Marxismo libertario. Daniel Guerin – Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921; da: “A la recherche d’un communisme libertaire”, 1981.

Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

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Daniel Guérin

Testo dell’intervento di Daniel Guérin durante il colloquio “De Kronstadt à Gdansk”, organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s’impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora “cento volte più a sinistra” dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell’aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d’ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede “il controllo della produzione”, precisando: “Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma […] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai”. In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all’applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l’ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell’insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all’opposto dell’ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell’economia dall’alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nel suo libro Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell’insurrezione d’Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l’economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: “Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta […] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre”. Fare a meno di “autorità” e di “subordinazione”, sono questi, egli afferma seccamente, dei “sogni anarchici”. Tutti i cittadini diventano “gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato”, tutta la società p convertita in “un grande ufficio e una grande fabbrica”.

Soltanto, dunque, delle considerazioni d’ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E’ accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall’intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al “pugno di ferro”.

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall’ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti – ristretti –  della loro autonomia. Il controllo operaio “instaurato nell’interesse di una regolamentazione pianificata dell’economia nazionale” (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un “consiglio generale di controllo operaio”, la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell’insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un’economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l’annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l’autogestione non terrebbe conto dei bisogni “razionali” dell’economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l’un l’altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti “per lo Stato” e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l’ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall’altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell’economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell’economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la “volontà di uno solo” nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire “incondizionatamente” alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l’introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di “specialisti”, vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all’interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell’economia. Conviene qui ricordare che il “Manuale pratico per l’esecuzione del controllo operaio nell’industria” una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l’utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l’amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell’antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell’economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell’economia (26 maggio – 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d’impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell’economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all’insieme dell’industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. È il Consiglio superiore dell’economia che è incaricato di organizzare l’amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle “guardie comuniste”, armate, dell’impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

“Volete diventare le cellule statali di base”, dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest’ultimi non hanno più che l’ombra di un potere. Oramai il “controllo operaio” è esercitato da un organismo burocratico: l’ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l’hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall’apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall’ignoranza o l’arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso “Stato proletario”.

[Traduzione di Massimo Cardellini]