#11#

Ci dammo appuntamento al solito posto. Io arrivai in anticipo, come sempre, e questo mi diede modo di riflettere su ciò che avevo deciso: volevo chiudere con lui. Con i suoi umori altalenanti, il suo farmi sentire spesso in “forse”, quel suo modo destabilizzante di farti sentire il suo centro del mondo, salvo poi cadere da un momento all’altro in un limbo senza fine.

Parcheggiai e attesi. La mattinata era fresca e nuvolosa, ogni tanto, in lontananza, si sentiva borbottare un tuono. Spensi la radio. Volevo sentire il fluire dei pensieri e sentirmi pronta per ciò che volevo (e dovevo affrontare). Vidi la sua macchina svoltare sul viale. Il cuore accellerò i battiti. Scesi dall’auto. Lui arrivò e parcheggiò di fianco. Scese. Era da tanto che non lo vedevo. La sua abbronzatura, frutto di una vacanza sul mar Egeo, veniva risaltata da una camicia bianca con le maniche arrotolate quasi fin sui gomiti.  Si appoggiò all’auto con le braccia conserte. Nessun braccio allungato nella mia direzione ad appoggiarsi sul fianco, nessun bacio sulle labbra. Solo un saluto, “ciao”, come ad un amico. Mi colpì come uno schiaffo la sua freddezza. Ma lui era così: o tutto o niente. Senza alcun preavviso. E io fui più convinta della mia decisione.

Iniziai a parlare.

“Ho riflettuto molto su te e me. In questi ultimi giorni non ti sei fatto sentire, e io ho avuto rispetto dei tuoi problemi. Ma, sinceramente, io sono stanca dei tuoi comportamenti. Stanca del tuo farmi sentire in “forse”, ogni qualvolta entri in crisi, stanca di aspettare che ti passi.”

Mi guardò. Imperturbabile.  Un altro tuono borbottò piu vicino. Poi prese a parlare.

“Capisco i tuoi dubbi, e capisco le tue sensazioni. Ma non posso assicurarti sempre la mia presenza, lo capisci? Quello tu cerchi, io non posso dartelo.”

Lo guardai sconcertata. Era lui quello che voleva la mia presenza costante, che mi mandava messaggi di continuo, che mi chiedeva se ero sola, perché voleva sentire la mia voce. 

“Credo tu non abbia capito, o non voglia capire cosa intendo. Te lo spiego per l’ultima volta: non pretendo una presenza fissa, quanto una coerenza di comportamenti. Non puoi salutarmi la sera prima ed essere contento, e il giorno dopo essere in crisi, salutarmi a malapena e sparire nel nulla. Non puoi pretendere che le persone ti capiscano.”

Scosse la testa. ” È stato bello conoscerti. Ti auguro buona vita.”

Lo guardai. Mi sembrò di non averlo mai realmente conosciuto. Un minuto prima ti dice “sei mia”, quello successivo diventi un’estranea. Avrei voluto dirgli tante cose, ma mi limitai ad essere coincisa. Tanto quanto lo era stato lui.

“Lo stesso vale per me. Buona vita anche a te.”

Salì in macchina e se ne andò. Io lo seguii con lo sguardo mentre le prime gocce di pioggia cominciavano ad annunciare che il temporale era sopra di noi. Non mi mossi. Le gocce divennero uno scroscio. Alzai la testa per accogliere la pioggia. I capelli erano zuppi, gli abiti iniziarono ad essere pesanti. Non importava. Aprii le braccia e sorrisi al cielo, alla pioggia. I tuoni facevano tremare il terreno sotto i piedi. 

E finalmente realizzai: ero troppo forte per scendere a compromessi. 

 

 

 

 

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#10#


Estate. Villaggio in Sardegna.

Era la prima vacanza da sola con le amiche, dopo una lunga storia finita non propriamente bene. Ma ora avevo voglia di svagarmi, di sole, di mare, di ridere.

Arrivammo un sabato mattina. Nel villaggio c’era poca gente (per fortuna), ma eravamo all’inizio della stagione, quindi non mi sembrò così tanto strano. I primi due giorni cercammo di ambientarci, io volevo fare la pigra, le altre non vedevano l’ora di provare le attività che il villaggio proponeva. Le lasciai fare.

Lui lo vidi il martedì mattina in spiaggia. Il classico cinquantenne con la famiglia al seguito. Solo che non vedevo la presenza di altre persone, tranne che della moglie. “Bell’uomo”, pensai. E tornai a prendere il sole. Lo rividi nei giorni a seguire, sempre in spiaggia. Sguardi appena accennati, niente di più.

Una sera lo rividi nella discoteca all’aperto. Seduto su un divanetto, con la moglie al fianco. Era la serata revival: musica anni ’70 e ’80. Ci sedemmo. Ordinai un mojito. Lui lanciò uno sguardo nella mia direzione, io ricambiai. Ogni tanto, con le mie amiche, ci alzavamo per ballare una canzone e cantare a squarciagola, attirando l’attenzione di tutti. Poi scoppiavamo a ridere. Quando ordinai il secondo mojito, mi ritrovai in pista a piedi scalzi  con il cocktail in mano ad ondeggiare al ritmo di reggae. Lui mi guardava. Io lo guardavo. Per tutta la durata della canzone: mojito in una mano, ondeggiamento, sguardo incollato al suo. Sua moglie era intenta a chiacchierare con una tizia alla sua sinistra, si accorse solo verso la fine di  cosa stava succedendo, e gli diede una gomitata. Io risi, e sorseggiando il mojito tornai a sedermi.

Il giorno successivo alle 8, ero già in spiaggia.   Dormivo sul lettino con gli occhiali da sole. La sera prima avevamo fatto tardi, ma stranamente non riuscii a prendere sonno,  e alle 7 preferii uscire per prendere un pò di fresco. E mi addormentai. Lui arrivò, si avvicinò e mi salutò. Io sobbalzai. Mi chiese scusa. E poi ci mettemmo a ridere.  ma si allontanò subito. Quando sua moglie lo raggiunse, mi lanciò occhiatacce per tutto il tempo e nei giorni a seguire. Ma feci finta di nulla.

Quando partimmo per tornare a casa, avevo una certezza:  che lui si sarebbe ricordato a lungo, di quella matta che ballava un reggae a piedi scalzi e con un mojito in mano.

#9#

L’asfalto scivolava veloce sotto l’auto. Era quasi l’imbrunire ed ero stanca di guidare. Ci voleva una pausa, e decisi di fermarmi all’autogrill. Imboccai l’uscita rallentando e parcheggiai di fronte al bar. Scesi e con il telecomando chiusi la macchina e la capote. Di fianco alla mia auto, c’era un ragazzo seduto in macchina con il cellulare in mano. Guardò l’auto e poi me, che stavo salendo le scale. Entrai. Ordinai un panino e una bottiglietta di acqua frizzante. Uscii. L’aria si era fatta più fresca. Aprii l’auto e la capote. Mi sedetti al volante. Di fianco Il tizio era ancora al cellulare e sentivo l’ultima canzone di Mengoni che si diffondeva nell’abitacolo a volume non troppo alto. Accesi la radio e cercai la stazione. La trovai quasi subito. “Ma stasera corri forte e ti vedo appena e per raggiungerti dovrò lasciarti andare”, cantava. “Bella, vero?” Feci cenno di si, mentre mangiavo il panino. Alzò il volume. Io lo seguii. Poi ridemmo. Sembrava un concerto.  E anche se ti ho cercato come un’illusione perfetta, vengo verso di te questa notte vorrei fosse eterna.” Il testo scivolava con  un ritmo veloce e ipnotico. Bevvi un sorso d’acqua. Ascoltai tutta la canzone e poi misi in moto. Il panino non lo finii tutto e lo lasciai sul sedile a fianco. Il tizio mi guardò “scappi già?” Gli sorrisi e feci retromarcia. Lasciai il parcheggio immettendomi nel flusso veloce dell’autostrada. Volevo raggiungere il mare prima che fosse buio. E di nuovo corsia di sorpasso. Ma l’autostrada era quasi deserta. Poi all’improvviso gli abbaglianti chiesero strada. Accellerai. Stessa scena.  Mollai l’accelleratore e cambiai corsia. La macchina si accostò. Lo riconobbi.  Era il tizio dell’autogrill. Mi fece il segno del telefono e con le mani indicò dei numeri. Le digitai sul display dell’auto. Due squilli. Rispose. E nel frattempo aveva accellerato. Io cambiai corsia e mi misi dietro di lui. Bella voce. Chiusi la capote per sentirla meglio. “Ma quanto corri?” Mi chiese ridendo. “Troppo poco” gli risposi. E ridemmo insieme. Ci presentammo. Volle sapere dove andavo. “Al mare” gli risposi. “Peccato, io uscirò prima.” Parlammo per tutto il tragitto, e non smettemmo nemmeno quando lui uscì dall’autostrada. “Non correre troppo”, mi disse “si sta facendo buio”, “tranquillo, ora non serve più.” Parlammo ancora fino a quando lui non arrivò a destinazione. Ci salutammo e lui mi disse “ho il tuo numero”, “e io il tuo”. Silenzio. “Buona serata” tono basso e dolce.  “Anche a te”. Chiusi la conversazione per non sentire troppo la mancanza di quel diversivo. Venti minuti dopo arrivai al mare. Parcheggiai. Era buio. Ma scesi lo stesso in spiaggia. Tolsi le scarpe. La sabbia era fredda sotto i piedi. Inspirai a pieni polmoni. Ero arrivata. Ora dovevo solo pensare a me. Stavo quasi per lasciare la spiaggia, quando sentii una voce alle mie spalle. “È pericoloso stare qui da sola.” Riconobbi la voce. Mi girai e sorrisi. “Ma come hai fatto?” Gli chiesi stupita. “Facile. Ho la macchina più veloce della tua. E ho chiesto in giro se avevano visto una macchina nera, sportiva, con una fanciulla a bordo.” Scossi la testa. E Mengoni canta ancora nella mia testa “e per raggiungerti dovrò lasciarti andare.”

Ha ragione.

Come sempre.

 

 

#8#

Chi ha asserito che,  quando ci si sente depressi, bisogna farsi un bel regalo, ha detto una grande verità. Fu ciò che feci quando quello stronzo del mio ex mi lasciò per una cavallona bionda sua collega di lavoro. Dopo le prime settimane di dolore  e sgomento, decisi di farmi un regalo. Ma niente diamanti. Troppo scontato. Un’auto. “Nera. Sportiva. Cabrio. Superaccessoriata. Interni blu”. Fu quello che gli dissi al venditore quel sabato pomeriggio. Lui spalancò gli occhi. Probabilmente gli sembrava strano che una donna potesse fare una richiesta simile. Ma fui irremovibile. E due settimane dopo andai a ritirarla. Passai la mano sulla carrozzeria lucente. Lui parlava e io nemmeno ascoltavo. Al sole di giugno era uno spettacolo. Mi disse “mi raccomando stia attenta, è piuttosto veloce”, con quel sorrisino ebete a cui ricambiai con un arrogante “è proprio quello che voglio.” Poi salii in macchina. Feci scendere la capote, allacciai la cintura e mi diressi verso la casa dello stronzo. Citofonai, scese al volo. Io ero seduta in macchina, con una gamba fuori. Aveva l’aria scocciata, poi guardò l’auto. “È tua?” Tono indagatore e vagamente sorpreso. “Certo” risposi con aria di sufficienza. Presi le chiavi di casa e gliele lanciai senza scomodarmi a scendere. Rimbalzarono sul suo petto e caddero sull’asfalto. Risi scuotendo la testa. Feci manovra, lasciandomelo alle spalle e lo salutai con il braccio alzato guardandolo dallo specchietto.  Mi diressi verso l’autostrada. Volevo andare al mare. Pigiai sull’acceleratore. Eh si. Era piuttosto veloce. E sorrisi. Occhiali da sole e musica a tutto volume. In corsia di sorpasso. Libera. E i lampeggianti per farmi strada. E quelli che sorpassavo che mi guardavano, mentre io giravo appena lo sguardo. E le chitarre elettriche che mi rimbombavano dentro, caricandomi di adrenalina.

Libera.

 

Continua

“7”

Ricordi? Era San Silvestro. Dovevamo uscire a cena in quel locale Chic. Tu con lo smoking, io con il vestito nero, lungo, scollato, scintillante. Ma non mi decidevo ad andare a prepararmi. Continuavo ad osservare dalla finestra la frenesia della gente. “Dovresti iniziare a prepararti o faremo tardi” mi avevi sollecitato dall’altra stanza. Io avevo voltato appena la testa in direzione della tua voce. Poi sei apparso sulla porta. Eri bellissimo. Ho preso la macchina fotografica e ho iniziato a scattare qualche foto. Dopodiché mi hai sospinto verso la camera. “Ora basta. Fatti bella per me.” Io mi sono girata. Ti ho guardato. Tu hai alzato un sopracciglio come quando non capisci cosa sta succedendo. Io ti ho tolto la giacca e slacciato il papillon. “Oh no no. Siamo già in ritardo”, mi hai rimproverata forse intuendo cosa volessi fare. “Sdraiati sul letto” ti ho detto. Hai obbedito Un pò controvoglia e io ti ho seguito. Mi sono messa sopra di te e ho iniziato a fotografarti. “Di questo passo non ceneremo più” mi hai detto ridendo. “Non voglio festeggiare in mezzo a degli sconosciuti. Voglio stare a casa. Solo io e te. E il resto del mondo fuori.” E continuavo a scattare. Volevo tenere impresso questo momento. Rivedere il tuo viso e il tuo sorriso e sapere che non c’era niente al mondo che valesse più della tua presenza. Con o senza smoking.

 

 

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#6#


Vidi quelle rose nella vetrina di quel fiorista in centro. Erano rosso vermiglio. Come le tue labbra. Mi chiesi se potesse risultare “strano” che una donna regalasse dei fiori ad un uomo. Mi avevi invitato a cena a casa tua e volevo sorprenderti. Portarti una bottiglia di vino o dei dolci mi sembrava banale e scontato. Poi sicuramente ci avevi già pensato tu, non lasciavi mai niente al caso: il menù, la musica, l’atmosfera.Tutto era calcolato nei minimi dettagli. La commessa mi chiese se erano per mia madre. “No”, risposi “sono per una persona speciale.” Lei sorrise. Non sono sicura avesse capito. Ma non m’importava. Già mi immaginavo il mazzo che campeggiava sul tavolo del salone, tu che sorseggiavi il caffè del mattino e te lo rimiravi appoggiato alla cucina, vestito di tutto punto per andare in ufficio, con un sorriso beato sulle labbra. Ti pensai per tutto il tragitto in macchina, con le rose sul sedile accanto come un muto (e profumato) passeggero. Quando arrivai davanti alla tua porta e mi hai aperto, avevi lo stupore stampato sul viso. Lo sentivo nell’aria, anche dietro a quel mazzo di rose rosse dietro cui mi nascondevo.

 

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#5#

“Sai di inferno e zucchero filato”, mi dicesti un giorno.

Io sorrisi sapendo benissimo cosa intendevi.

Non ero mai stata una Donna facile, una di quelle che compri con due paroline dolci o qualche complimento buttato là, giusto per far colpo.

Io voglio di più. Voglio vedere quanto realmente sei in grado di metterti in gioco per me.

Vederti con il “fiatone” e  poi dire “ne è valsa la pena”.

Ma ti sei fermato poco dopo la linea di partenza.

Eri così “dolce”, mentre cercavi di giustificare le tue assenze, io cosi “falsa”, da far finta di crederci.

E abbiamo finito per guardare in due direzioni diverse.

Tu, verso una facile conquista.

Io, verso me stessa.

Finalmente.

 

 

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#4#

Lo sapevamo di non essere come gli altri.
Forse perché la vita era stata poco generosa con entrambi, e avevamo quella fame di leggerezza che ci divorava nel profondo.
Ci eravamo riconosciuti fin dal primo sguardo: io ti guardai e risi, tu finsi di essere offeso. Ma durò un istante.
Quando ti diedi il mio numero, lo salvasti con il mio nome, dopo una settimana l’avevi già cambiato con “smorfiosa”, il tuo era sempre rimasto “stronzetto”, come a sancire che noi non eravamo noiosamente uguali agli altri, che vanno in giro mano nella mano a chiamarsi “amore”, in un loop anonimo e continuo.
Eravamo diversi. In tutto.
Poche smancerie e mai in pubblico.
Perché dovevamo essere solo io e te.

Agli altri non doveva importare ciò che eravamo l’uno per l’altro.

Bastava che lo sapessimo noi di essere speciali e felici.

 

 

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#3#

Il suo invito fu inaspettato. Sapevo quanto ci tenesse a non condividere con gli estranei il suo studio. Parlava, quasi con sufficienza, della sua passione per la pittura e si schermiva se gli veniva chiesto se era bravo. “Chi, io? Ma no. Ci provo a dipingere, ma non sono bravo”, poi ad un aperitivo in centro in un bar semideserto, mi chiese se volevo vedere le sue tele.
Lo guardai stranita, con il bicchiere dello spritz fermo a mezz’aria. “Davvero me le farai vedere?”. “Certo”. E mi presentai il giorno successivo. Mi aprì con il sorriso sulle labbra e io ricambiai. Mi fece entrare. “Vuoi un caffè? Vino bianco?”. “Il vino andrà benissimo.” Mi guardai in giro osservando l’appartamento. Stavo guardando i vinili quando tornò con il vino. “Vieni” mi disse. Lo seguii per il corridoio fino a quando aprì una porta. L’odore di pittura e trielina mi invase le narici. La stanza era luminosa ma non grandissima. Molte tele erano appese alle pareti. Altre appoggiate a terra. Mi colpirono i paesaggi. Alcuni sembravano strani, quasi di un altro mondo. “Non dici nulla” mi disse sorseggiando il vino. “Sono piacevolmente sorpresa” gli risposi senza guardarlo ma continuando ad osservare le tele. Si avvicinò, mi mise una mano sul fianco e appoggiò le labbra sul collo. Percepivo il calore della sua mano e il suo fiato leggero che mi solleticava. Mi girai verso di lui. Lo guardai. Lui alzò la bocca quel tanto che bastava per potergli dare un bacio. Gli sfiorai le labbra e lui ricambiò. Poi mi prese il bicchiere dalla mano e lo posò sul tavolo ingombro di pennelli e colori. Le sue mani mi circondarono il viso e mi baciò con enfasi. Pensai che forse stava esagerando. Poi rallentò. Nel contempo mi spingeva all’indietro e mi ritrovai contro il muro. Le sue mani sul viso. Le mie sui suoi fianchi. E quel bacio così bramato nel tempo.  Poi mi prese le mani e le bloccò sul muro. Trattenni il fiato. “Voglio che mi pensi. Sempre. Voglio essere il tuo pensiero fisso. Il tuo tormento. La tua voglia inconfessabile. Il tuo segreto più oscuro.”
Quando feci per andarmene, mi mise una mano sulla nuca baciandomi poco sotto l’orecchio. “Ci rivedremo molto presto. Ne sono sicuro.” Fu il suo sorriso sexy e rassicurante a farmi tornare il giorno dopo.

 

 

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#2#


Era uno di quei pomeriggi invernali freddi e nuvolosi, seduti sul divano cercavamo qualcosa di interessante da guardare alla tv, poi la mia attenzione è stata catalizzata da un film che avevo già visto qualche anno fa, Innamorarsi, con Meryl Streep e Robert De Niro.
“Lascia qui!” Ti avevo detto subito con il timore che tu potessi cambiare subito canale.
Mi hai guardato quasi di traverso.
“Ma dici sul serio?” Mi hai risposto con il telecomando a mezz’aria.
“Certo che si. È una storia bellissima. Ti prego…” e ti avevo fatto gli occhioni dolci.
Tu hai capitolato. Non sapevi resistere e poi sapevo che non ti piaceva discutere per un film. Ma capivo che ti stavi annoiando perché ogni scusa era buona per alzarti, poi quando sei tornato ti ho guardato.
“Sdraiati e metti la testa sulle mie gambe”.
Hai alzato un sopracciglio.
“Sarò scomodo a guardare il film in quella posizione.”
” E chi ha detto che voglio farti guardare il film…”
Non capivi ma hai obbedito.
Io guardavo il film e nel frattempo ti accarezzavo i capelli, ci infilavo le dita, giocavo con le ciocche. Tu mi hai preso il palmo e me l’hai baciato.
Io ho ricambiato, baciandoti sulle labbra.
Poi ho ripreso a coccolarti e ti sei rannicchiato addosso a me.
Ho sorriso, preso la coperta dal bracciolo e ti ho coperto.
“Ma dai” mi hai detto “tanto non mi addormenterò.”
“Non importa. Non voglio che prendi freddo”.
E ho ripreso a giocare con i tuoi capelli, poi hai chiuso gli occhi sospirando. Eri talmente rilassato che ti sei addormentato come un bambino.
Quando è finito il film ho spento la tv e ti ho guardato dormire.
Gli occhi chiusi, il respiro leggermente pesante, il corpo completamente rilassato.
Avevo sete, ma era troppo bello averti tra le mie braccia.
Quando ti sei svegliato ti stavo guardando.
Hai sorriso.
“Da quanto stavo dormendo?”
“Poco…troppo poco”.
E ti ho baciato.

 

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