Marxismo libertario. Yvon Bourdet – Karl Marx e l’autogestione; da: “Autogestion et socialisme”, n°15, marzo 1971

Karl Marx e l’autogestione

Yvon Bourdet

Prima parte di un articolo uscito su “Autogestion et socialisme” (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l’autogestion, (Anthropos, 1974).

N° 15 della rivista Autogestion et Socialisme, marzo 1971
N° 15 della rivista Autogestion et Socialisme, marzo 1971

La parola autogestione è di uso corrente soltanto da una decina di anni e sembrerebbe anacronistico associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – coloro che lo ignorassero – non vadano a immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” – precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.

Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia apparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l’ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso, che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l’esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all’azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l’esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un’organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoistica; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l’attività di alcuni pionieri.

Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un’organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell’autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant’anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell’autogestione.

Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” – per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

L’opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l’ora dell’espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all’azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d’altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l’eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l’avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l’aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l’attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L’autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale…” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un’azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all’economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].

Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14].

Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l’ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un’associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell’8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l’America e l’Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all’edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D’altronde, Engels scrisse egli stesso, un po’ più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l’uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po’ giunti “ad aver più paura dell’azione legale che dell’azione illegale del partito operaio” [20].

Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: “La legalità ci uccide!” e all’esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].

Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l’ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l’oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell’uno e dell’altro):

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l’aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. – “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L’elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. – non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l’elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico –realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all’opposto dell’assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall’obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d’altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.

È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell’Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d’intrigo (…). Di fatto, l’Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell’Internazionale, la massima della nostra lotta: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall’alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].

Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell’insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgradita Marx; come scriveva a Engels, l’11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni ‘di somari’ e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l’occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del ‘sostegno’ di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un’irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all’Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l’essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell’emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una presa di coscienza e quest’ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch’essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest’invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall’esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d’instaurare, all’interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall’azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].

Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, l’opportunitàdell’insurrezione della Comune perché la sconfittapriverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di ‘capi’”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l’alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L’autogestione delle lotte è una condizione dell’autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell’autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest’impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l’organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.

Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontatoin un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell’ombra.

NOTE

[1] Tuttavia, Pero Damjanovic ha già pubblicato sulla rivista Praxis (1962, 1, pp. 39-54) un articolo intitolato: “Le concezioni di Marx sull’autogestione sociale”. L’autore sostiene che “l’autogestione è immanente alla classe operaia

l’autogestion est immanente à la classe ouvrière et à son mouvement de libération ». Il se réfère à Marx qui lui semble – depuis ses écrits de jeunesse où il dénonce l’individu abstrait laminé par l’État – avoir toujours pensé que seules les associations autonomes des producteurs pourront réaliser la vraie liberté. Malheureusement, dans son article, Pero Damjanovic reste allusif et ne donne pas les références précises des textes sur lesquels il s’appuie. Il nous paraît également avoir laissé de côté des aspects importants.

(2) Ed. Sociales, livre I, tome III, p. 205. Voir aussi 1. 1, p. 19.

(3) Bibliothèque de la Pléiade, Économie, I, p. 173.

(4) Boukharine, L’Économie mondiale et l’impérialisme, p. 131. Il va sans dire que Boukharine présente cet « argument » comme un « sophisme ».

(5) L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, œuvres complètes, t. XXII, p. 291.

(6) « Pour ce qui est du « canard » souabe, ce serait un coup amusant que de duper l’ami de Vogt, ce Mayer souabe » (lettre de Marx à Engels du 7 décembre 1867).

(7) Ibid.

(8) Pléiade, t. I, p. 550.

(9) Ibid., (chap. XXXI) p. 1213.

(10) Manifeste communiste. Pléiade, p. 171. (…) 204-205. De ce fait les forces, dites réactionnaires, ne peuvent jouer qu’un rôle de frein.

(11) Dernier paragraphe du Manifeste communiste. Voir également la lettre d’Engels à Marx du 23 octobre 1846.

(12) Karl Kautsky, Die Diktatur des des Proletariats, Vienne, 1918, p. 20. La « lettre » dont parle Kautsky désigne les « Gloses marginales au programme du Parti ouvrier allemand », dit Programme de Gotha, envoyées à W. Bracke le 5 mai 1875.

(13) H. Draper a rassemblé onze textes – et même quatorze si on compte à part les variantes – qui se rapportent à cette question (« Marx and the Dictatorship of the Proletariat », in Cahiers de l’ISEA (Etudes de marxologie), série S (6) sept. 1962, pp. 5-73).

(14) Contribution à l’histoire de la question de la dictature, œuvres complètes, Moscou, 1961, t. 31, p. 363.

(15) Max Adler, Démocratie politique et démocratie sociale, Paris, Ed. Anthropos, 1970, p. 140.

(16) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172.

(17) Manifeste communiste, Pléiade, p. 183.

(18) Lénine fait allusion à ce texte dans sa polémique contre Kautsky et il essaye de l’expliquer par l’absence « du militarisme et de la bureaucratie », dans les années 70, en Angleterre et en Amérique (…)

(20) Ed. sociales, p. 17.

(21) Voir Rosa Luxemburg dans Le programme de la ligue Spartacus ; Kautsky, dans Le chemin du pouvoir éd. Anthropos, 1969, p. 162 ; Otto Bauer divers textes, in : Otto Bauer et la Révolution Paris.

(22) Pour un aperçu d’ensemble voir notre livre : Communisme et marxisme, chapitre 3.

(23) Konspekt von Bakunin Buch, « Staatlichkeit und Anarchie», in Marx . Engels Werke, Dietz, Berlin, t. 18, p.634 et sq., partiellement traduit par Rubel dans Pages de Karl Marx… Paris, Payot, 1970, t. 2.

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l’aumento dei salari… Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città…”, Emile Zola, Germinal.

(25) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172.

(26) Statuts de l’AIT, ibid., p. 469.

(27) Résolutions du premier congrès de l’AIT, Pléiade, tome 1, p. 1469.

(28) Cité par M. Rubel, Etudes de marxologie, août 1964, p. 4.

(29) Ibid., p. 4.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca (citata da Rubel, in Cahiers de l’ISEA., nov. 1970, p. 2013.)

[31] Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174

[32] Lettera del 13 febbraio 1851, Costes, Parigi, t. 2, p. 48.

[33] Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto.

[34] Traduzione di Rubel in “La Nef”, n.43, giugno 1948, p. 67.

(30) Lettre circulaire adressée par Marx et Engels aux chefs de la social-démocratie allemande (citée par M. Rubel, in Cahiers de l’ISEA (Etudes de marxologie), nov. 1970, p. 2013.)

(31) Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174. Sur la conception marxienne du parti, voir Maximilien Rubel, « Remarques sur le concept du parti prolétarien chez Marx », 1961.

(32) Lettre du 13 février 1851, Costes, Paris, t. 2, p. 48.

(33) Introduction à la critique de la philosophie hégélienne du droit, 1844.

(34) Traduction Rubel in La Nef, N. 43, juin 1948, p. 67.

 

Marxismo libertario. A. R. Giles-Peters – Karl Korsch un amico marxista dell’anarchismo, da “Red and Black”, n° 5, aprile 1973.

Karl Korsch un amico marxista dell’anarchismo

A. R. Giles-Peters

Karl Korsch (1886-1961), che è oggi riscoperto dalla “nuova sinistra”, era uno dei maggiori teorici del comunismo di sinistra. Dei tre maggiori teorici del marxismo degli anni 20 – Gramsci, Lukacs e Korsch – Korsch è immediatamente quello che presenta maggior interesse per gli anarchici e anche, io credo, il marxismo superiore.

I marxisti degli anni 20 hanno un interesse per gli anarchici che è di un ordine molto differente da quelli di tutti gli altri periodi. La ragione è che, per un breve periodo dopo la prima guerra mondiale, il marxismo fu una teoria rivoluzionaria come non lo era più stato dopo Marx e come non lo è più stato in seguito (lasciando da parte il suo uso come ideologia per delle rivoluzioni, essenzialmente, di contadini nazionalisti).

Durante questo breve periodo, la rivoluzione russa servì da punto di allineamento per degli intellettuali di sinistra di tutte le sfumature del rosso e del nero e quest’ultimi si unirono a dei lavoratori anarchici e socialisti di una tempra sindacalista per formare le basi dei nuovi partiti della Terza Internazionale.

Con l’eccezione della Spagna, le organizzazioni anarchiche e sindacaliste persero ovunque del terreno di fronte a questi nuovi partiti che evolsero rapidamente verso delle organizzazioni socialiste di Stato burocratiche interessate attraverso il controllo del movimento della classe operaia.

Durante questa evoluzione gli anarchici, i sindacalisti e i socialisti di sinistra che avevano considerato come vera la promessa iniziale della Rivoluzione Russa furono isolati, eliminati e scartati dall’organizzazione superiore del Partito dall’accesso alla classe operaia che sola poteva sostenere un movimento rivoluzionario. Karl Korsch fu una delle vittime di questo processo.

Benché Gramsci sia stato un sostenitore dei consigli operai, e che in prigione abbia avuto tendenza ad associarsi con dei sindacalisti, egli non divenne un oppositore di sinistra al Komintern. Le ragioni sembrano essere, innanzitutto, che il problema italiano non era la rivoluzione ma la difesa contro il fascismo; in secondo luogo, che Gramsci era opposto all’estremismo astratto di Bordiga che era collegato con l’ultra-sinistra tedesca; e in terzo luogo, che la prigionia di Gramsci lo ha tenuto al sicuro e isolato dalle convulsioni del movimento internazionale.

I casi di Korsch e Lukacs sono più chiari. Lukacs era membro di un gruppo borghese marginale, l’intelligentsia ebraica, in un paese semi-feudale, l’Ungheria. Prima del 1917 i suoi centri d’interesse erano soprattutto la letteratura benché sia stato influenzato da Szabo, un intellettuale che traeva il suo sindacalismo da Sorel.

Non è sorprendente che la sua posizione iniziale in quanto rivoluzionario sia stata utopistica e astrattamente di ultra-sinistra, più tardi la sua evoluzione verso una posizione di “destra”, quasi socialdemocratica (“Tesi di Blum”, 1929) era molto ragionevole dato che l’Ungheria smise di essere feudale soltanto nel 1945. Da un’altra parte, il suo compromesso con lo stalinismo, del tutto parziale e “non sincero” come ha preteso che sia stato, è duro da perdonare.

La conoscenza del movimento operaio da parte di Korsch era, alla fine della guerra, di un tutt’altro ordine di quello di Lukacs. Formato in diverse università in economia, diritto, sociologia e filosofia, divenne dottore in giurisprudenza nel 1911 e andò in Inghilterra dove raggiunse la società Fabiana e studio i movimenti sindacalisti e quello delle associazioni socialiste.

Era già opposto all’ortodossia marxista che definiva il marxismo come una negazione del capitalismo attraverso la nazionalizzazione, vedeva l’avvento del socialismo come inevitabile e concepiva il marxismo come una pura “scienza” separata dalla pratica del movimento operaio.

La sua opposizione a questa ortodossia orienta l’attenzione di Korsch verso la preoccupazione Fabiana per la preparazione degli individui al socialismo attraverso l’educazione e verso l’accento sindacalista posto sull’attività cosciente dei lavoratori come base al contempo della rivoluzione e della gestione di una economia socialista.

Sin dai suoi primissimi articoli pose l’accento sul ruolo della coscienza nella lotta per il socialismo e sull’importanza dell’auto-attività della classe operaia.

Dopo la guerra sviluppò le sue idee mettendo a punto dei progetti per la socializzazione associato al controllo operaio.

All’inizio della prima guerra mondiale, Korsch fu arruolato nell’esercito tedesco e andò al fronte, ma era contro la guerra e, benché ferito due volte, non portò mai delle armi.

Accolse favorevolmente la formazione del movimento socialista anti-guerra e aderì dopo la guerra al Partito Socialista Indipendente (USPD).

Sempre opposto al marxismo “ortodosso” o “revisionista”, credeva durante quest’epoca che una terza corrente, il “socialismo pratico”, era stato formato ed era rappresentato da Luxemburg e Lenin. Per questa tendenza la transizione al socialismo era un “atto umano cosciente”.

Korsch divenne sufficientemente leninista nel 1924 per vedere l’atto rivoluzionario come quello di un partito rivoluzionario di massa ma vedeva sempre il partito come un mezzo per approdare a una democrazia diretta dei consigli operai.

Benché si unisse con la maggioranza della USPD il Partito Comunista (KPD), argomentò contro le 21 condizioni di affiliazione di Mosca; in particolare si oppose alla richiesta di un’organizzazione parallela illegale che sarebbe stata fuori dal controllo delle masse del partito. Malgrado le sue riserve, Korsch divenne rapidamente un leader del KPD. Diventò l’editore del giornale del partito e deputato al Reichstag.

Dovette ciò alla sua superiorità teorica dovuta al fatto che, benché abbia sempre respinto il “marxismo” socialdemocratico, che era stato portato nel corso dei suoi studi di diritto a vedere la società e l’economia come le basi dei sistemi legali e, durante la breve liberazione del marxismo dall’ortodossia, i suoi studi filosofici, sociologici ed economici precedenti gli furono molto utili.

Tuttavia la situazione cambiò presto; dopo il 1923 era evidentemente nell’ala sinistra del KPD; nel 1924 il suo libro del 1923, Marxismo e filosofia, fu denunciato alla riunione dell’esecutivo dell’Internazionale Comunista ed egli fu allontanato dal suo posto editoriale nel 1925; nel 1926 fu escluso dal KPD.

Secondo Mattick, Korsch aveva sempre una posizione critica verso lo Stato russo emergente ma agli inizi della rivoluzione russa, quando tutte le forse della reazione erano dispiegate contro di esso, credeva che un rivoluzionario doveva sostenerlo.

Inoltre, benché la rivoluzione russa doveva essere una rivoluzione capitalista (la sua missione era quella di sviluppare il capitale e il proletariato nella Russia sottosviluppata), ciò aveva ancora un significato rivoluzionario se la breccia nel sistema mondiale poteva essere esteso verso ovest, in Germania.

Non appena la Russia ebbe raggiunto il suo compromesso con la Germania e altri poteri capitalisti ed ebbe trasformato L’Internazionale Comunista in uno strumento della politica estera per i suoi obiettivi nazionali, un rivoluzionario doveva rompere con la Russia.

Così nel 1926 egli raggiunse la “Sinistra Risoluta” – un gruppo di estrema sinistra opposto alla nuova burocrazia russa e al suo alleato tedesco lo SPD.

Era stato in contatto con Sapronov del gruppo “Centralismo democratico” all’interno del Partito russo che credeva che il proletariato russo doveva rompere con i bolscevichi.

Nella sua opera del 1923,Marxismo e filosofia, Korsch tentava di “restaurare” la posizione marxista su questo argomento allo stesso modo, e per gli stessi obiettivi rivoluzionari, in cui Lenin aveva restaurato la posizione marxista sullo Stato in Stato e rivoluzione (un libello denunciato come “anarchico” dagli altri bolscevichi).

Di fatto ciò che egli fece fu di dimostrare come il marxismo era diventato un’ideologia del movimento operaio: per Korsch il marxismo, sia quello di prima del 1848 nella sua forma filosofica o dopo il 1848 nella sua forma “scientifica”, non fu né una scienza né una filosofia, era la coscienza teorica di una pratica rivoluzionaria proletaria oppure un’ideologia “marxista” non collegata a una pratica oppure dissimulante una pratica contro-rivoluzionaria.

Tutto questo era posto in un contesto di violento attacco contro il marxismo ortodosso di Kautsky, e di conseguenza, diceva Korsch, era contro la seconda Internazionale e a favore della terza Internazionale. Sostenendo queste cose, Korsch calpestava del tutto questa ortodossia marxista, tedesca o russa, socialdemocratica o bolscevica, prendendo ciò molto a cuore.

Nel 1930, quando Korsch si pose il problema di scrivere un’anti-critica, era ben al corrente di quanto era accaduto nel frattempo. A sua insaputa, era stato ritenuto “colpevole” di deviazione nei confronti dell’ortodossia marxista-leninista emergente, basata su Kautsky e Plekhanov.

Per i russi esisteva quindi una filosofia marxista materialista (esposta in Materialismo ed empiriocriticismodi Lenin) e anche una scienza marxista che, seguendo Kautsky, doveva essere apportata al proletariato dall’esterno da parte di intellettuali borghesi (come esposto nel Che fare? di Lenin). Così ciò che Korsch aveva pensato fosse una nuova, terza corrente nel marxismo era giusto una nuova variante ideologica della vecchia ortodossia marxista.

Le caratteristiche speciali del bolscevismo erano semplicemente un riflesso dei compiti speciali che l’ideologia aveva da compiere nella Russia sottosviluppata. La scoperta della natura ideologica della teoria comunista e la rovina di tutti i movimenti operai marxisti rivoluzionari di fronte alla controrivoluzione implicavano una rivalutazione del marxismo.

Per Korsch la teoria marxista era l’espressione generale del movimento rivoluzionario esistente. Durante i periodi controrivoluzionari il marxismo poteva essere ulteriormente sviluppato nel suo contenuto scientifico ma non appena il marxismo era sviluppato come una pura scienza separata dalla sua connessione con il movimento proletario, esso tendeva a diventare un’ideologia.

Così il legame tra la teoria e la pratica non aveva nulla a che vedere con l’applicazione di una scienza ma significava semplicemente che la teoria la coscienza articolata di un movimento rivoluzionario pratico.

Ristabilire il legame richiedeva l’esistenza di un movimento rivoluzionario proletario e la depurazione dal marxismo di tutti i suoi elementi ideologici e borghesi.

Il solo movimento che rispondeva alla descrizione nell’Europa degli anni 30 era il movimento anarchico spagnolo, così Korsch, continuando il suo lavoro sulla teoria marxista, studiò anche Bakunin e il movimento anarchico.

Nella sua opera del 1923, Korsch aveva insistito sul fatto che il marxismo primitivo era una continuazione, in un nuovo contesto, della teoria rivoluzionaria della borghesia, sopratutto della tradizione idealistica tedesca.

Nelle sue “Tesi su Hegel e la rivoluzione” del 1930, tornò su questa questione e rivalutò allo stesso tempo le teorie hegeliane e marxiste. La filosofia hegeliana non era che la filosofia rivoluzionaria della borghesia; era la filosofia della fase finale della rivoluzione e dunque anche una filosofia della restaurazione.

Così il metodo dialettico non è il principio puramente rivoluzionario immaginato dai marxisti. Così anche la creazione di una teoria della rivoluzione proletaria sulla base di una dialettica “materializzata” è soltanto una fase transitoria del movimento operaio.

Il marxismo non è la teoria di una rivoluzione proletaria indipendente ma la teoria di una rivoluzione così come essa si sviluppa al di fuori della rivoluzione borghese e questa teoria mostra le sue origini: essa è ancora impregnata di teoria rivoluzionaria borghese, e cioè di giacobinismo.

Ciò significa che la politica marxista rimane all’interno dell’orbita della politica borghese.

Come dice Korsch nelle sue “Dieci tesi sul marxismo oggi”, scritto nel 1950, il marxismo aderisce incondizionatamente alle forme politiche della rivoluzione borghese. La rottura con la politica borghese è stata portata soltanto dai movimenti anarchici e sindacalisti nella forma della rottura con la politica in quanto tale.

Soltanto questi movimenti erano ancora rivoluzionari nella pratica. Per Korsch la loro importanza consisteva nel fatto che essi conservassero ancora l’ideale, sacrificato ovunque, della solidarietà di classe al di là degli interessi materiali immediati e che si basassero essi stessi sull’auto-attività della classe operaia come espressa nel principio dell’azione diretta.

Quando la guerra civile spagnola esplose nel 1936, Korsch sostiene i tentativi dei militanti della CNT per introdurre l’autogestione operaia in opposizione con la linea politica dei socialisti di destra, degli stalinisti e dei repubblicani borghesi.

Questo sviluppo di una posizione sindacalista opposta alla posizione dell’ortodossia socialista marxista era parallela a una reinterpretazione del marxismo.

Benché Korsch rimase un marxista, la sua visione del marxismo diventava sempre più critico.

Nel 1960 aveva completamente respinto il marxismo come sola teoria della rivoluzione proletaria e aveva fatto di Marx uno, tra gli altri, dei numerosi precursori e promotori del movimento socialista operaio.

Nel 1961 stava lavorando a uno studio su Bakunin e credeva allora che la base di un atteggiamento rivoluzionario durante l’epoca borghese moderna sarebbe dovuto essere un’etica che Marx avrebbe respinto come “anarchica”.

Nelle sue “Dieci tesi” del 1950 aveva criticato anche la sopravvalutazione dello Stato come strumento della rivoluzione e la teoria del socialismo in due fasi attraverso la quale l’emancipazione reale della classe operaia è rimandata a un futuro indefinito.

Così egli respingeva esplicitamente gli elementi del marxismo che separavano quest’ultimo dall’anarchismo. L’opera della sua vita è allo stesso tempo un’esposizione e una critica del marxismo da una posizione politica vicina all’anarchismo. Benché, come Korsch stesso l’abbia dimostrato, il marxismo non sia sufficiente per un movimento rivoluzionario moderno, uno studio del marxismo di Korsch permette di preservare i migliori elementi dell’eredità del movimento operaio classico.

http://1libertaire.free.fr/KorschAmiAnars.html

Tematiche marxiane. Lo Stato. Da: “Glosse marginali di critica all’articolo: Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato Un Prussiano” , (Vorwärts, 1844).

[Lo Stato considerato come strumento imparziale e neutro tra interessi universali e interessi particolari]Vorwärts

Lo Stato non troverà mai nello “Stato e nell’ordinamento della società” il fondamento dei mali sociali, come il “prussiano” pretende dal suo re. Là dove sono partiti politici, ciascuno trova il fondamento di ciascun male nel fatto che al timone dello Stato si trova non già esso ma il suo partito avversario. Perfino i politici radicali e rivoluzionari cercano il fondamento del male non già nell’essenza dello Stato ma in una determinata forma di Stato, al cui posto essi vogliono mettere un’altra forma di Stato.
Lo Stato e l’ordinamento della società, dal punto di vista politico, non sono due cose differenti. Lo Stato è l’ordinamento della società. In quanto lo Stato ammette l’esistenza di inconvenienti sociali, li ricerca o in leggi di natura, cui nessuna forza umana può comandare, o nella vita privata, che è indipendente da esso, o nella inefficienza dell’amministrazione che da esso dipende. Così l’Inghilterra trova che la miseria ha il suo fondamento nella legge di natura, secondo la quale la popolazione supera necessariamente i mezzi di sussistenza. Da un’altra parte, il pauperismo viene spiegato come derivante dalla cattiva volontà dei poveri, così come secondo il re di Prussia dal sentimento non cristiano dei ricchi, e secondo la Convenzione dalla disposizione sospetta, controrivoluzionaria, dei proprietari. Perciò l’Inghilterra punisce i poveri, il re di Prussia ammonisce i ricchi e la Convenzione ghigliottina i proprietari.
Infine, tutti gli Stati ricercano la causa in deficienze accidentali intenzionali dell’amministrazione, e perciò in misure amministrative i rimedi dei loro mali. Perché? Appunto perché l’amministrazione è l’attività organizzatrice dello Stato.
Lo Stato non può eliminare la contraddizione tra lo scopo determinato e la buona volontà dell’amministrazione da un lato e i suoi mezzi come pure le sue possibilità dall’altro, senza eliminare se stesso, poiché esso poggia su tale contraddizione. Esso poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L’amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere. Anzi, di fronte alle conseguenze che scaturiscono dalla natura asociale di questa vita civile, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questa reciproca rapina delle differenti sfere civili, di fronte a queste conseguenze, l’impotenza è la legge di natura dell’amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno, così come la società civile della schiavitù era il fondamento su cui poggiava lo Stato antico.
L’esistenza dello Stato e l’esistenza della schiavitù sono inseparabili. Lo Stato antico e la schiavitù antica – schiette antitesi classiche – non erano saldati l’uno all’altra più intimamente che non siano lo Stato moderno ed il moderno mondo di trafficanti, ipocrite antitesi cristiane. Se lo Stato moderno volesse eliminare l’impotenza della sua amministrazione, sarebbe costretto a eliminare l’odierna vita privata. Se esso volesse eliminare la vita privata, dovrebbe eliminare se stesso, poiché esso esiste soltanto nell’antitesi con quella. Ma nessun essere vivente crede che i difetti della sua esistenza abbiano le loro radici nel principio della sua vita, nell’essenza della sua vita, bensì in circostanze al di fuori della sua vita. Il suicidio è contro natura. Perciò lo Stato non può credere all’impotenza interiore della sua amministrazione, cioè di se stesso. Esso può scorgere soltanto difetti formali, casuali, della medesima e tentare di porvi riparo. Se tali modificazioni sono infruttuose allora l’infermità sociale è una imperfezione naturale, indipendente dall’uomo, una legge di Dio, ovvero la volontà dei privati è troppo corrotta per corrispondere ai buoni scopi dell’amministrazione. E quali sono questi pervertiti privati? Essi mormorano contro il governo ogni qualvolta esso limita la libertà, e pretendono dal governo che impedisca le conseguenze necessarie di tale libertà.
Quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell’odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l’espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale. L’intelletto politico è politico appunto in quanto pensa entro i limiti della politica. Quanto più esso è acuto, quanto più è vivo, tanto meno è capace di comprendere le infermità sociali. Il periodo classico dell’intelletto politico è la Rivoluzione francese. Ben lungi dallo scorgere nel principio dello Stato la fonte delle deficienze sociali, gli eroi della Rivoluzione francese scorsero piuttosto nelle deficienze sociali la fonte delle cattive condizioni politiche. Così Robespierre vede nella grande miseria e nella grande ricchezza un ostacolo alla pura democrazia. Egli desidera perciò stabilire una generale frugalità spartana. Il principio della politica è la volontà. Quanto più unilaterale, cioè quanto più compiuto è l’intelletto politico, tanto più esso crede all’onnipotenza della volontà, e tanto più è cieco dinnanzi ai limiti naturali e spirituali della volontà, tanto più dunque è incapace di scoprire la fonte delle infermità sociali. Non è necessario argomentare ulteriormente contro la balorda speranza del “prussiano”, secondo la quale “l’intelletto politico” è chiamato “a scoprire le radici della miseria sociale per la Germania”.

(Karl Marx, Glosse marginali di critica all’articolo : Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato : Un Prussiano, Vorwarts, 1844)

NOTE

Vorwarts

Marxismo critico. Wertkritik. Anselm Jappe – Not in my name! (a proposito della domanda “Perché votare”?, da: “Critique de la valeur”, marzo 2012.

Not in my name!elezioni, piege a con

A proposito della domanda “Perché votare?”

Anselm Jappe

brecht.jpgIn una delle Storie del signor Keuner di Bertolt Brecht, intitolata “Misure contro la violenza”, Keuner racconta questo: “Un bel giorno, al tempo dell’illegalità, il signorEgge che aveva imparato a dire no, vide venire a casa sua un agente, che presentò un certificato creato da coloro che erano i padroni della città, e sul quale era scritto che ogni dimora nella quale egli metteva piede doveva appartenergli; allo stesso modo, ogni nutrimento che egli desiderava doveva appartenergli, ed ogni uomo che vedeva, doveva diventare suo servitore. L’Agente si sedette su una sedia, chiese da mangiare, si lavò, si mise a letto e chiese con il volto rivolto verso il muro: “Vuoi essere il mio servitore?”. Il signor Egge lo coprì con una coperta, scacciò le mosche, vegliò il suo sonno, e allo stesso modo di quel giorno, gli obbedì per sette anni. Però malgrado quanto facesse per lui, vi fu una cosa che egli si guardò ben dal fare: rivolgergli la parola. Quando i sette anni furono passati, e che l’Agente divenne obeso a furia di mangiare, di dormire e di dar ordini, l’Agente morì. Allora il signor Egge lo avvolse nella coperta tutta rovinata, lo trascinò fuori dalla casa, pulì il giaciglio, passò i muri a calce, respirò profondamente e rispose: “No!”.

elezioniNon ho mai votato in vita mia. Sono anche stato arrestato all’età di 17 anni per aver fatto propaganda anti-elettorale davanti ad un seggio elettorale. Non riesco a capire coloro che pretendono di essere “critici”, “rivoluzionari”, o “contro il sistema” e che vanno lo stesso a votare. I soli elettori che capisco, sono coloro che votano per il loro cugino o per qualcuno che procurerà loro un alloggio sociale.

È vero che, anche se si odia il denaro, non si può attualmente rinunciare al suo uso, e anche se si critica il lavoro, si è generalmente obbligati a cercarlo. Ma nessuno è obbligato a votare, né ad avere la televisione. A volte si è obbligati a tacere, ma non si è mai obbligati a dire: “Sì, padrone”.

landauer

Si può votare senza credervi, considerando soltanto la piccola differenza che potrebbe comunque esistere tra il candidato X e la candidata Y, tra il partito dei berretti bianchi ed il partito dei bianchi berretti? I candidati, i partiti e i programmi mi sembrano tutti uguali. Ma se le cose stanno così, mi si potrebbe obiettare, perché non partecipare alle elezioni con un programma diverso, non fosse che per attirare l’attenzione del pubblico, avere un rappresentante al consiglio comunale o al Parlamento, farsi rimborsare le spese per la propaganda? La cosa è andata male per tutti coloro che ci hanno provato, anche su scala locale. “Chi mangia dello Stato, ne crepa“, diceva Gustav Landauer, che ha pagato con la vita la sua partecipazione a un tentativo di cambiare realmente le cose, invece di andare a votare. La macchina politica stritola coloro che vi partecipano. Non è una questione di carattere personale. Bakunin diceva giustamente: “Prendete il rivoluzionario più radicale e ponetelo sul trono di tutte le Russie o conferitegli un potere dittatoriale- prima di un anno, sarà diventato peggio dello zar“.

elezioni, suffragettes

Ma esiste comunque una differenza, mi si obietterà, se non tra l’Olanda e Sarkozy, per lo meno tra Jean-Luc Mélenchon e Le Pen! Se non ci fossero che loro al secondo turno, e se tutto dipendesse dal tuo voto? Riusciresti comunque ad evitare il peggio, non foss’altro che per salvare qualche immigrato dalla deportazione! -Innanzitutto, è ridicolo evocare tali improbabilità, come lo si faceva nel 2002 per spingere il gregge verso i seggi elettorali. E il nemico, è sempre l’elettore: il problema non è Le Pen o Berlusconi, ma i milioni di Francesi o di Italiani che li amano perché li trovano simili ad essi.

elezioni, voting...E poi la domanda è malposta. Negli ultimi decenni, dei rappresentanti della sinistra, soprattutto della sinistra comunista o radicale, hanno partecipato a numerose esperienze di governo, nel mondo intero. Da nessuna parte essi hanno mostrato ripugnanza nell’applicare le politiche neo liberali, anche le più feroci; spesso sono essi che hanno preso l’iniziativa. Non conosco un solo caso di un membro della sinistra al potere che si sia dimesso dicendo che non poteva seguire una tale politica, che la sua coscienza glielo proibiva. Coloro che sono capaci di simili scrupoli non saranno nemmeno proposti alle elezioni comunali dai loro colleghi di partito.

election01Tuttavia, la corruzione esercitata dal potere, il gusto del privilegio, l’ambizione non costituiscono che il livello più superficiale della domanda. Il vero problema, è che viviamo in una società retta dal feticismo della merce, sia in “politica” sia in “economia”, non esiste nessuna autonomia delle persone, nessun margine di manovra. Se esiste un’autonomia, essa esiste fuori dalla politica e dall’economia, e contro quest’ultime. Si può in una certa misura, rifiutare di partecipare al sistema, ma non si può parteciparvi sperando di migliorarlo. Le “maschere”, come Marx chiamava gli attori della società capitalista, non sono gli autori dello scenario che essi sono chiamati a recitare. Essi non sono lì che per tradurre in realtà le “esigenze del mercato” e gli “imperativi tecnologici”. Perché allora meravigliarsi se coloro che vogliono “giocare il gioco”, una volta che arrivati a ciò che si chiama molto ingiustamente “il potere”, non fanno che essere “realisti”, concludono delle alleanze con i peggiori esseri spregevoli e si esaltano per ogni piccola vittoria ottenuta in cambio di dieci porcherie che hanno dovuto accettare allo stesso tempo? E vi ricordate di coloro che erano convinti che delle donne, o dei neri, o degli omosessuali dichiarati in politica  avrebbero fatto una politica “diversa”?

Vi erano effettivamente delle buone ragioni per preferire la democrazia borghese allo stalinismo o al fascismo. Ma Hitler non è stato fermato da nessun “voto utile”. È certo che non è attraverso la scheda elettorale che si eviterà il peggio, al contrario. “Elezioni, trappola per coglioni” [Elections, piège à cons], si urlava per le strade nel 1968. Alle urne, era sempre il Generale a vincere.

Anselm Jappe

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Daniel Guerin – Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921; da: “A la recherche d’un communisme libertaire”, 1981.

Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

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Daniel Guérin

Testo dell’intervento di Daniel Guérin durante il colloquio “De Kronstadt à Gdansk”, organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s’impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora “cento volte più a sinistra” dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell’aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d’ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede “il controllo della produzione”, precisando: “Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma […] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai”. In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all’applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l’ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell’insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all’opposto dell’ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell’economia dall’alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nel suo libro Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell’insurrezione d’Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l’economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: “Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta […] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre”. Fare a meno di “autorità” e di “subordinazione”, sono questi, egli afferma seccamente, dei “sogni anarchici”. Tutti i cittadini diventano “gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato”, tutta la società p convertita in “un grande ufficio e una grande fabbrica”.

Soltanto, dunque, delle considerazioni d’ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E’ accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall’intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al “pugno di ferro”.

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall’ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti – ristretti –  della loro autonomia. Il controllo operaio “instaurato nell’interesse di una regolamentazione pianificata dell’economia nazionale” (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un “consiglio generale di controllo operaio”, la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell’insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un’economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l’annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l’autogestione non terrebbe conto dei bisogni “razionali” dell’economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l’un l’altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti “per lo Stato” e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l’ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall’altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell’economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell’economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la “volontà di uno solo” nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire “incondizionatamente” alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l’introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di “specialisti”, vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all’interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell’economia. Conviene qui ricordare che il “Manuale pratico per l’esecuzione del controllo operaio nell’industria” una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l’utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l’amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell’antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell’economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell’economia (26 maggio – 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d’impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell’economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all’insieme dell’industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. È il Consiglio superiore dell’economia che è incaricato di organizzare l’amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle “guardie comuniste”, armate, dell’impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

“Volete diventare le cellule statali di base”, dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest’ultimi non hanno più che l’ombra di un potere. Oramai il “controllo operaio” è esercitato da un organismo burocratico: l’ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l’hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall’apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall’ignoranza o l’arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso “Stato proletario”.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Il partito della mistificazione; da: “Le Monde”, 7 maggio 1976.

Il partito della mistificazione
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Maximilien Rubel

Nel dibattito sull’«abbandono» da parte del partito comunista francese della dittatura del proletariato, nessuno sembra aver menzionato un fatto che meriterebbe tuttavia di essere posto in luce. Esso permette di illuminare, infatti, meglio di ogni altro il senso e la natura di questa procedura: è il partito che si arroga il diritto di decidere se il proletariato deve oppure non esercitare la sua dittatura; è il partito, addirittura il suo segretario circondato dai suoi ideologi, che, sostituendosi alla classe e alla massa dei lavoratori, decide di cancellare con un colpo di penna ciò che, secondo Marx, rappresenta un “periodo”, transitorio certo, ma necessario e inevitabile dell’evoluzione della società e affatto un fenomeno accidentale suscettibile di essere abbandonato o accettato a piacere degli imperativi della nuova strategia politica dettata dal programma comune. Il partito si guarda bene dal rimettere in questione l’essenziale, e cioè le sue prerogative, di rappresentante autoproclamato della classe operaia. E’ sempre lui che, attraverso la voce dei suoi capi, decide al posto della classe operaia, è lui che definisce la natura e la forma che deve assumere l’azione di questa classe; e nulla garantisce che l’abbandono della dittatura del proletariato comporti l’abbandono della dittatura sul proletariato, la sola che importa al partito.

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Il concetto di dittatura del proletariato è parte integrante della teoria dello sviluppo del modo di produzione capitalista e della società borghese, sviluppo di cui Marx afferma di aver rivelato “la legge naturale”. Engels colloca questa teoria tra le due grandi scoperte scientifiche del suo amico, dopo la concezione materialistica della storia comparabile alla scoperta di Darwin: “Così come Darwin ha scoperto la legge dell’evoluzione della natura organica, Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana”. Il postulato politico della dittatura del proletariato si inscrive nella prospettiva di una società capitalista pienamente sviluppata, terreno dello scontro tra una classe possidente fortemente minoritaria, ma al culmine del suo potere, e una classe operaia ampiamente maggioritaria, espropriata economicamente e socialmente, ma intellettualmente e politicamente matura e adatta a stabilire il suo dominio per la “conquista della democrazia” per mezzo del suffragio universale. Giunta a questa posizione dominante, il proletariato non userà la violenza, soltanto nel caso in cui la borghesia lasciasse il terreno della legalità allo scopo di conservare i suoi privilegi di dominio. La dittatura del proletariato è descritta nella conclusione di Il Capitale come “espropriazione degli espropriatori”, detto altrimenti come “espropriazione di alcuni usurpatori da parte della massa”.

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Pur limitate a una determinata tappa dell’evoluzione globale del genere umano, le leggi e le tendenze dello sviluppo dell’economia capitalista “si manifestano e si realizzano con una necessità di ferro”, i paesi sviluppati industrialmente mostrano ai paesi meno sviluppati “l’immagine del loro proprio futuro”. Donando la parola a un critico russo di Il Capitale, Marx sottoscriveva senza riserva una interpretazione che poneva del tutto l’accento sul determinismo implacabile della sua teoria sociale: essa “dimostra”, dichiarava questo critico, “al contempo la necessità dell’attuale organizzazione, la necessità di un’organizzazione nella quale la prima deve necessariamente passare, che l’umanità vi creda creda oppure non, che ne abbia oppure non coscienza”. Marx stesso non è meno categorico: “Quando una società è giunta a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (…) essa non può superare con un salto né abolire attraverso dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i mali del loro parto”. (Il Capitale).

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Cosa si dovrebbe pensare di una società di scienziati che oserebbe proclamare la “rinuncia” alla legge newtoniana dell’attrazione universale o alle leggi mendeliane della ibridazione delle piante e dell’ereditarietà nei vegetali? E chi invocherebbe, per giustificare la sua decisione, il carattere “non dogmatico” di queste leggi, senza preoccuparsi di confutarle con dei metodi scientifici, ma pretendendo un profondo cambiamento dei modi di pensiero nelle classi non intellettuali? Questa società “sapiente” si ricoprirebbe di ridicolo. Questo è tuttavia l’atteggiamento della compagnia sapiente che si proclama comunista e marxista che, pur richiamandosi ad una teoria di cui non cessa di proclamare il carattere scientifico, ne respinge l’insegnamento maggiore, quello stesso che interessa l’esistenza della maggioranza degli uomini: agendo in nome del “socialismo scientifico”, i suoi dirigenti e ideologi non dichiarano che l’evoluzione delle società capitaliste ha reso caduco l’imperativo della dittatura del proletariato, il che equivarrebbe a rimettere in questione una tesi che Marx stesso considerava come il suo principale apporto al socialismo scientifico.

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Importa poco di sapere se “l’abbandono della dittatura del proletariato” risponde a degli imperativi di tattica elettorale o rinvia ad altre preoccupazioni: perché questo “abbandono” significa in fondo che i responsabili della politica del partito eliminando dal dibattito il principale interessato, il proletariato, il solo che abbia come “missione storica” di liberare le società dalla schiavitù del denaro e dello Stato, dunque di esercitare la sua dittatura. Così lo esige la scienza di Marx così come il semplice buon senso non marxista: la dittatura del proletariato non potendo essere altro che affare degli sfruttati – dunque della quasi totalità della specie umana, – la decisione di un partito, qualunque esso sia, di cancellare un postulato la cui portata etica la contende al rivestimento scientifico non potrebbe non avere il minimo effetto sull’evoluzione della società e la vocazione rivoluzionaria ed emancipatrice dei moderni schiavi. Perché se il movimento operaio è, secondo il “Manifesto comunista“il movimento dell’immensa maggioranza”, la dittatura del proletariato può essere definita come il dominio dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza, detto altrimenti, l’autodeterminazione del proletariato. Insomma, essa è destinata a realizzare le promesse di una democrazia integrale, l’autogoverno del popolo, contrariamente alla democrazia parziale (borghese) di cui le istituzioni assicurano la dittatura dei possidenti – del capitale che controlla il potere politico, dunque di una minoranza di cittadini – sui non possidenti, dunque sull’immensa maggioranza dei cittadini. In queste condizioni, come spiegare che un partito che si richiama a Marx e al comunismo abbandona una concezione della dittatura del proletariato che – a torto o a ragione – annuncia l’avvento della democrazia integrale?

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Quando prima del 1917 Lenin sognava per la Russia un autogoverno degli operai e dei contadini, dopo la presa del potere, si orienterà verso la concezione di una dittatura del proletariato suscettibile di essere esercitata dalla “dittatura di alcune persone”, addirittura “dalla volontà di uno solo”; questa concezione corrispondeva perfettamente allo stato economico e sociale di un paese che poteva tutto “sviluppare” tranne il… socialismo, la dittatura del partito avendo come obiettivo la creazione del proletariato “sovietico” e non l’abolizione di quest’ultimo. Dunque la creazione di rapporti sociali compatibili con lo sfruttamento del lavoro salariato e il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ a questa scuola e non a quella di Marx che i dirigenti dei partiti comunisti hanno preso le loro lezioni di uomini politici. E’ essi stessi che condannano prendendo la distanza con un regime che ha saputo costruire per milioni di contadini proletarizzati un arcipelago di gulag la cui descrizione non ha eguali che nell’Inferno di Dante.

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L’imperativo della dittatura del proletariato implica la visione dell’abbreviamento e dell’addolcimento dei mali del parto della società infine umana. Le rivoluzioni “marxiste”, russa e cinese, non hanno fatto che suscitare il male che esse ritenevano di aver soppresso. Questa è la mistificazione della nostra epoca. E se i partiti detti operai possono decretare “l’abbandono della dittatura del proletariato”, non è perché il proletariato non ha (ancora?) questa coscienza rivoluzionaria che la concezione materialista della storia considera come il risultato fatale del divenire-catastrofico del modo di produzione capitalista in piena espansione mondiale?

[Traduzione di Massimo Cardellini]