un romanzo dal titolo A quel paese… Romanzo moderno (ad imitazione di molti altri) per uso esterno,( Ed. S.E.I. Cagliari 1929) – si diverte ironicamente a rivelare ai non sardi l’immagine di quella che essi ritengono sia la vera Sardegna, quella infestata da terribili banditi pronti a sparare e a uccidere, con indosso il classico costume sardo: con la berretta infilata sulla testa che non ha mai conosciuto le forbici del coiffeur, il sottanino di orbace e le brache bianche…i turisti davanti a questi ceffi, dai barboni arruffatti, passano da una emozione all’altra…chi viene in Sardegna in cerca di emozioni e prova tutto ciò può chiamarsi fortunato, scrive Sini. E questa è la Sardegna che vogliono i turisti, sembra dirci. E quando l’Isola non risponde alle aspettative dei vacanzieri, magari ricchi ed annoiati, la si “maschera” riportandola al passato o a un’immagine che tale si ritiene abbia avuto.
Ecco a questo proposito un passo del romanzo, in cui il maître dell’albergo: dopo una notte insonne, una di quelle notti che portano consiglio, impartisce ordini e contrordini al suo personale.
-Questa siepe di fichi d’india di qua! Quest’altra di là, più su più giù!
Questi asinelli? In ordine sparso: un po’ ovunque. Via fatemi sparire quel camioncino! Al suo posto un carrettino…bravo! Il somaro più rognoso. Adesso incominciamo ad andar bene! Il Nuraghe lassù: sulla collina al centro. Oh benissimo!…E il paesaggio sardo prende subito quel caratteristico aspetto della vera Sardegna, di quella Sardegna che tutti conoscono senza aver mai visto e che soltanto i trucchi del modernismo invadente tentano occultare.
Ma manca ancora qualche cosa: ecco allora che “bisogna far passare qualche numeroso gregge da queste parti…” afferma ancora il maître. “E dopo qualche istante… ecco il colore locale. E anche l’odore …
La Sardegna – signori miei – dopo tanti anni si risveglia e senza lavarsi la faccia si rimette in cammino. Così la vogliono i poeti e i curiosi di là dal mare. Sia fatta la loro volontà!.
E’ questa la conclusione, fra l’ironico e il melanconico e l’amaro, del romanzo di Sini. Siamo nel 1929 ma pare che le cose non siano cambiate granché.
Il tema è stato analizzato anche da Gramsci segnatamente nelle Lettere dal carcere.
Sì, le tradizioni popolari: le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche… le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio … le feste di Sant’Isidoro”.
Sai – scrive dal Carcere in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa.
In altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. Solo così – fra l’altro – l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore.
In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è, e occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita, riflesso della condizione di vita culturale di un popolo in contrasto con la società ufficiale.
Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero: l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce, malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata,nella celebrazione di quei «valori» che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le «operazioni conservatrici e reazionarie», legando vieppiù il folclore «alla cultura della classe dominante » .
In altre lettere – per esempio in quelle del Novembre del 1912 e 26 Marzo del 1913 alla sorella Teresina – chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada.
In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas. E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: lassa su figu, puzzone.
Ma il “Sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto solo sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia, di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna:” Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (“Avanti”, edizione piemontese del 13 Luglio 1919).
Spesso però la Sardegna è stata folclorizzata anche dai residenti, in una sorta di ripiegamento su se stessi, o nella esibizione di una straripante diversità.

L’identità per evitare il declino della Sardegna

L’Identità per evitare il declino della Sardegna
di Francesco Casula
Silvano Tagliagambe, brillante filosofo ed epistemologo, molto noto anche in Sardegna – fra l’altro per aver insegnato all’Università di Cagliari – in un recente articolo dal titolo molto significativo “Basta con l’illuminismo applicato, contro il declino dell’isola servono partecipazione e identità locali”, fa piazza pulita di una serie di luoghi comuni sull’Identità. “Essa rappresenta – scrive – un elemento la cui creazione e il cui consolidamento scaturiscono da tutte le funzioni, gli aspetti e i processi che costituiscono un importante fattore di coesione e di stabilità di un territorio … Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia sviluppando «reti di protezione» alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale. Il concetto di identità, in questo quadro generale, è dunque espressione diretta della struttura sociale e delle relazioni fra i soggetti che la compongono. A caratterizzarlo è l’intreccio di fattori fisici, culturali, relazionali ed economici che determinano la forma e la qualità dei singoli insediamenti e condizionano la formazione della base economica e produttiva di ogni specifica comunità. L’aspetto importante del riferimento a questi concetti è che da essi scaturisce una chiara indicazione dell’impossibilità di prescindere, nella formulazione delle politiche di crescita e di sviluppo territoriale, dalle comunità locali e dalla partecipazione e dal coinvolgimento dei soggetti che le compongono. Questo è il senso della sfida posta oggi alla classe politica e ai responsabili del governo dei sistemi sociali dall’esigenza, sempre più sentita, di fare della partecipazione ai processi decisionali e della condivisione degli obiettivi di gestione del territorio, innovazione e di crescita la base di una nuova cultura diffusa, di un nuovo «senso comune» e di un nuovo modello organizzativo, più efficaci e rispondenti alle esigenze ormai indifferibili alle quali occorre far fronte se si vuole evitare di cadere in un declino che si profila sempre più incombente e minaccioso”. Dunque – secondo Tagliagambe – per “evitare il declino” economico, prima ancora che sociale e culturale, per la crescita e lo sviluppo territoriale, occorrono identità locali, orgoglio e senso di appartenenza. E’ una rigorosa risposta ai laudatores della globalizzazione e della omologazione che negano l’Identità sarda o comunque la combattono, dopo averne fatto la caricatura. Ridotta infatti a feticcio o a folclore, a dato immutabile e immobile, è evidentemente facile contestarla e negarla. Essa invece è un elemento dinamico, da rielaborare continuamente. E non deve essere concepita come un guscio rassicurante che ci garantisce e ci difende dallo spaesamento indotto dalla globalizzazione e/o dalla diversità: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità e per abitare il mondo, aperti al suo respiro, lottando contro il tempo della dimenticanza. L’identità si vive dunque nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che diventa progetto – anche economico – e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. Altro che feticcio o folclore!

200 annos e prus…de italianizatzione linguistica e culturale de sa natzione sarda

 di Francesco Casula
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna“.
Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.
Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale e linguistica, -che per l’Isola significherà dessardizzazione- la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.
A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica)
Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo però estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!
L’idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare de sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra.
Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.
E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“ nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!
Qualche anno dopo Giovanni Spadolini, da Presidente del Consiglio nel 1981 giustifico la bocciatura da parte del Governo della Proposta di bilinguismo con la stessa motivazione: ”Attentato all’Unità della Nazione!”
E oggi? Qualcosa inizia a muoversi, specie in seguito alla Legge regionale n.26 e a quella statale la n.482. Ma si tratta solo di sperimentazioni e progetti fatti a livello individuale, da parte di alcuni docenti o di singole scuole.
La lingua sarda –e con essa la storia, la letteratura, la cultura etc- rimane esclusa dai programmi e dai curricula scolastici. E ciò, nonostante i programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore raccomandino di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione.
La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene infatti che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i giovani, ancorandoli fortemente alle loro “radici” etno-storiche, etno -culturali ed etno-linguistiche, senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui giovani, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.200° annos e prus…de italianizatzione linguistica e culturale de sa natzione sarda. di Francesco Casula
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna“.
Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.
Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale e linguistica, -che per l’Isola significherà dessardizzazione- la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.
A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica)
Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo però estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!
L’idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare de sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra.
Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.
E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“ nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!
Qualche anno dopo Giovanni Spadolini, da Presidente del Consiglio nel 1981 giustifico la bocciatura da parte del Governo della Proposta di bilinguismo con la stessa motivazione: ”Attentato all’Unità della Nazione!”
E oggi? Qualcosa inizia a muoversi, specie in seguito alla Legge regionale n.26 e a quella statale la n.482. Ma si tratta solo di sperimentazioni e progetti fatti a livello individuale, da parte di alcuni docenti o di singole scuole.
La lingua sarda –e con essa la storia, la letteratura, la cultura etc- rimane esclusa dai programmi e dai curricula scolastici. E ciò, nonostante i programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore raccomandino di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione.
La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene infatti che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i giovani, ancorandoli fortemente alle loro “radici” etno-storiche, etno -culturali ed etno-linguistiche, senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui giovani, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.

SA CHISTIONE DE SA LIMBA IN MONTANARU E OE

SA CHISTIONE DE SA LIMBA IN MONTANARU E OE
de Frantziscu Casula
Comitadu pro sa limba sarda

Antiogu Casula, prus connotu comente Montanaru (su proerzu suo), forsis su poeta sardu
prus mannu, subra de sa Limba at iscrittu cosas chi galu in die de oe sunt de importu mannu,
non solu in su chi pertocat sa funtzione de su Sardu in sa poesia, s’iscola, sa vida de sa zente,
ma puru pro cumprendere sa chistione de s’unificatzione o, comente si narat cun una paraula
moderna, sa «standardizatzione».
Comintzamus a amentare chi Montanaru at poetadu in sardu ebia, iscriende in
logudoresu, pro ite – narat in un’iscritu – «è l’idioma che mirabilmente si presta ad ogni
genere di componimento, in prosa come in versi, ritenuto per molto tempo la sola lingua
letteraria dei sardi».1
Ma puru ca – arregordat su ghenneru Giovannino Porcu – «gli consentiva di
riannodare le trame dell’espressione col frequente ricorso alla lingua barbaricina come ad
una sua personale esperienza di gioia e di dolore».2
Pro Montanaru difatis:
Come la lingua ingenua e immaginosa dell’umile pastore, che ha nell’animo lo stupore delle
notti stellate o lo sgomento delle albe gelide, riassume le impressioni di una vita trascorsa
nell’alternarsi di speranze e timori, così il mio Logudorese, che ha i suoni e le voci della terra
natale, il sapore del latte materno, il sangue dei fieri barbaricini, riassume la forza e la speranza, i
dolori e le gioie della Sardegna e della sua gente.3
Bidu dae cust’ala su logudoresu de Montanaru – giai gudicadu e cunsacradu dae su
populu prus chi dae sos criticos – cuntribuit sena dudas, comente at a iscriere Francesco
Alziator, «a sciogliere il nodo dell’eterno problema dello scrittore che nega l’autorità e la
coattività del lessico e si fa lui la lingua sconfinando dalla tradizione, ricercando altrove,
respingendo e modificando».4
E semper in s’iscritu mentovadu in antis, Montanaru acrarit:
Io non sono un linguista e tanto meno possiedo le armi del filologo. Sono un adoratore della
lingua sarda nella molteplicità dei suoi dialetti. È una religione questa che io sentii nascere
nell’infanzia ascoltando la dolce e savia loquela dell’avola mia e la sentii maggiormente quando
alle prese con le prime difficoltà scolastiche, nell’impossibilità di compitare, non vedevo l’ora di
trovarmi libero con i miei coetanei per rivelare l’ardore della mia anima con prontezza di spirito e
proprietà di linguaggio E la sento profondamente oggi ascoltando i vari dialetti del mio popolo i
quali, comunicando tra loro, conservano la loro vitalità e costituiscono nel loro insieme la vera
lingua sarda, quella che obbedisce alla libertà creativa del poeta e che del poeta trasmette la
visione e l’immagine del mondo.
Montanaru impreat sa limba de sa mama in cada si siat manera e cun balentia manna.
Est pro more de sa limba sarda chi issu podet arribare a iscriere poesias mannas e galanas.
In sa poesia sua si nuscat frischesa e sincheresa:
Un popolo senza dialetto – scrive – se potesse esistere bisognerebbe immaginarlo vecchio,
compassato, retorico, accademico, freddo e burbero: privo delle tenerezze dell’infanzia, senza le
gioie dell’adolescenza e l’esuberanza della gioventù. E come questi tre stati dell’età umana
vengono a completare l’uomo, così i processi linguistici del dialetto rendono fresca, semplice,
immaginosa una lingua: servono a svariarne lo spirito, agitarne le movenze, a renderla insomma
viva e interessante, semplice e piana.6
E cuncruiat:
Nessun progresso potrà significare la scomparsa del nostro patrimonio dialettale perché ciò
che è intimità della nostra natura rimarrà sardo nel bene e nel male.7
Su poeta de Desulo, però, in sa limba non biet ebia una funtzione literaria e poetica,
ma puru una funtzione tzivile, de educatzione, de imparu pro sa vida. In su Diariu suo iscriet
gosi:
[…]il diffondere l’uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli
educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo
modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la
personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci
faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino
.8
E galu:
Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li
circonda usando la lingua materna.9
Diat essere – comente podet cumprendere cada unu de nois – chi cada mastru de iscola
imbetzes de cundennare sa limba e sa curtura de su logu de sos dischentes, a issos los depet
zunzullare a connoschere e istudiare e imparare cun su limbazzu issoro, una manera de
essere, de fàghere, de cumprendere, ebia gai si trasmitit a beru sa curtura de su logu, in
iscola. Oe, totus sos istudiosos: linguistas e glotologos, e totus sos scientziaos sotziales:
psicologos e pedagogistas, antropologos e psicanalistas e peri psichiatras, sunt cuncordos a
pessare, narrere e iscriere de s’importu mannu de sa limba sutzada cun su late de sa mama.
Su chi narant est chi pro creschere bene su pizinnu, pro aere elasticidade e impreare comente
tocat s’intelligentzia, a imparare duas limbas li fàghet bene e l’agiudat puru a creschere
mengius. Est in sos primos tres annos de vida chi su pilocheddu cumintzat a aere
s’abecedariu in conca, e puru si a s’incuminzu de s’iscola sas allegas, sa gramatica, sas
maneras de narrere parent amisturadas, sa conca sua est giai traballende pro assentare totu,
una limba (su sardu) e s’atera (s’italianu). Nos ant semper narau chi su sardu limitaiat
s’italianu e imbetzes est a s’imbesse. Una limba cando la sues e la faghes tua dae minore,
t’imparat unu muntone de cosas. T’imparat a biere su mundu in una certa manera, t’imparat a
assentare sos pessamentos, t’imparat a ti guvernare a sa sola dandedi unu sensu mannu de
responsabilidade, ca est una cosa tua, ca l’as intesa e impreada dae minore. Gasi si podet
badiare a in antis e cumprendere totu su chi tenes cara cara, cun curiosidade e gana de
imparare.
S’americanu Joshua Aaron Fishman, istudiosu mannu de sotziu-linguistica lu narat
craramente: su «bilinguismu» no est de curregere, ne una cosa chi ti faghet trambucare, ma
una manera bona de imparare chi t’agiudat in sas intragnas de sa vida e cunfruntande-di cun
sos ateros. Limba e curtura de su logu de una pessone sunt medios e trastes de liberatzione,
de autonomia, pro ti podere guvernare a sa sola, de indipendentzia, serbint a s’isvilupu de
una pessone e mescamente de sos giovanos pro ite sa base abarrat su naturale issoro, partit
«dal mondo che li circonda»: pro la narrere a sa manera de Montanaru. Sa limba imparada in
domo e in ziru dae minore, serbit pro irmanigare sas cumpetentzias de comunicatzione, de
sinziminzos, e de cunfrontu cun s’ateru e li serbit puru pro imparare ateras limbas.
Li serbit a essere cussiente de s’identidade sua, de l’intendere balente, de l’impreare,
de non timere cumpetitziones ma de si cufrontare a barbovia cun atere, sena mancantzias. Li
serbit pro fagher sua s’esperientzia de s’iscola e de sa vida, imparende e boghende a campu
sas raighinas suas. Sa limba, s’istoria, sa curtura de su logu serbit a sos pitzinnos pro aere
sigurantzia in issos matessi, pro apretziare s’ambiente in ue istant, pro connoschere sos
balores de su logu issoro, primu intra totus s’istare paris, s’amistade e sa tratamenta, balores
o maneras de faghere de sa tzivilitade sarda chi sunt balentes meda. Pro los agiudare a
brusiare s’idea malavida de su «sardu» comente pessone limitada, comente curpa o neghe,
pro los agiudare a no si brigungiare prus de essere sardos, ma l’imparare chi est unu balore
mannu, comente essere albanesos, marochinos o palestinesos. Sos pitzinnos oe sunt male
chistionados, non tenent ne manera, ne allegas assentadas pro comunicare, imparant allegas
malas o gergo – comente aiat jai naradu Gramsci, prus de chent’annos faghet, su 26 de
Marztu de su 1926, in una litera indiritzada a Teresina, sa sorre prus pitica:
Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle
poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto
con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano
per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con
gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di
cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo
che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà
un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro.10
Gramsci est istadu unu profeta: oe in sa limba italiana de sos pitzinnos e puru de sos
dischentes e istudentes non b’est ne gramatica, ne faeddos comente si tocat, sunt torrande a
essere anarfabetas e custu est ca no ant un’apogiu de limba e de curtura, totu l’arribat dae
artu e custos abarrant a beru in sos astros de s’aghera sena l’ischire a ue si bortare.
S’istudiu e sa connoschentzia de sa limba sarda podet essere unu traste de importu
mannu pro los fagher torrare in su sucru e puru pro imparare mengius sa limba italiana e sas
ateras limbas, agiudande su piloccu a creschere imparende dae domo, dae s’iscola e dae sa
sotziedade sua e istrangia.
Ciò – ho già avuto modo di sostenere e di scrivere – grazie anche alla fertilizzazione e
contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue
e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e
partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di
appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e
necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e
mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo
di una identità etno-antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un
radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però
immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto
nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel
circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per
questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo
mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in
cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
La Lingua sarda infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio
ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione di
Giovanni Lilliu – «dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità
e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante
rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea».
Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico,
nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autogoverno e all’Autodeterminazione.
Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di
separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro
modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, «senza cedere alla
tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra
differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora
di significati auto depressivi».11
A pustis de custa depida e longa fughida de su sucru, torramus a Montanaru e sa
chistione cun unu certu Gino Anchisi, giornalista de s’«Unione Sarda». Tocat a amentare chi
semus in prena casione fassista. In su gazetinu prus connotu de s’Isula, Anchisi pro sa
publicada de Sos cantos de sa solitudine de Montanaru ispuntorat in Sardinnia una chistione
pro s’impreu de sa limba sarda. In un articulu inzidiat Montanaru a iscriere in italianu pro ite
unu poeta che a isse «che ha maturato l’ingegno alla severa discipline degli studi e considera
la poesia come una cosa seria», aiat diritu a unu publicu prus mannu. Cuncruiat narende chi
sa poesia dialettale fiat: «anacronistica, roba d’altri tempi» e chi tando si depiat arrimare in
su cuzone, in su furrungone, chi issu mutiat: «nel regno d’oltretomba».
Montanaru li torrat s’imposta in su matessi gazetinu, narende-li craru chi «i rintocchi
funebri» pro sa fine de sos dialetos, dae cada si siat banda esserent arribados, fiant a su
mancu primidios.
Sighit sa torrada de Anchisi chi faeddat de sa bezesa e de sa paga balentia de sa limba
sarda e de sa fine de sos dialetos e de sa Regione etotu: «Morta o moribonda la regione, è
morto o moribondo il dialetto». In sa briga ch’intrat puru Antonio Scano chi a pustis de aere
discutidu cun Anchisi subra de sa vitalidade de sa limba e de sa Regione sarda, gasi
cuncruiat: «La Regione non può morire, come non può morire il dialetto che ne è
l’insegna».12
Subra de totu custu at a torrare a iscriere puru Montanaru; s’articulu suo no at a essere
publicadu ne in s’«Unione» nen in s’«Isola de Tatari», chi peròe si giustificaiat cun una litera
de su 18 de Capidanne de su 1933, iscriende ca:
Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso
esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali
disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: «In nessun modo
e per nessun motivo esiste la regione». Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo
limitandosi a parlare di poesia dialettale senza toccare il pericoloso argomento.
Bene bennida siat sa veridade!
In sa torrada Montanaru at a fàghere, pro su sardu, unas cantas cunsideratziones
curiosas e in carchi manera bidende prus a in antis de sos ateros: at a amentare difatis chi «la
lingua dei padri» diat a poder arribare a essere «lingua nazionale dei Sardi» pro ite «non si
spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia
auctotona».

Su chi narat Montanaru in custas rigas est de importu mannu: dae un’ala disigiat e biet
pro su tempus benidore una casta de «lingua sarda nazionale unitaria»; dae s’atera, ligat sa
limba a su populu e a sa curtura sarda. Custos diant a essere parreres curturales, linguisticos
e politicos chi balent oe etotu, e chi ant a essere torrados a bogare a campu in sos annos ‘70
dae saligheresu Antonio Simon Mossa13 (ma galu a in antis dae Lussu e dae Gramsci e, a
pustis, mescamente dae Lilliu, Eliseo Spiga e Antonello Satta).
Ma su primu iscritore sardu chi ligat sa limba a su populu sardu, antis a sa «natzione
sarda», est Giovanni Matteo Garipa, chi in su 1627 bortat unu libru (Il Leggendario delle
Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo) dae s’Italianu in Sardu (Su Legendariu de Santas
Virgines et Martires de Jesu Cristu), pro ite iscriet in su «Prologo»:
Totu sas naziones iscrient e imprentant sos libros in sas propias limbas nadias e duncas peri sa
Sardigna – sigomente est una natzione – depet iscriere e imprentare sos libros in limba sarda. Una
limba – sighit Garipa – chi de seguru bisongiat de irrichimentos e de afinicamentos, ma non est de

Ricordando Gramsci nell’84esimo anniversario della sua scomparsa.

 
di Francesco Casula
1.Gramsci e il suo primo sardismo. Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna dall’Italia. 2.Gramsci e il colonialismo Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere– ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” . 3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti –ad iniziare dai Quaderni– una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo specifico,organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste:Sardegna, Sicilia, repubblica del Nord e del Sud. Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?> Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile… mi pare insomma che l’Italia peninsulare non possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo” . 4. Gramsci e la Questione Meridionale. Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo. In secondo luogo –per così dire come premessa– Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” . Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti– sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali. Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora. Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali. 5. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927), (….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro. 6. Gramsci e le tradizioni popolari. Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”. In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. 7.Gramsci e il “folclorismo”. Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni conservatrici e reazionarie” legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “. 8. Gramsci e le “pardulas”. In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”. 9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda. Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Conclusione “Tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”:Lettera a Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007 Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
di Francesco Casula
1.Gramsci e il suo primo sardismo. Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna dall’Italia. 2.Gramsci e il colonialismo Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere– ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” . 3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti –ad iniziare dai Quaderni– una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo specifico,organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste:Sardegna, Sicilia, repubblica del Nord e del Sud. Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?> Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile… mi pare insomma che l’Italia peninsulare non possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo” . 4. Gramsci e la Questione Meridionale. Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo. In secondo luogo –per così dire come premessa– Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” . Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti– sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali. Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora. Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali. 5. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927), (….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro. 6. Gramsci e le tradizioni popolari. Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”. In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. 7.Gramsci e il “folclorismo”. Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni conservatrici e reazionarie” legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “. 8. Gramsci e le “pardulas”. In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”. 9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda. Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Conclusione “Tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”:Lettera a Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007 Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI, IL NEGAZIONISMO E LE RESPONSABILITA’ DI ATATURK

 di Francesco Casula
Tra la primavera del 1915 e l’autunno del 1916, per volontà del movimento ultranazionalista dei Giovani Turchi, quasi un milione e mezzo di cittadini armeni dell’Impero ottomano fu sterminato. Si trattò a tutti gli effetti del primo genocidio del Ventesimo secolo e anticipò sinistramente i successivi. Parlarne è stato per decenni, se non proibito, almeno inopportuno per l’ostinato negazionismo storico dei regimi turchi. Ancora oggi il dittatore Erdoğan si ostina a negare quel genocidio. Come sostanzialmente, è stato negato anche dalla stessa storiografia occidentale a iniziare da quella italiana: tutta tesa, come documenterò ad esaltare Atatürk, il principale responsabile del genocidio armeno (e kurdo). “Nel caso armeno, le basi della storiografia ufficiale negazionista della Repubblica turca furono poste da Mustafa Kemal, detto Atatürk,il padre della patria. Il fondatore della Repubblica turca in un primo tempo aveva condannato l’operato del Partito dei Giovani turchi, definendoli assassini e ladri, ma poi, quando gli ufficiali, i governatori, i militari, i gendarmi e l’intera burocrazia genocidaria sono confluiti nel partito repubblicano da lui organizzato per costruire la Turchia del futuro, cambiò atteggiamento. Quattro dei maggiori carnefici erano divenuti suoi ministri e Mustafa Kemal portò a compimento la pulizia etnica degli armeni su tutto il territorio: dei 3 decreti legge emanati dal precedente governo unionista (riforme, deportazione e confisca dei beni degli armeni), ha mantenuto in vita la legge della confisca dei beni abbandonati. Sui passaporti dei pochi armeni sopravvissuti, poi “espulsi”, era scritto: pas possible le retour (non è possibile ritornare). In un celebre discorso politico del 1927, Mustafa Kemal sottolineava la capacità del Paese di rinascere e di uscire rafforzato dalla guerra avendo saputo resistere agli attacchi di “minoranze immorali”, nello specifico della minoranza armena insediata da tremila anni sul territorio e che veniva così separata ed espulsa dalla storia dell’Impero ottomano. Come potevano i turchi dopo la fine della Prima guerra mondiale disconoscere gli “eroi” che avevano dato vita alla repubblica monoetnica, sterminando gli armeni e appropriandosi di tutti i loro beni? Se ci interroghiamo sulle cause che impedirono agli armeni di ricevere giustizia e di dare sepoltura ai loro morti, può servire operare un confronto con la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. L’esercito tedesco fu sciolto, i nazisti messi fuori legge, le nazioni vittoriose ottennero giustizia. Se oggi ci fossero al potere in Germania i nazisti chi potrebbe affermare che c’è stata la Shoah, il genocidio degli ebrei?” (Pietro Kuciukian, saggista di origini armene). Ebbene Mustafa Kemal più noto come Atatürk che dopo la Prima Guerra mondiale e la liquidazione dell’impero ottomano, fondò lo Stato Turco e fu suo Presidente dal 1923 al 1938, è stato il principale persecutore e massacratore del popolo armeno (oltre che di quello kurdo), eppure viene celebrato anche dai “nostri” storici in modo entusiastico come “autorevole Giovane Turco”, “Valoroso ufficiale”, “ammodernatore” del Paese che grazie a lui diventerebbe “laico” e “democratico”. Ecco – ma sono solo degli esempi – alcune “perle”. Secondo questi storici Atatürk “Fece propria la concezione modernistica e laicizzante”(1); “Lottò per l’indipendenza e la democrazia” (2); “Avanzò un notevole programma di riforme: tutte le religioni furono poste sullo stesso piano, si promulgarono nuovi codici, furono occidentalizzati il calendario e l’alfabeto, si abrogarono le tradizionali restrizioni cui erano soggette le donne. Fu promossa l’agricoltura, incentivata l’industria, vennero effettuate molte opere pubbliche” (3); “Fece varare una serie di riforme quali la fine dell’islamismo come religione ufficiale dello Stato, la laicizzazione dell’insegnamento, la promulgazione di nuovi codici, l’abolizione della poligamia, l’adozione dell’alfabeto latino”(4); “Avviò una vasta modernizzazione del sistema politico e dell’intera società ispirandosi ai modelli occidentali”(5); “Creò uno Stato moderno e laico”(6); “Si impegnò in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. L’esperimento riuscì solo in parte, ma ebbe il valore di un modello (sic!) per molti paesi impegnati sulla via della modernizzazione e dell’emancipazione dai vincoli coloniali”(7); “Potè attuare quelle grandi opere di rinnovamento interno che avrebbero trasformato un arretrato paese islamico in uno Stato laico, moderno e indipendente”(8); “Impose una serie di riforme che occidentalizzarono e laicizzarono lo stato e la società, fu introdotto l’alfabeto latino, fu adottato il calendario occidentale” (9). A quest’entusiasmo occidentalizzante ed eurocentrico, osannante il Giovane Turco, xenofobo e precursore delle leggi razziste contro i Kurdi, massacratore degli stessi e della Comunità armena, secondo il criterio della “pulizia etnica”, non sfugge neppure l’Unesco, organismo delle Nazioni Unite che ha il compito di proteggere e sviluppare le varie culture e le lingue del mondo, soprattutto nel campo dell’istruzione. Il 27 Ottobre del 1978 questo Organismo internazionale ha infatti deciso di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Kemal Atatürk considerandolo come “Pioniere della lotta contro il colonialismo”. Nella decisione dell’Unesco si legge che il merito di Ataturk è stato quello di aver svegliato i popoli oppressi per condurli verso la libertà e l’indipendenza. Dio ci liberi da questo benemerito Organismo internazionale. C’è infatti da chiedersi: ma di quale libertà e di quale indipendenza, parla l’Unesco? Di quella forse che la Turchia anche con Ataturk ha riservato agli Armeni e ai Kurdi? Note Bibliografiche 1.Franco Della Peruta, Storia del ‘900, Editore Le Monnier, Firenze 1991, pag.344. 2.Giovanni De Luna-Marco Meriggi- Antonella Tarpino, Codice Storia, vol.3, Il Novecento, editore Paravia, Milano 2000, pag. 107. 3.Antonio Desideri- Mario Themelly, Storia e storiografia, vol.3 secondo tomo, casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1992,pag.593. 4.G. Gracco-A.Prandi- F. Traniello, Le nazioni d’Europa e il mondo, vol.3, Sei editore, Torino 1992, pag. 385. 5.Mario Matteini-Roberto Barducci, Didascalica, Storia vol.3, Casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1997, pag. 44. 6. Aurelio Lepre, La Storia del ‘900, vol.3, Zanichelli editore, Bologna 1999, pag. 1115, paragrafo 51/2. 7.A. Giardina-G. Sabbatucci- V. Vidotto, Guida alla storia, Dal Novecento ad oggi, vol.3, Editori Laterza, Bari 2001, pag. 94. 8.A. Brancati- T. Pagliarani, Il Novecento, Editrice La Nuova Italia, Pesaro 1999, pag. 66. 9. Giorgio Candeloro-Vito Lo Curto, Mille Anni, vol.3, editore D’Anna, Firenze 1992, pag. 389

28 de abrile: sa Die de sa Sardigna SA FESTA NATZIONALE DE SOS SARDOS IN TEMPOS DE PANDEMIA

 
De Frantziscu Casula
Serraos in domo, pro su 28 de abrile, sa Die de sa Sardigna, est a narrer sa Festa nazionale de su populu sardu, non podimus fagher bell’e nudda. Nessi peroe la podimus amentare. “Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!|”. In sa fintzione literària e teatrale ispassiosa e brillante, in “Sa dì de s’acciappa” s’iscritore Piero Marcialis faghet nàrrere gai a Frantziscu Leccis, – masellaju, protagonista de sa rebellìa Casteddàrgia contra a sos Piemontesos – furriende•si a sos de su pòpulu chi, abenenados, cheriant assaltare sos carros, prenos de cada gràtzia de Deus, nche cheriant leare a sos dominadores chi si nche fiant furende “s’arroba” chi si nche cheriant giùghere a Torino. E est custu – a pàrrere meu – su significadu profundu, istòricu e simbòlicu, de su de nch’àere bogadu a foras sos Piemontesos dae Casteddu su 28 de abrile de su 1794: sos Sardos, a pustis de sèculos de rassignatzione, de abitùdine a pinnigare s’ischina, de ubidièntzia, de asservimentu e de inèrtzia, pro tropu tempus abesos a abassare sa conca, sufrende cada casta de prepotèntzias, umiliatziones, isfrutamentu e leadas in giru, cun unu motu de orgògliu natzionale e unu corfu de renes, de dignidade e de fieresa, si ribellant e àrtziant sa conca, adderetant s’ischina e narant: bastat! In nùmene de s’autonomia e duncas, pro “essi meris in domu nostra”. E nche bogant a foras sos Piemontesos e savojardos, non pro resones ètnicas, ma ca rapresentant s’arroddu, sa prepotèntzia e su podere. Ant naradu e iscritu chi s’est tratadu de “cosa de pagu contu”: petzi una congiura ordimingiada dae unu grustu de burghesos giacobinos, illunminados e illuministas, pro nche bogare pagas chentinas de Piemontesos. Non so de acordu. A custa tesi, de su restu at rispostu, cun richesa de datos, documentos e argumentos, Girolamo Sotgiu3. S’istòricu sardu, connoschidore mannu e istudiosu de sa Sardigna sabauda, polemizat cun grabu ma cun detzisione pròpiu cun s’interpretatzione chi ant dadu istòricos filosavoia comente a Manno o a Angius, a su 28 de Abrile, cunsideradu comente chi esseret, apuntu, una congiura. “Simile interpretazione offusca – a pàrrere de Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura –so mentovende semper s’istòricu sardu– potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”. A pàrrere de Sotgiu custa manera de cunsiderare un’eventu cumplessu e prenu de sugestiones, non cunsentit di cumprèndere s’isvilupu reale de s’iscontru sotziale e polìticu nen de cumprèndere sa gàrriga rivolutzionària chi animaiat grustos mannos de sa populatzione de Casteddu e de s’Isula in su mamentu chi si bortaiat contra a sos chi aiant dominadu dae prus de 70 annos. No est istadu, duncas, congiura o ribellismu improvisu: a lu nàrrere est finas Tommaso Napoli, padre iscolòpiu, iscritore ispavillu e popularescu ma finas testimòngiu atentu e atendìbile, chi at vìvidu cussos eventos in prima pessone.. A pàrrere de Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – li narat pròpiu gai- contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – sighit – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

I 100 anni di storia del Partito sardo: 1946,quando propose uno Statuto federalista.

di Francesco Casula
Il 10 gennaio 1946 il Partito sardo d’azione pubblica su “Il Solco” il proprio Progetto di Statuto, che riprende alcune parti della precedente bozza di Gonario Pinna in cui si rifletteva la formazione repubblicana e azionista e lo spessore culturale del suo estensore, inquadrando la Sardegna in una repubblica federale, esplicitamente basata su principi di democrazia, di uguaglianza e di partecipazione.
Particolarmente ampie e corpose nel Progetto risultano le competenze legislative “esclusive”: fra cui Istruzione, Lavoro, Trasporti, Agricoltura, Industria, Commercio nell’interno e con l’estero, Finanze, Igiene e sanità, Pubblica sicurezza, Previdenza sociale, Affari interni, Servizi postelegrafonici. Lavori pubblici, Determinazione delle Circoscrizioni giudiziarie.
Come si può notare, siamo al limite dell’indipendenza!
La struttura amministrativa della Regione è organizzata attraverso delle circoscrizioni o distretti, che sostituiscono le Province: l’abolizione di queste con il relativo Prefetto, storicamente la figura più centralista e statalista che conosciamo, è un ricorrente obiettivo di Emilio Lussu e dei Sardisti.
I Comuni sono dotati di ampie autonomie ed è prevista un’autonomia doganale che sottrae la Sardegna al regime doganale dello Stato .
L’accoglienza da parte di tutti i Partiti italiani sarà del tutto negativa: il PCI, da sempre antifederalista lo osteggia apertamente; la DC è più possibilista ma ritiene che il federalismo non sia praticabile in quanto oramai avversato dagli orientamenti di tutte le forze politiche.
Lo schema di Statuto che prevarrà, si ispirerà a quello elaborato dal democristiano Venturino Castaldi. Presentato alla Consulta sarda e ai deputati sardi eletti alla Costituente, verrà approvato il 29 aprile 1947.
La posizioni sardiste avranno un’influenza minima. Ma c’è di più: il progetto di Statuto approvato dalla Consulta, in sede di Costituente, dai parlamentari italiani sarà viepiù “castrato” e svuotato di poteri.
E nascerà su un crinale biecamente “economicistico”. Alla cultura, alla lingua, alla storia, nostra specificità etno-nazionale, nessun riferimento: nonostante gli avvertimenti di Lussu sulla necessità di sancire l’obbligo dell’insegnamento della lingua sarda nelle scuole in quanto “essa è patrimonio millenario che occorre conservare”. E nonostante i consigli di Giovanni Lilliu che suggeriva ai Costituenti sardi di rivendicare per la Sardegna competenze primarie ed esclusive almeno per quanto riguardava “I Beni culturali”.
E se il PSD’Az, per ricordare e festeggiare il suo centesimo anniversario, avesse un sussulto, culturale e politico, riprendendo il suo vecchio Progetto di Statuto di 75 anni fa?